lunedì 11 giugno 2007

belladonna

bella donna
racconto di Giovanni Sicuranza

- Non sta prendendo troppo caffé?
La tazza si ferma a pochi istanti dalle labbra, indecisa. Ma l’aroma continua ad arrampicarsi fino al naso, su volute di fumo, e porta con sé la risposta.
La donna sorride appena, chiude gli occhi e beve un sorso.
- Mai abbastanza – risponde riaprendo gli occhi, la tazza avvolta dalle mani all’altezza delle labbra. Guarda l’uomo anziano seduto di fronte a lei.
Sono ad un tavolo da quasi mezz’ora, nella penombra di un bar in chiusura, e lui ancora non le ha svelato nulla. Non ha nemmeno iniziato a bere il the che ha ordinato e che ormai, a giudicare dall’assenza di fumo, deve essere un’agonia di liquido scuro.
Si limita a fissarla, o a sviare l’argomento con sciocche domande sulle sue abitudini.
Ma ancora non risponde a quelle di lei. Buffo, visto che tra loro, la donna è la giornalista e l’uomo l’intervistato.
- È solo che troppo caffé fa salire la pressione – si giustifica l’uomo con un’alzata di spalle – Lo so perché il dottore me li ha vietati – risata breve, nervosa, che spezza il tono sommesso delle parole - Veramente mi ha vietato ogni svago, fumo, alcool, persino sesso. Ma per questo ormai ho poche ambizioni – poi il tono torna quel mormorio monotono ed inconcludente che sta innervosendo la donna – Lo dicevo solo per i suoi occhi, signora.
- I miei occhi? – la tazza di caffé ha un sussulto di sorpresa.
- Ha occhi molto belli, che dovrebbe valorizzare – l’uomo si sporge verso lei, lei arretra sullo schienale della sedia – Invece tutto quel caffé le rimpicciolisce le pupille.
- Ma pensa – sbuffa lei, le parole che fendono la scia di fumo del caffé e la fanno ondeggiare.
Quindi poggia la tazza sul tavolo e si china a sua volta verso l’uomo. Lui rimane fermo, gli occhi nei suoi.
- Signor Dalaiti – sussurra imitandone il tono – Se continua a divagare, tra poco qui sarà così buio che non riusciremo nemmeno a vederci in faccia. Altro che occhi.
Le labbra di lui diventano sorriso, e lo fanno in un modo così debole che lei legge solo amarezza.
- È venuta per una storia che sanno già tutti. Di cosa dovrei parlare ancora?
Lei si guarda intorno, veloce, da una parta, dall’altra.
Nessuno oltre loro. Solo il barista è una presenza svelata alle sue spalle dal suono di bicchieri e acqua corrente.
Si chiede se sia stato un bene incontrare quest’uomo nel bar dove passa gran parte della giornata da sette anni. Ha pensato che era il luogo per proporgli un’intervista, ma ora teme che nemmeno nel suo ambiente abituale si sente del tutto a suo agio.
- Mi aveva promesso – inizia.
Lui alza una mano.
- Dottoressa – e si ferma, le sopracciglia che si alzano, perplesse.
- Tirana – le ricorda lei, veloce – Sofia Tirana.
- Non se la prenda, dottoressa Sofia Tirana. Manterrò la promessa – Dalaiti si volta verso la vetrata, lo sguardo che vaga tra le movenze assopite del piccolo paese - È che sono passati tanti anni ed ora tutto mi cade di nuovo addosso.
- Beh – fa’ lei, le mani che prendono la tazza e la sollevano. Gli occhi cadono nel caffé ancora fumante, poi salgono a cercare il volto dell’uomo. La tazza torna sul tavolo – Senta, adesso le tecniche sono diverse, più sofisticate, e c’è chi vorrebbe riaprire il caso.
Dalaiti annuisce.
- Certo, certo. Ci sono quegli esperti ora – la mano si agita nell’aria – come si chiamano.
- Botanici forensi.
- Ecco, quelli, e voi giornalisti tornate subito da me – la mano si abbandona sul tavolo con un tonfo di protesta.
Lo sguardo di Sofia coglie il sussultare del caffé e rimane a vagare in quel liquido nero, mentre le parole dell’uomo giungono lontane.
- Avevamo preso la casa da pochi giorni, cosa ne potevo sapere dello scheletro.
La giornalista annuisce, gli occhi ancora nel buio del caffé.
- Gli inquirenti sospettavano che sua moglie si fosse suicidata. Ma durante le ricerche hanno trovato uno scheletro. Allora hanno pensato che lei potesse averla, ecco, sì, uccisa.
Torna a guardare l’uomo. Che tace, che ha occhi come fessure, ora, e le labbra serrate, deformate in una smorfia.
- È vero – si affretta ad aggiungere Sofia – Hanno trovato uno scheletro e sua moglie era scomparsa da due giorni.
- E noi eravamo in quella casa da una sola settimana – ribadisce lui, duro.
- Però – la donna sospira, in un gesto veloce afferra di nuovo la tazza e beve un sorso – Però, senta.
Ancora la mano dell’uomo sale ad interromperla.
È grande, questa mano, Sofia se ne rende contro solo ora, nei riflessi del tramonto che filtra dai vetri e accentua i profili.
È grande come un badile.
- So già cosa vuole dirmi. Mia moglie è scomparsa da allora.
- E il terreno sopra il cadavere era stato smosso da poco.
- Errore, mia cara – l’uomo chiude gli occhi – Tutto il terreno era stato appena smosso. Era per via della passione di Guendalina.
- La passione di? – echeggia lei, mentre si affanna a cercare nella mente l’informazione che le manca. Non trova nessuna passione in quello che sa della donna, solo un lungo mistero grigio.
Eppure si è preparata bene sul caso Dalaiti.
***
Sette anni prima di questo incontro.
Sono nuovi del paese, i coniugi Dalaiti. Si sono trasferiti da pochi giorni, dopo che la figlia, l’unica figlia, è morta.
La madre era entrata presto nella sua camera, per svegliarla, perché quella mattina cominciava la gita con il suo fidanzato, ma subito aveva capito che la figlia non stava dormendo. Gli occhi sbarrati sul nulla, la bocca piena di schiuma rosata. Edema polmonare acuto, aveva accertato il medico necroscopo, e da allora casa Dalaiti era precipitata in un silenzio gravido di dolore.
Fino a quando i coniugi Dalaiti avevano smesso di vagare in quel cimitero di ricordi e si erano decisi per il trasloco. E per ricominciare a vivere hanno scelto una piccola villa di paese al confine con la campagna.
Un tentativo durato una sola settimana.
L’ottavo giorno, durante una giornata umida d’estate, un agitato signor Eugenio Dalaiti denuncia la scomparsa della moglie.
La signora Guendalina Dalaiti è andata a dormire la sera prima, alle ventidue e trenta, come sempre. Prima ha anche salutato alcuni boscaioli che tornavano ai focolari. Lo ha fatto dalla veranda con un cenno della mano, ampio, allegro, come puntualizzeranno in seguito gli uomini.
E la mattina dopo, senza premesse, senza biglietti, senza un che, è svanita.
Il marito lo scopre al risveglio, mentre l’alba si adagia nella parte del letto che lei ha scelto. Anche lui adagia la mano sulle lenzuola, a seguire i raggi di soli. E le sente vuote. Fredde.
L’uomo è disperato, teme il suicidio. E subito iniziano le ricerche.
Al primo sopralluogo, i Carabinieri scoprono che dal giardino dei Dalaiti, pieno di erbe lunghe e verdi, proviene un odore strano. Non è odore di morte, ma è comunque sgradevole. Intenso. Ma non solo. Il terreno è stato smosso da poco. Ovunque.
Subito sono disposti gli scavi. Mentre nessun angolo è risparmiato dalla furia delle ruspe, uno scheletro emerge dai silenzi della terra.
La situazione si complica.
Eugenio Dalaiti ha ucciso sua moglie e ne occultato il cadavere?
Impossibile. Guendalina è svanita. Ma da pochi giorni.
Quello scheletro sembra essere lì da anni. E i coniugi Dalaiti hanno acquistato la villa dopo il decesso del vecchio proprietario, il mite edicolante Pierpaolo Antonio Sfoglia, tra l’altro affetto da una forma di asma così grave da costringerlo al guinzaglio di una bombola ad ossigeno. Nessuno riesce ad immaginarlo mentre scava una fossa e seppellisce un corpo.
Ma intanto Guendalina Dalaiti non si trova. E quello scheletro parla poco.
Però ciò che dice potrebbe incastrare il marito affranto. Il bacino è largo come quello di una donna, le facce articolari sono consumate come quelle di una persona non più giovane. Insomma, ad immaginare le ossa di Guendalina Daliti al momento della scomparsa, è proprio così che dovrebbero essere.
Solo che quello scheletro non ha tracce di organi molli, né di scalfitture che porterebbero ad ipotizzare l’asportazione forzata della carne. Anzi, ad esaminarlo bene non ha proprio nessun segno di lesione.
Guendalina Dalaiti è scomparsa da pochi giorni, ma il segreto che cela il suo giardino è quello di una donna anziana morta da anni e senza traumi.
Sette anni dopo, il mistero è rimasto ancora un punto interrogativo senza soluzione.
Solo il signor Eugenio Dalaiti sembra rassegnato e, solitario, trascorre le ferite della sua vita tra la casa e il bar. Ogni tanto giornalisti come Sofia Tirana, in cerca di notizie in un luogo dove le vicende più appetitose riguardano la squadra di calcio, tornano da lui.
Che non sembra mai sorpreso, e se ne sta lì, ad ascoltare domande, in penombra, in silenzio, come un fiore appassito che non aspetta più nulla, nemmeno l’acqua, nemmeno.
***
- La passione di sua moglie era per i fiori! - si illumina Sofia.
No, dice l’uomo anziano seduto di fronte a lei.
- No?
Eugenio Dalaiti sospira sopra anni di sospetti che tornano a trovarlo periodicamente, unici conoscenti rimasti dopo la perdita della figlia e della moglie.
- Erbe, mia cara dottoressa, mia moglie aveva la passione delle erbe.
- Ah – inizia Sofia e sorride – Dovevo ricordarmelo – poi spalanca gli occhi sul viso afflosciato dell’uomo - Ecco perché vogliono riaprire il caso e fare analizzare lo scheletro dai botanici. Cercano tracce di erbe.
- Possono trovarne, vero? – chiede lui, con apparente distacco.
Ma Sofia ha un sussulto. Intuisce che è una domanda importante, la prima vera informazione che l’uomo cerca da quando si sono presentati.
- Certo – si affretta a spiegare - Anche le erbe possono dare indizi di un omicidio – Sofia si morde un labbro – Cioè, di una morte, volevo dire.
L’uomo abbassa lo sguardo e in quel gesto Sofia capisce qualcos’altro. Eugenio Dalaiti le ha posto la domanda con rassegnazione.
Allora, forse senza nemmeno deciderlo razionalmente, allunga una mano su quella dell’uomo.
- Cosa è successo a sua moglie? – sussurra.
Un silenzio lungo, che si innalza sopra i suoni del barista, sopra il ronzio delle luci al neon.
- L’ha uccisa lei, signor Dalaiti?
L’uomo non risponde. Non subito. Prende la tazza di the e si decide a bere un sorso, lungo. Poi, come nel timore di rompere la porcellana, lento la ripone sul tavolo.
E quando finalmente solleva gli occhi, Sofia Tirana entra in un abisso di dolore.
***
- Vado io! – esclama la donna in uno slancio gioioso e già corre verso la porta.
Il marito rimane immobile, stupito, seduto sul divano dove stavano discutendo del loro futuro fino a un istante prima del suono del campanello. Il tono di lei, il suo rapido scatto gli hanno mostrato di nuovo una donna che credeva non esistesse più, non dalla morte della loro figlia, almeno. Per questo se ne sta ancora lì, con il riflesso di un sorriso rivolto alle tende chiuse del balcone.
- Entri pure, venga, non si preoccupi della terra, sa abbiamo appena dato una sistemata a tutto il giardino – sente la raffica di parole della moglie esplodere dall’atrio – Eugenio, Eugenio, per favore.
- Arrivo – fa’ lui e si alza, il sorriso che è già diventato un ricordo lontano.
L’uomo sull’atrio è così magro che per un attimo Eugenio è sicuro di vederlo spezzarsi sotto il peso del contenitore che sta trasportando. La moglie, invece, deve essersi già frammentata in qualche spazio sub-atomico, perché continua a sentirne la voce, ma non riesce a vederla.
- Guendalina? – chiede con parole pesanti di timore.
- Uff –l’estraneo scivola sulla parete, il sacco abbandonato proprio sull’uscio – Buongiorno signore.
- Guenda … Buongiorno a lei – risponde Eugenio e si decide ad avvicinarsi – Sta bene?
L’altro ha gli occhi chiusi sotto una cascata di sudore, sibila come in un attacco di asma, ma annuisce.
- Signore, mi scusi, signore, sto bene, ma se, per favore – e indica il sacco senza aprire gli occhi.
- Guendalina? – ripete ottuso Eugenio.
L’altro appoggia il capo sulla parete con un tonfo sordo.
- Sta bene? – chiede ancora Eugenio, certo che quello sia rumore di ossa, aspettando l’uscita del sangue dalla nuca dell’uomo.
Silenzio.
- Guendalina?
E allora l’uomo apre gli occhi e fissa Eugenio con un’espressione obliqua tra il compatimento e la perplessità.
- Signore, è sicuro, lei, di stare bene?
- Come, scusi?
- Nel senso, sa, le chiedevo solo se mi dava una mano a sistemare il sacco in casa – un lungo sospiro – Ce ne sono a decine sul camion e io sono solo.
- Ma certo, però, ecco.
- Sua moglie è corsa in giardino – e con queste parole l’uomo chiude di nuovo gli occhi, e si passa una mano sulla fronte.
Per Eugenio a questo punto può anche accasciarsi al suolo in una scia di sudore sulla parete. Scavalca il sacco e si precipita sulla veranda.
Sua moglie è proprio in giardino, che zampetta sulla terra smossa, attenta a non finire in una delle tante buche che hanno scavato durante la mattina e il giorno prima pure.
Eugenio apre la bocca in un ovale pieno di incredulità.
Eccola la sua Guendalina, una sessantenne depressa, una semina di artrosi in tutto il corpo, eccola che salta come una bambina.
Rimane così, a guardarla, trattenendo anche il respiro per non rompere quel momento folle e stupendo. Fino a quando anche lei lo vede e si ferma.
- Eugenio, sono arrivate! – urla, le braccia che si lanciano al cielo.
Lui solleva una mano sopra la testa, in modo che la moglie possa vedere bene, e alza il pollice. Lei gli risponde battendo le mani.
- Beh, devono proprio valere molto queste erbacce per sua moglie – annaspa una voce alle sue spalle.
Eugenio si volta, duro.
- Non sono erbacce.
L’altro annuisce, senza scomporsi.
- Per me, basta che mi date una mano e mi pagate.
- Eugenio!
L’uomo si gira ancora verso la moglie.
Lei gli manda un bacio con la mano. Lui annuisce, appena, anche se sa che il suo gesto non può essere visto.
- Senta – si rivolge poi all’altro uomo, che ancora non trova un ritmo naturale di respiro – Entri dentro che le offro un bicchiere di acqua e la pago. Per le erbe non si preoccupi, ci aiuta solo a scaricarle dal camion e poi è libero di andare.
Prima di entrare dedica un’altra occhiata alla sua donna, che ha ripreso a danzare nel giardino.
Decide che questo dovrà essere il ricordo di sua moglie, quello che porterà sempre con sé.
***
La tazza è sul tavolino, avvolta dai loro sguardi. Tutto intorno, la stanza è solo un sussurrio di particolari che ondeggiano pigri alla fiamma di una candela.
- Nostra figlia aveva ragione. Il sapore è gradevole.
- Ne verso ancora, allora.
- Aspetta.
Guendalina allunga una mano sul braccio del marito.
- Accendi le altre candele, prima.
- Sicura? Credevo volessi fare tutto all’ombra – esita Eugenio, l’infuso già inclinato verso la tazza.
In realtà l’idea di un’unica candela ad illuminare questa lunga sera che scende sulla vita è stata proprio sua.
- Non tirarti indietro, Eugenio – la mano si stringe ancora di più sul braccio e lo costringe a posare l’infuso sul tavolo – So che preferisci non vedere la mia trasformazione, ma è la stessa che aveva nostra figlia.
Eugenio sospira. Inutile aggiungere che proprio quella trasformazione ha ucciso la figlia.
Lo sanno bene, è il loro segreto. E a questo se ne sta aggiungendo un altro, forse ancora più terribile.
Si alza e si sposta sulle altre candele, accendendole una ad una con un lungo fiammifero da forno. Quando ha terminato, rimane ad osservare i bagliori rossi che si rincorrono frenetici sulla parete.
- Girati, Eugenio – lo invita Guendalina alle sue spalle.
- Guendalina, io.
- Guardami, Eugenio, guarda il mio viso.
E l’uomo si gira. Si gira verso la moglie che sta già cambiando. Si gira sul suo viso che ha lo stesso colore rosso delle fiamme, sui suoi occhi che sono pupille enormi, dilatate di blu.
- Sei come lei – sospira, senza riuscire a muovere un solo passo.
Guendalina sembra sorridere, anche se è solo un’intuizione sui muscoli del viso che si stanno paralizzando.
- Nostra figlia prendeva sempre la bella donna. A dosi minime. E davvero sembrava bella, ricordi? Gli occhi che diventavano un verde enorme, immenso, il viso luccicante. Era proprio un fiore.
- Ma quel giorno ha sbagliato dosaggio – mormora Eugenio, improvvisamente smarrito in se stesso – Voleva fare colpo sul suo nuovo fidanzato e – china il capo, i capelli disegnati dalle luci delle candele, cespugli di erba infuocata su uno sfondo nero.
- Versane ancora, mio amore – lo invita Guendalina allungando una mano tremante verso di lui – È il nostro ultimo patto, lo sai. Il nostro ultimo segreto.
- Il mio ultimo segreto – corregge lui, chiedendosi dove sta trovando la forza per parlare ancora.
- E lo manterrai per sempre, lo hai giurato.
- Sì – la rassicura Eugenio, ascoltando la sua voce come se fosse quelle di un altro.
E mentre prende il contenitore dell’infuso per riempire ancora la tazza della moglie, gli sembra che anche i suoi gesti siano diventati quelli di un altro.
Continua ad estraniarsi, a pensare ad un altro, mentre sua moglie beve e trema, beve e inizia a delirare di prati gialli e rossi, beve e si addormenta.
Allora lui inizia a cantare una filastrocca, e lo fa con una voce che non è sua, non può essere sua, perché anche se va avanti, tutto quanto accade è solo un incubo. Canta alla danza delle fiamme, canta mentre la sera diventa notte.
E ancora canta mentre Guendalina muore.
***
Sofia ha un sussulto. Allarga le braccia e lancia uno sguardo verso l’alto mentre la tazza di caffé si accascia sul tavolo.
- Non si preoccupi – sente la voce di Dalaiti – è solo lo sfrigolio di un insetto contro il neon.
- Già – ammette lei, afflosciandosi sulla sedia e sentendo il volto che diventa fiamma. Osserva la tazzina reclinata su un fianco, un rivolo di caffé che esce sul tavolo.
Come sangue nero dalla bocca, pensa, e subito distoglie lo sguardo.
Eugenio Dalaiti la sta fissando con una strana espressione. Intensa. Attenta.
- Per fortuna avevo già bevuto quasi tutto – si giustifica lei, sentendosi ancora di più in imbarazzo.
- Mi perdoni se la guardo così – dice lui, mentre solleva la sua tazza – Ma ha il suo viso ha lo stesso colore di chi prende bella donna in dose eccessiva – beve un altro sorso senza smettere di fissare Sofia, poi inizia a ridere – Buffo, no? Basta arrossire un po’ e si ottiene l’effetto dell’erba.
- Ma la belladonna ha anche altri effetti – ribadisce lei, dura, riprendendo il controllo di se stessa – Mortali, direi.
Lui annuisce.
- Mi faccia capire, allora. Vostra figlia usava la belladonna come estetico?
Lui annuisce ancora e beve un altro sorso.
- Insomma, mi spieghi meglio, ne ho sentito parlare, ma …
- In realtà il suo nome scientifico è Atropa belladonna – Eugenio ora guarda fisso oltre la giornalista, nel nulla - Atropa perché nella mitologia greca è la Parca che taglia il filo della vita. Belladonna perché nel rinascimento le dame usavano l’erba per dare colorito al viso e lucentezza agli occhi.
Sofia annuisce. Appoggia i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani.
- Sì, questo lo sapevo. Una combinazione di nomi che ricorda l’impiego cosmetico, ma anche gli effetti letali. Ma credevo che non si facesse più uso di questa erba proprio per la sua pericolosità.
Gli occhi di Eugenio tornano rapidi su Sofia.
- Oh, no, ha ancora molti impieghi, fitoterapici, omeopatici, farmacologici, insomma, inutile farle qui tutto l’elenco per cui …
- E sua figlia era un’omeopata.
Una traccia di sorriso compare tra le rughe di Eugenio.
- Vedo che è informata. Sì, mia figlia conosceva l’uso della belladonna, procurarla è semplice, così come coltivarla del resto. Ma aveva anche un’ossessione. Gli occhi. Belli, di un verde intenso, ma che si perdevano tra le sopracciglia folte e il pallore del viso – l’uomo scuote la testa – Almeno così diceva lei – e beve un altro sorso.
- Per questo prendeva la belladonna.
- Sì, al giusto dosaggio. Sapeva che in realtà il suo effetto estetico è dovuto a dilatazione pupillare e paralisi dell’accomodazione e che basta andare un po’ più in là per rischiare anche la morte. Però quella sera voleva davvero essere splendida perché la mattina dopo sarebbe partita con il suo nuovo fidanzato, era il loro primo viaggio e, e così, lei, lei.
Le parole si afflosciano con il viso di Eugenio.
Sofia Tirana lo vede chinare lo sguardo sul tavolo e ancora ha il desiderio di fargli sentire la sua presenza, prendergli una mano, abbracciarlo, perché ha già intuito tutto. E anche lei inizia ad avvertire un peso che le riempie il respiro. Ma Eugenio è più rapido del suo pensiero, solleva ancora lo sguardo sul suo e parla, anche se le sue parole ora hanno un ritmo diverso, più lento, come trascinate a forza nell’aria.
- Guendalina non si è più ripresa. Mai più. Aveva un unico pensiero. Raggiungere la figlia e credeva che per arrivare a lei il modo migliore fosse condividerne la morte. Lo ripeteva tutti i giorni, tutti quei maledetti giorni, fino a quando – un lungo sospiro, un altro sorso della bevanda – Ho dovuto giurarlo, perché non era più mia moglie, ma una sofferenza che respirava solo per morire. Così l’ho aiutata a morire e poi – Eugenio guarda oltre la vetrata, le luci delle auto che tagliano il buio, quelle dei lampioni come lune distanti – C’è una filastrocca inglese che riassume molto bene gli effetti della belladonna, sa?
Sofia si morde un labbro e si sporge verso l’uomo.
- Non capisco, però, quello scheletro.
Eugenio si volta in modo così repentino, gli occhi dilatati su di lei, che Sofia si ritrae di nuovo fino a quando lo schienale non smette di cedere al suo peso.
- Le ho raccontato tutto perché ormai i botanici forensi, o come diavolo si chiamano, analizzeranno il terreno e le ossa e capiranno tutto – poi, con un nuovo sospiro, sembra scaricare la tensione – Mia cara, vede, avevamo riempito il giardino di belladonna. Quell’erba era dappertutto, lo era anche durante i sopralluoghi ed è rimasta ancora lì. È tenace, la belladonna. Solo che allora nessuno ha collegato l’erba a mia moglie – Eugenio scrolla le spalle – Probabilmente non sapevano nemmeno cos’è la belladonna. Ne sentivano solo l’odore sgradevole dei peli ghiandolari, ma non sanno che accelera il metabolismo. E noi ne avevamo sparsa così tanta intorno, proprio in previsione di quanto Guendalina voleva.
- Quindi, mi sta dicendo che lo scheletro è proprio di sua moglie.
Eugenio Dalaiti ha un altro accenno di sorriso, poi beve, ma questa volta fino in fondo.
- Ah – sospira infine e la tazza si frantuma sul pavimento.
- Ma cosa – Sofia lo vede accasciarsi sulla sedia, fa’ per alzarsi, ma lui la blocca con un cenno della mano. E quando solleva il volto su di lei, rosso e con gli occhi dilatati, Sofia Tirana capisce.
- Mi lasci, la prego, mi lasci andare, io – ansima l’uomo – Così raggiungo mia moglie e, io, mia figlia, la prego. La belladonna ha accelerato la decomposizione di Guenda, Guendalina e l’ha trasformata velocemente in scheletro.
Sofia si è guardata alle spalle, ma nel locale non c’è nemmeno il barista, forse uscito per qualche impegno, chissà, ma
- Chiamo un’ambulanza – decide, annaspando nella borsa alla ricerca del cellulare.
- No, no, per favore, tanto – un altro sospiro, breve – Ha la sua storia, in anteprima. Ci pensi. E mi lascia andare con il mio segreto.
- Non posso – geme Sofia, le lacrime le velano la vista – Non posso – e intanto la mano si ferma nella borsetta – Non posso – e pensa all’articolo che scriverà questa notte stessa, sulla morte a cui sta assistendo.
- È bella la filastrocca che cantavo a Guendalina, io – sussurra Eugenio, gli occhi che si chiudono – io – il capo che si reclina sul mento – Se la ricordi nell’articolo.
- Mio Dio – piange Sofia, le mani sulla bocca.
- Caldo come una lepre, cieco come un pipistrello, rosso come una barbabietola, matto come una gallina, secco come un osso.
Sofia Tirana rimane così, immobile, ad ascoltare la cantilena, ripetuta in uno stento di parole sempre più fragile.
Fino a quando non entra nella morte di Eugenio Dalaiti.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Non mi lascio certo sfuggire l'onore di lasciare il primo commento ul tuo blog!Auguri.
Annamaria

homo interrogans ha detto...

Grazie, sono commosso (non nel senso di commozione cerebrale).
Scusa, ma ancora mi smarrisco nelle funzioni del blog e non so come rispondere nel tuo, né come visitarlo.