giovedì 7 giugno 2007

pennellate

pennellate
homo interrogans (Giovanni Sicuranza)

Non c’è aria.
O meglio, chiaro che c’è, altrimenti leggere questo racconto sarebbe l’ultima delle vostre preoccupazioni, ma è che così pesante che per trovarla occorre inchinarsi al pavimento della stanza, con naso e bocca supplicanti per una brezza di ossigeno tra spore di acari.
E il punto è che, ora, non è il caso che né io né voi lo facciamo, perché se abbassate lo sguardo verso la fonte di quel verso lungo e appiccicoso che proviene dal suolo ogni volta che sussurrate un passo, vi renderete conto che state avanzando su una pozza densa.
E se anche il vostro respiro ha un singhiozzo e si ferma alla vista del suo aspetto cupo, privo di riflessi nonostante il sole si tuffi feroce nella stanza, del suo colore rossastro di silenzi assoluti, e, sopra tutto questo, se ascoltate la prepotenza dell’odore dolciastro che esala da ogni frammento della pozza per catturare l’aria e trascinarla nella melma che avvolge i vostri piedi, allora avete capito come me che siamo capitati in una macelleria in piena attività.
Ma anche che tutto questo è sbagliato, profondamente sbagliato, perché non abbiamo iniziato la lettura descrivendo la scena in un negozio di carni, o del suo anfratto, che, per quanto gravido di sangue e mosche, e proprio per questo di solito celato alla vista dei clienti, rientrerebbe comunque in uno scorcio di normale vita sociale.
No, lo vedete bene, quello al vostro fianco è un armadio, appena aperto e completamente buio, come una bocca priva di denti che stia succhiando il relitto d’aria sfuggito all’afa e al sangue. Perché proprio dal suo interno l’umidità appiccica sguardi e pensieri come la lunga lingua di un predatore. Quindi voltatevi, è meglio, e guardate ancora davanti a voi, nello squarcio regolare della finestra sulla parete e nella sua intuizione del pomeriggio esploso tra le chiome reclinate degli alberi.
State dunque realizzando che siete in una stanza, in una stanza da letto per essere precisi, e scusate se, dopo tutto questo subbuglio di stomaco non vi invito a sedervi sul letto, perché è proprio lì che si trova l’origine del sangue, dell’odore. E dei silenzi.
L’uomo è completamente nudo, in posizione supina sulla sponda che lambisce la parete della finestra. Sembra osservarvi, vero, con occhi enormi e foschi, e forse è questo il primo particolare in cui la vostra mente decide di smettere di tentare di reggersi in equilibrio e crolla.
Ma spesso la curiosità è più forte di ogni istinto di conservazione. E continuate a guardare.
Solo intorno a quello sguardo spalancato c’è l’accenno imbiancato della morte. Tutto il resto del corpo è un luccichio di sudori di sangue che guizza tra le lenzuola, tra i capelli afflosciati e si inarca sui profili delle braccia, delle gambe, del pene.
Già, perché scommetto che anche se siete diventati deserto di pensieri e parole, un’occhiata tra le gambe l’avete proprio cercata, veloce e subito dispersa tra altri particolari, come l’indifferenza che distendete sui vostri giochi quotidiani,
Ora potete anche urlare, credo sia giunto il momento.
Potete uscire da questa stanza sapendo che in realtà non ve ne andrete mai, perché ogni goccia di sangue ed afa che avete ascoltato ha catturato la vostra memoria.
Senza ritorno.
D’altra parte l’inchiostro sta terminando e, scusate, anche le forze.
Prima di perdere i sensi devo ancora telefonarvi per avvisare di raggiungermi.
Vi ho detto che sono uno scrittore originale, che vi conviene pubblicarmi perché di me si parlerà negli anni.
Voi avete soffiato il vostro respiro di sagace indifferenza sui miei desideri.
Ma forse ora vi ricrederete.
Ora che ho scritto l’ultimo racconto con il mio sangue.
Sulle pareti di questa stanza.

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