lunedì 11 giugno 2007

cavallette sul selciato

ritratto da un ultimo bicchiere - prefazione - *
di homo interrogans

Le luci che
navigano
nel tuo
bicchiere

sono acque
di una palude
pesante

affannata
di piaceri caduti

limacciosa
di sensi di colpa

Lascialo cadere

ora

e poi
ascoltalo

quel bicchiere

È rabbia
di anni che
scheggia
il pavimento

Gemito
di liquido perso
da lontane
ferite

È tela
lacerata
che beve
il tuo pensiero

Prognosi di nulla
sul rigor
di un desiderio
canuto

Io sono
il tuo medico

anche stasera

Non ho farmaci
che guariscano
il tempo

nemmeno ne conosco

Ma ho un saluto
da darti

l’addio
che mi chiedi

Lascialo cadere

ora

quel bicchiere

con le sue luci
pesanti
di alcol

spegni il suo
pianto
questa sera

Chiudi la porta
sulla palude
del suo liquido
pastoso

E usciamo

Usciamo dove
la vita è
terapia di
brevi baci
segreti

Dove in luci
nascenti di alba
tra farmaci di
ultimo sonno

tu possa
vivere ancora

solo
un minuto

prima del gelo

pieno di te

cavallette sul selciato*
di
homo interrogans

Le cavallette piangono sul selciato.
Il dottor Santino si sorprende sempre in questa illusione estiva quando percorre con passo incerto il sentiero che dalla strada provinciale porta all’ingresso del cimitero. Nei brevi tratti rettilinei in salita, nelle curve ampie di serpente assonnato, ascolta il lento cri-cri della ghiaia sotto i passi, che alle sue orecchie diventa il lamento di cavallette nascoste intorno alla meta.
Anche in questa giornata di livido inverno.
***
È triste, il dottor Santino, di una tristezza lontana, che quasi non lo riguarda più, tanto è entrata a far parte di lui negli anni di percorsi intorno al cimitero del paese e al dolore della gente.
La morte è diventata dialogo e psicanalisi, è irruzione di domande improvvise in cui cerca di muoversi come meglio può. Con passi lenti e zoppicanti, di ghiaia e cavallette sparse nella mente.
Nel cammino sull’ultima ghiaia, durante la curva che si apre sullo spiazzo del cimitero, il dottor Santino si ferma. Dissolve le cavallette e con lo sguardo si arrampica sui muri che cingono le lapidi in una barriera effimera tra la vita e la morte.
Il suo orologio da taschino tentenna prima di allineare le lancette sulle ore del primo mattino, poi si spegne in uno slancio di vibrazioni che il medico accoglie come una serena agonia tecnologica. Seppellisce il pensiero del suo orologio nella fossa comune delle cavallette e socchiude lo sguardo miope per focalizzare l’albero di faggio ricurvo sull’ingresso del cimitero, unico custode di un luogo lasciato all’incuria.
Un tempo, prima dell’editto di Napoleone, questo cimitero era occasione di vita. Tra le sue lapidi si danzava e si mercanteggiava e la morte era evento naturale in cui calarsi nei ritmi del giorno.
Il dottor Santino scorge la figura nera, di ombra umana, appoggiata sul tronco ricurvo dell’albero e si chiede chi dei due stia sorreggendo l’altro. Intorno a quel dipinto, due uomini diafani in divisa da carabiniere si muovono a scatti, quasi avvolti da timore o confusione. O come fedeli sull’altare della morte.
Sospira, profondo, pieno, pesante, e in questo modo crede di trovare la spinta per raggiungere la scena, ma il pianto della cavallette lo stupisce precedendo i suoi passi. Si volta verso il suono e scopre un viso familiare.
- L’ho sorpresa, dottore? – chiosa il Procuratore Magistri Elena, classe 1969, con un tono in bilico tra ironia e scuse di circostanza.
Il dottor Santino si ascolta sorridere.
- Un po’, credevo di essere solo da queste parti -
- Cercavo tracce –
- Prego? –
Il Procuratore Magistri Elena allarga le braccia classe 1969 come per mostrare il suo territorio, poi con occhi vivaci attraversa gli occhiali da miope del medico.
- Sembra una morte naturale, tranquillo, routine per lei – si ferma spalancando pupille e annessi ciliari e muscolari circostanti e si morde le labbra, nel sospetto di parole troppo slanciate – Intendevo, nulla di particolarmente insolito, mica mi riferivo alla sua professionalità -
Altro sorriso clonato da parte del dottor Santino.
- Vogliamo andare? -
Il medico annuisce, anche se sente le gambe che tentano di cedere, di piegarsi e trascinarlo sulla ghiaia.
Il Procuratore Magistri si sta già avvicinando al dipinto scuro di albero e figura umana appoggiata e lui la segue, in silenzio.
Le cavallette piangono verso il cimitero con nuova intensità.
- Le spiegavo, davvero, sembra un caso di morte naturale, insomma, le chiederò l’autopsia, però, perché -
La donna si ferma, bruscamente, senza segnali, e il dottor Santino si ritrova il naso appoggiato al suo giubbotto imbottito di mistero. Lei sembra non farci caso, gli occhi di nuovo in penetrazione nelle sue lenti da miope.
- Insomma, niente segni di lesività esterna, ma, concorderà con me, è un tantino insolito venire a morire sotto il faggio del cimitero la notte di capodanno -
Santino concorda con un cenno dovuto.
Le gambe insistono per un crollo totale, lui decide di ignorarle. O almeno di provare a farlo.
La donna inclina leggermente il capo e i capelli classe 2005, freschi di tintura, si adagiano sulla spalla come salici dorati. Lui li osserva in un fugace rapimento, perdendo il senso della domanda.
- Come? -
- Appunto – il tono del Procuratore Magistri è ora fermo, professionalmente sospettoso – Le ho chiesto se si sente bene, mi sembra pallido, distratto –
Il dottor Santino arrampica un dito sulla montatura nera degli occhiali e senza necessità la fa scivolare sul naso.
- È capodanno – si scusa.
Il Procuratore sembra accettare la deposizione.
- Beh, sì – svela denti bianchi sotto le labbra piene – Notte da bagordi, eh? Mi perdoni, sa, ma non la vedo molto a tirare tardi -
Se sapesse, vorrebbe risponderle Santino, ma quando si accorge che a questo pensiero le gambe stanno per trarre rinnovato motivo di crollo totale, si urla un no e si limita a stringersi nelle spalle con aria complice.
Così per il Procuratore il caso è chiuso.
- Vogliamo andare? – ripete e la scena si completa come da protocollo con nuovi passi verso la scena di morte.
***
La donna è appoggiata con la schiena sul vigoroso tronco di faggio.
Il capo, reclinato, è velato da lunghi capelli neri, stopposi, quasi incartapecoriti, ma che sussurrano ancora di un passato splendore.
Le mani sono appoggiate sul terreno, distese, come a sincerarsi della realtà della terra, nuova simbiosi per il corpo defunto. Dita lunghe, fasciate dal rigor della morte. Bianche fino alle unghie, dove il nero è colore predominante e frastagliato nei segni di morsi nervosi e solitari.
Uno dei due carabinieri, guanti indossati, si china troppo velocemente, con ansia, su quel corpo dormiente di assoluta immobilità e fa per scoprire il viso dai capelli.
- Aspetti – lo ferma il dottor Santino, con tono stanco.
Sei occhi lo intercettano all’unisono e si appoggiano sul suo viso con aria stupita. Santino sente il peso della perplessità interrogativa del Procuratore e dei due carabinieri e di nuovo le gambe gli suggeriscono di cedere.
- Voglio solo dare un’occhiata generale al – corpo, cadavere, è così che deve dire, si ricorda.
- Si sa chi è? – chiede invece, lo sguardo che segue smarrito la salita del tronco, fino alla sua ricurva caduta verso il suolo.
L’altro carabiniere cita da taccuino
- Maddalena Lucina, classe 1973, vedova -
Il dottore annuisce.
Si accovaccia accanto al cadavere in gesto professionale, in realtà concedendo una vittoria parziale alle gambe, e finalmente scosta i capelli dal viso.
- Era bella – sussurra il carabiniere al suo fianco.
- È bella – aggiorna il dottore con parole che si perdono nel cielo pesante d’inverno.
Il Procuratore Magistri Elena, classe 1969, ben attrezzata, si avvicina e cerca una scappatoia per non perdere il suo primato di bellezza oltre la vita e la morte.
- Beh, sarà stata anche bella, ma qui ci risulta una lunga storia di depressione ed alcolismo -
Le lenti miope del dottore si sollevano sui suoi occhi vivaci e lasciano una domanda nell’aria. Il Procuratore rimbalza lo sguardo interrogativo sul carabiniere armato di taccuino. Questi ha un fulmine di smarrimento sul viso, poi comprende.
- Siamo già risaliti al suo indirizzo e i colleghi di pattuglia ci hanno detto di avere trovato le cartelle cliniche di vari ricoveri in merito ai problemissuindicati - recita appiccicando le ultime parole.
Il dottor Santino annuisce, poi si volta ancora sul viso della donna.
Il pallore nevoso della morte le ha portato via il colore rosso del vino e quello grigio della depressione. L’ha lavata del suo passato, ma le cartelle cliniche sono rimaste, lapidi indiscrete e già fuori luogo.
Santino chiude gli occhi e ricorda.
Una mano scivola silenziosa nell’ampia tasca del suo cappotto e tra slalom di cappucci di biro smarrite, briciole di pane ignorato, raggiunge il fruscio della carta.
Gli occhi si aprono e vestono la lunga parete del cimitero di sguardi spenti e nostalgici.
- Dottore? – lo esorta il Procuratore Magistri, avvicinando passi al suo volto.
- Se tutto fosse stato come un tempo, chissà – parla lui senza voltarsi – Avete notato come la morte è allontanata e murata? Non c’è vita sociale qui intorno. Fateci caso, avete mai visto, che ne so, negozi accanto ad un cimitero? A parte quelli di fiori, intendo, mai un edicola colorata, mai un pub chiassoso, mai attraenti esposizioni di vestiti e scarpe e stereo –
- E vorrei anche vedere – sbotta il carabiniere al suo fianco.
Santino sospira, ancora pesante, profondo. Sospira con tutto il suo corpo, poi, lento, si muove e fa un gesto che sorprende il Procuratore Magistri, classe 1969, e i due carabinieri, qualunque classe si portino dietro.
Si siede al suolo, sulla terra, appoggiato all’albero, accanto al cadavere della donna. Spalla contro spalla.
- Dottore? – ripete il Procuratore, mentre gli occhi dei carabinieri corrono a lei in confusa attesa di ordini.
Santino ha ancora lo sguardo sulla parete del cimitero.
- Allontaniamo la morte in ogni modo e, per compensare, cerchiamo avidamente notizie di quella altrui, purché lontana e possibilmente televisiva -
- Dottore – altri due passi del Procuratore, questa volta più decisi – Credo stia inquinando la scena – la voce è ancora incerta.
- Ma così la nostra debolezza e la nostra paura aumentano. Tanto la morte ci viene a trovare sempre, immancabilmente, all’improvviso, spegne i nostri cari o noi stessi. Non ci sono gesti scaramantici o mura per sconfiggerla –
- Ecco, dottore – il Procuratore Magistri esita ancora; dalla sua classe 1969, per la prima volta non sa come muoversi sulla scena di un sopralluogo – Appunto, mi scusi, devo esortarla, le prove –
Finalmente il dottor Santino la guarda. Finalmente, dietro le lenti da miope, gli occhi sono presenti. In una tonalità intensa, così intensa da essere forse il motivo che spinge il Procuratore Magistri ad arretrare di qualche passo.
I carabinieri la imitano diligentemente.
- Non si preoccupi. Conosco bene la scena e posso permettermi di inquinare le prove – la mano riemerge dalla tasca esumando il foglio seppellito.
- Lo prenda, è una prova –
Il carabiniere più vicino si allunga, ma il dottore ritrae la mano.
- Lasci a me – capisce la donna e prende il foglio accartocciato – Di cosa si tratta? – chiede mentre ne sta già svelando le parole scritte.
Santino chiude ancora gli occhi.
Attende e ascolta il silenzio.
- Non capisco – mormora lei dopo minuti senza tempo. In realtà il tono soffuso della sua voce già tradisce il timore della comprensione.
- Ho scritto quei versi di getto, questa notte, qui, accanto a Maddalena morente. Li ha letti, no? Li ho intitolati “ritratto da un ultimo bicchiere” –
Silenzio. Silenzio sulle parole, intorno alle parole. Silenzio sulla scena di morte. Silenzio sulla vita.
La donna fissa Santino con stupore immobile e vede un uomo infagottato e pesante, adagiato accanto al cadavere di una donna. I carabinieri si avvicinano, cauti, cercano di sbirciare nel foglio, ma il Procuratore li precede porgendolo all’agente più anziano di grado.
- Lo registri immediatamente come prova –
Adesso la scena è ancora sua, capisce il Procuratore Magistri, ma non lo pensa con sicurezza, anzi. Sente Elena, la parte di lei senza vestiti, che vorrebbe urlare, scappare, negare.
- Perché? - riesce invece a chiedere dalla sua professionalità.
Santino è solo voce narrante da un pupazzo di carne piegata. Le sue parole cadono piano nell’aria e lasciano tracce di resa.
- Amo Maddalena, anche ora, qui. La morte del marito ha aperto una ferita senza cicatrici sul suo animo depresso. L’alcool l’ha avvolta e le ha dato un’oasi pesante, una palude, in cui comunque ha tentato di esserci – reclina leggermente il capo a sfiorare la spalla cadente della donna morta - Io sono arrivato dopo, il medico di famiglia innamorato, e le ho fatto l’unico regalo che mi ha chiesto-
Elena ha ricominciato a serrare le labbra con i denti, forse per non piangere, forse per non respirare la verità che riempie l’aria di inverno e di morte.
- Sì, è stato un capodanno intenso. Siamo usciti, l’ho accompagnata fin qui, dove giaceva già la sua vita, e le ho dato i farmaci. In overdose –
L’uomo annuisce con testa pesante, poi apre di nuovo gli occhi e in una carezza li posa sul volto del cadavere.
- L’ho ascoltata morire di vita finalmente sua. E intanto scrivevo la nostra poesia -
- Dottore –
- Lo so, un attimo solo, poi vi seguo. Un attimo solo –
Trascorre davvero un attimo, un attimo solo, prima che i carabinieri aiutino il dottore ad alzarsi.
E in quell’attimo, che è di assoluto silenzio, Santino le sente ancora. Per la prima volta senza passi.
Cavallette piangenti sul selciato.

* poesia e racconto presenti nell’antologia “Città di Solitudine”.

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