venerdì 8 giugno 2007

Fine Viaggio

Fine Viaggio*
di homo interrogans

Anche quando tutto intorno i colori sono luci di cielo pulito, qui la nebbia soffia lontano.
E avanza in ondate che serpeggiano tra i boschi fino a dilatarsi nella pianura ed allagare il paese di Fine Viaggio.
L’uomo si muove cauto, separando i fili vischiosi di grigio che celano il percorso, ma presto è costretto a fare una pausa, un’altra, quando la spalla gli urla che è di nuovo tempo di affondare nel nulla la sua borsa gravida di enciclopedie e dizionari.
Si ferma, sbuffa leggero respiro sul vapore pesante che sfuma i contorni del paese, apre la borsa ed estrae il terzo volume di una sbiadita enciclopedia.
Quindi, giusto per riempire il riposo, ne sorvola i fogli opachi.
***
Fine Viaggio.
Questo nome esprime il senso di liberazione di un gruppo di pellegrini dispersi dopo un lungo vagabondare tra speranze e delusioni di fede alla fine del X secolo.
Oggi ha ben due arterie asfaltate. Quasi sempre vuote.
E qualche vena di ciottoli disordinati, dove, a volte, scorrono lambrette e camion velati di polvere e nostalgia.
E molti capillari di ghiaia, levigati da piedi e biciclette cigolanti.
Le case sono chiaro e scuro silenzioso che assorbe i colori del cielo e cede solo nelle ultime ore del pomeriggio, quando il sole ha un’impennata di orgoglio e tinge i muri di sangue.
Forse è per questo che ad ogni lento avanzare della notte, gli abitanti di Fine Viaggio sfiorano con occhi e sospiri il cimitero adagiato sulla collina, sempre visibile, unica preda mancata della nebbia.
E chissà se qualcuno, ombra di viso immoto disegnato sulla finestra dall’ondeggiare del fuoco del camino, ricorda che proprio nella collina i pellegrini fondatori hanno seppellito i cari appassiti durante il lungo cammino tra vento, fame e soprusi e che già allora, man mano che alle croci di legno si aggiungeva la pietra delle lapidi, hanno deciso di chiamare quel luogo Cimitero di Solitudine.
Non per esprimere il vuoto che porta la morte, no, è che già allora la nebbia, sia pure più giovane, e forse per questo certo più tenace, ma meno esperta, non riusciva a salire sulla collina.
E quella era la solitudine.
La solitudine del mondo esposto in ogni dettaglio, dei colori pennellati in ogni sfumatura, delle voci chiare nell’aria libera. La solitudine del mondo concreto tra il mare di nebbia.
Per questo, paradossalmente, agli occhi dei primi abitanti di Fine Viaggio il cimitero era diventato l’unico scorcio visibile, isolato. Cimitero di Solitudine.
***
- Un altro esempio dei tanti significati di una parola. E delle emozioni che la celano. Qui un termine negativo come la solitudine è diventato positivo -
L’uomo si guarda intorno, perplesso. Nessuna forma umana sembra ondeggiare tra la nebbia. Annuisce con poco slancio e, già che c’è, solleva la borsa adagiata a chissà quale ombra di suolo e con un “hop” di incoraggiamento si incammina verso la casa.
Ha espresso ad alta voce il suo pensiero, forse ha anche declamato la sua versione di guida turistica del paese, ammesso che in un luogo del genere la parola “turismo” possa avere un senso, ma non è stato questo a turbarlo.
É rappresentante di enciclopedie e dizionari, un mestiere antico, sfumato ormai, proprio come i contorni del paese, e nei suoi solitari percorsi porta a porta
(percorsi di solitudine, cimitero di solitudine)
non ha trovato altra compagnia che quella di se stesso, per cui già da tempo ha iniziato a vagare tra pensieri e citazioni a voce alta.
Si ferma, di nuovo, questa volta sordo al peso tenace della borsa.
Si guarda intorno, di nuovo, questa volta distaccato dalla presenza eterea degli abitanti di Fine Viaggio.
Osserva il portone di legno che sigilla l’accesso all’edificio, controlla che il numero civico corrisponda a quello indicato dalla ditta.
E sospira, di nuovo, questa volta di vero sollievo, perché quello che lo ha messo a disagio poco fa’ è stato il suono delle sue parole, disperso tra i vicoli del paese, subito fagocitato dagli antri della nebbia. Gli è sembrato che a pronunciarle fosse stato un altro.
Non esattamente un estraneo, no. Peggio.
Un altro se stesso, con un nuovo timbro, forse anche con una nuova cadenza. Un se stesso senza più sostanza.
Affondato in questa riflessione, quando il portone si apre con uno scatto prima che lui abbia citofonato, la consistenza più immediata che riesce ad esprimere è un grido di stupore.
***
La scia bianca salta oltre i piedi ed è subito ingoiata da volute di grigio.
L’uomo si affloscia disperdendo tensione.
- Farsi spaventare da Miao. Un omone come lei! -
E gonfiato di nuovo spavento, riacquista volume polmonare in un’efficace replica dell’urlo.
La donna affacciata al portone lo osserva perplessa. Nei suoi occhi dipinti da ombretto e mascara l’uomo scorge anche commiserazione, la stessa che inizia a provare per se stesso e che lo spinge ad assumere un’orgogliosa posizione bipede.
- Era solo un gatto – scandisce lei, piano, forse sperando di evitare un nuovo grido.
- E lei solo una donna – la rassicura lui, con labbra distese a simulare un sorriso mentre pensa che se il mondo è pieno di idioti, ne ha appena creato una nuova nazione da solo – Mi scusi, mi sono lasciato prendere da – sguscia con gli occhi prima da un lato, poi dall’altro e, banalizzato dall’evidenza del paesaggio, si limita a rinforzare il simulacro del sorriso idiotesco.
- Beh, questo posto non è sempre così lugubre – lo sguardo della donna oltrepassa le spalle dell’uomo, si assenta in un fruscio di luogo privato, e torna al presente – A volte lo è di più la vita –
Lui non risponde, improvvisamente perso tra desideri velati di scuro.
- Cerca qualcuno, a parte le mie gambe? -
- Eh? – sussulta di vergogna, schiacciato dalle parole dirette della donna.
Ma allo stesso tempo scopre che ora anche lei sta sorridendo, forse più fresca di lui, e questo gli basta per riscoprire l’uso delle parole – Abita qui il signor Fadore? –
Sìssì, conferma lei con la testa e lui assiste alla crescita del suo sorriso, ancora più ampio, e, soprattutto, ci giurerebbe, vero, vero al punto di fargli dimenticare nebbia, fatica, storiografia varia. E da mettere persino in secondo piano lo scorcio di gambe sussurrate da collant tra gli stivali ed il cappotto indossati dalla donna.
- Sono un rappresentante di enciclopedie e dizionari – aggiunge allora adagiato su quella imprevista spontaneità – Ho un appuntamento con il signor Fadore -
- Carmen – si svela la donna sorprendendolo ancora.
- Oh, io sono Omero. Agnosia Omero – aggiunge in automatico, abituato a presentarsi alle porte di sconosciuti. E aspetta l’inevitabile commento sul suo nome, o anche sul suo cognome, come avviene in casi più rari.
- Di sicuro è in casa. L’ho sentito suonare il violino prima di uscire – continua invece lei.
Ma avrà capito?, si chiede lui vagamente disorientato dopo anni di alzate di spalle nel tentativo di scrollarsi di dosso le osservazioni divertite, a volte sarcastiche, sulle sue generalità. Invece, sapere che il suo prossimo cliente è un musicista non lo stupisce. L’enciclopedia richiesta è infatti “Vibrazioni di archi”, prezioso e costoso intrecciarsi di otto volumi rilegati a colla, prima edizione, anno 1948, tiratura limitata. Mica roba da ipermercati, insomma, come trionferebbe il suo capo. Non che a lui questo particolare interessi; non ha mai avuto affinità per la musica in generale, figurarsi per le vibrazioni di archi vecchi di decenni. E in ogni caso di ben altro tipo sono le vibrazioni che ascolta sul suo corpo, mentre l’aria diventa sapore sconosciuto della donna.
Per questo ha appena deciso che il lavoro può attendere ancora, nonostante la nebbia lo abbia rallentato di venti minuti sull’orario previsto e la puntualità nelle consegne sia un raro anelito di vita in cui ancora annaspa la Ditta. In una pagina della mente scrive la sceneggiata veloce da leggere al direttore, “Sa, Fine Viaggio, ecco, vede, qui nella cartina, a malapena si può raggiungere con l’auto, presente no? Guardi, guardi meglio, tutte queste stradine senza asfalto”, spiegamento del lenzuolo stradale sulla breve scrivania del direttore, quindi braccia incrociate in senso di impotenza, “Roba di altri tempi. E poi nessuno mi aveva avvisato della nebbia, fitta, sa, ma fitta da infilarsi dappertutto fino a togliere il respiro, presente no? No? Nemmeno io, prima di andare a Fine Viaggio”. Insomma, una scena in grado di giustificare il ritardo di mezz’ora, un’ora anche, o chissà, se questa donna.
- Mi scusi, ho fretta –
L’uomo si scuote dalla prima versione della sua scusa. La donna è tra l’uscita ed il portone, che tenta di chiudersi testardo, trattenuto a stento da una mano di lei.
- Oh, no, non volevo darle fastidio, sa – corre lui cercando di recuperare il disagio – Lasci pure il portone, tanto devo prima citofonare – riempie di altre parole l’incontro, mentre i suoi neuroni si consultano di frenetiche motivazioni per prolungare la piacevole compagnia.
- Bene – lei lascia andare la mano, evidentemente soddisfatta, e gli passa accanto, mentre il portone stride in un crescendo di cigolii e tonfa di chiusura. Il suono pesante echeggia nella piazza di nebbia, poi tutto torna silenzio.
Lui la guarda. Lei lo guarda. Un sorriso guarda entrambi.
- Sono in anticipo – decide l’uomo in una premessa incoerente con la scusa professionale.
- Oh – soffia la donna e per un attimo lui svanisce tra il turgore delle sue labbra rosse. Poi morde le sue quando si rende conto che lei non concede sbocco alla conversazione.
- Vado alla mia fermata. Vuole accompagnarmi? –
- Come? – sussulta di incredulità l’uomo.
- Visto che è in anticipo – lei torna a sorridere, anche se in modo meno vivo di prima. Ma lui decide di trascurare questo particolare. Pensa frenetico che proprio da dove è venuto ha scorto il cartello della fermata degli autobus e gli sembra di ricordare che questo è avvenuto circa un quarto d’ora prima. Non è tanto, ma può parlarle, intuirla. Magari, infine, chiederle di sentirsi. Magari, in un secondo tempo, domandarle un nuovo incontro. E poi poi
- L’accompagno volentieri, Carmen – annuncia nel tono fermo delle grandi speranze e si incammina al suo fianco.
La nebbia li accoglie di premurosa evanescenza.
***
I primi passi verso la conoscenza della donna sono silenzio versato nella rapida ricerca di argomenti di conversazione. In realtà l’uomo avrebbe da narrare enciclopedie di citazioni, racconti, domande, ma il cammino accanto a lei, bella e diafana in un’atmosfera dove tutto è lento scorrere di particolari accennati tra ampie pennellate grigio, lo spinge più volte a trattenere il respiro. Allora apre e chiude gli occhi, velocemente, per esortarsi ad iniziare, ma di nuovo si sente cogliere da questa indefinita dispersione della realtà. E tace.
Per cercare un punto di riferimento almeno spaziale, e magari da quello trovare la concretezza di un dialogo, si volta verso la meta del lavoro abbandonato.
Il palazzo è ormai visibile a tratti, come disegno incompleto su un foglio sporco. Sconfortato, l’uomo pensa che occorre uno sforzo di logica per attribuirgli ancora solidità. Torna ad osservare la donna, apre la bocca e di nuovo tace.
Lei non sembra affatto nella sua situazione, anzi, è come se si fosse dimenticata della sua presenza. Cammina verso un luogo celato da nebbia e intenzioni con passo lento, ma deciso.
Lo sguardo avanti, sempre avanti, innalzato su un’ombra di sorriso.
L’uomo arranca al suo fianco, rallentato dal peso della borsa che minaccia di precipitarlo nella nebbia sottostante e dall’indagine sempre più deserta tra occasioni di frasi, o parole, o gesti, o un che qualunque per toccare l’interesse lontano di lei.
E proprio mentre sta pensando di scendere negli abissi della banalità per raccontarle del suo lavoro, la donna rallenta il passo e si porta una mano tra i capelli, muovendoli in lunghi sospiri neri sparsi tra il vento delle dita.
Quindi si ferma.
E in uno scorcio di sguardi a tutto tondo, lui capisce che lo sta aspettando.
***
- Non si faccia intimorire dalla nebbia - sussurra con tono profondo.
Quasi sensuale, osa Omero Agnosia, venditore girovago di fossili di enciclopedie e dizionari.
Subito decide di ignorare questo pensiero, già troppo distratto dall’armonia con cui gli occhi di Carmen scivolano sul naso per poi allargarsi sulle labbra.
- No, certo – si affretta ad arrampicarsi su quello spunto di conversazione che lei gli ha donato – Giro molto per lavoro, sa, e sono abituato ad ogni tipo di clima -
- Però scommetto che una nebbia così, e in questa stagione, non l’ha mai vista – continua Carmen, insistendo sull’argomento, come se si trattasse dell’attrazione principale di Fine Viaggio. Allora lui decide di iniziare lo sfoggio della sua frammentaria cultura enciclopedica, assorbita durante anni di viaggi, in una pausa veloce da auto-grill, in un riposo estraneo da stanza di motel, quando quasi di nascosto, e con vaghi sensi di colpa, ha rubato nozioni sparse tra folle di pagine destinate ad altre persone.
- Vero. La nebbia si forma dalla condensazione di vapore acqueo negli strati inferiori dell’atmosfera, quando l’aria è fredda al di sotto del punto di rugiada – si ferma un istante, giusto per rassicurarsi che la donna lo stia seguendo – Ma non basta. Occorre anche la presenza di nuclei di condensazione, come i granuli di pulviscolo atmosferico, e mi chiedo dove si formino in modo così numeroso, considerato che Fine Viaggio è isolato, piccolo e lontano da altri centri abitati -
Carmen annuisce in un sorriso che sembra tornare alla vitalità del loro incontro. Però lo sguardo si perde ancora oltre la nebbia prima di tornare al suo. Velato.
- Lei è preparato, complimenti – scuote la testa, in un gesto appena accennato che non sfugge all’uomo – Gli uomini che ho incontrato nella mia vita non riuscivano a mettere insieme un concetto del genere nemmeno dopo anni di conversazione. E nemmeno io ero in grado di farlo, dopotutto -
Le parole hanno il tempo di volteggiare al suolo, una ad una, accompagnate da nuovo silenzio, e prima che Omero decida di riempirlo di nuovo, Carmen continua.
- È stata una persona a cambiarmi. Mi ha insegnato come indossare verbi, proposizioni, aggettivi, oltre al mio guardaroba di vestiti -
- E mi sembra che lei abbia ben appreso le lezioni. Ha avuto un buon maestro – commenta Omero più per sondare il terreno nel timore che la donna abbia già una relazione, che per vero compiacimento.
Carmen disperde ancora lo sguardo tra soffi di grigio.
- Era una professoressa. Una grande donna. L’ho accolta nella mia casa dopo che era stata sfrattata – per un attimo le labbra appassiscono in una piega di ricordi, poi tornano ad un sorriso distratto, forse amaro - Viveva di cultura, lei, non si curava di soldi e scadenze. Io le davo una mano nella praticità della vita, lei arricchiva la mia con lezioni di latino, storia, italiano -
- Interessante – giudica Omero – Bello – aggiunge poi nel timore di essere stato troppo distaccato in un ricordo che per la donna deve valere molto.
- È morta. Pochi giorni fa –
E trascinando con sé queste parole, Carmen ricomincia a camminare verso il nulla.
***
Il silenzio successivo è di nuovo denso, ma questa volta Omero non si sente a disagio.
Ha capito che con quella frase Carmen ha voluto sospendere la conversazione e ora attende che le parole si diluiscano nel tempo prima di continuare.
Intanto continuano a muoversi, verso la fermata dell’autobus, ritiene Omero, anche se ha smarrito del tutto ogni punto di riferimento e si limita a seguire il passo sicuro della donna. Anche il suo lavoro è ormai sperduto da qualche parte intorno al palazzo del violinista, circostanza che non lo preoccupa affatto, anzi, a cui nemmeno sente più di appartenere.
Quando Carmen rallenta di nuovo il passo, decide che è il momento di avvicinarla ancora e che forse può farlo proprio ricominciando dal suo paese.
- Sono sempre stato affascinato dai molteplici significati racchiusi in un nome, in una parola, in una frase – esordisce, cauto.
Lei questa volta non si ferma, ma con un cenno di occhi e capelli lo invita a continuare.
- Guardi il caso del vostro cimitero, ad esempio -
- Cimitero di Solitudine – mormora lei, senza colori.
Omero intuisce la bara della professoressa sommersa ancora di fresca terra di collina e si morde un labbro.
- Scusi -
Dalla donna, nuova edizione di cordialità sincera, sparsa tra occhi e labbra.
- E di cosa? Continui, la prego, mi sembra interessante -
- Oh, beh – l’uomo incespica intorno al concetto che vorrebbe esprimere, alla ricerca delle parole più adatte alla circostanza – Solitudine. Si tratta di un sostantivo negativo che invece i fondatori del paese hanno usato in modo positivo per contrastare proprio questa nebbia –
Carmen annuisce, con slancio. Ora sembra persino divertita.
- Certo, certo – trilla - E pensi appunto alla nebbia. È sostanza che non possiamo prendere con le mani, trattenere, o allontanare, così – con un rapido movimento fa’ il gesto di scacciare una mosca dalla mano – Eppure ha bisogno di solidità, dei nuclei di condensazione, come diceva prima lei, per formarsi -
Omero la guarda, colpito dall’affinità che stanno trovando le loro parole, e sorride a sua volta, solo un po’ sconcertato dai repentini sbalzi di umore di lei.
- Vero. E questo mi riporta al mio dubbio -
- Perché c’è tanta nebbia considerato il paesaggio spoglio? – Carmen allarga le braccia – Non lo so, ma conosco la leggenda che si mormora da secoli – quindi si stringe nelle spalle.
- Cioè? -
Lei penetra nei suoi occhi, solo di sfuggita prima di perderli ancora chissà dove, ma lo sfiorarsi di intenzioni basta per lasciare all’uomo un brivido di sensualità.
- La nebbia è così fitta e tenace perché i granuli di pulviscolo sono le ceneri dei fondatori di Fine Viaggio, ancora presenti -
Omero solleva sopracciglia e tono di voce.
- Ma cosa mi dice -
- Scommetto che questo non c’è scritto nelle sue enciclopedie – ribatte Carmen con tono frizzante. Poi rallenta ancora di più il passo, senza fermarsi. E inizia a narrare.
***
Nel 918 Berengario I concede alla Chiesa vescovile di Novaria la perpetua proprietà su tutti i diritti spettanti al fisco per il raggio di cinque miglia. Inoltre si dispone che ad ogni funzionario civile sia fatto divieto di esercitare atti di autorità o giurisdizione senza l’assenso del vescovo. Ovviamente le resistenze a questo cambiamento non sono poche, ma vengono ammorbidite da oculate concessioni.
Dunque nessuno può prevedere che nel gennaio 920 un numeroso gruppo di commercianti e proprietari terrieri, al corale rifiuto di questo passaggio di potere, si raduni nella piazza più ampia dei mercati statali per iniziare un lungo peregrinare verso un luogo dove la mano pontificia sia ancora assente. Questi uomini si muovono senza meta, con loro le famiglie, in un’anarchia di cammino decimato dalla fame, dagli agguati, dalle malattie. Eppure continuano, decisi, imperterriti, e alle minacce di scomunica dei vescovi e di annientamento dei regnanti, rispondono definendosi liberi homines.
Per farla breve, visto che noi non abbiamo tutto il loro tempo, basti sapere che i liberi homines non solo lasciano nella loro strada tracce di cadaveri, ma raccolgono anche proseliti, fino a quando, esausti e forse già disillusi per un nuovo mondo che si sta stringendo intorno a loro, giungono in questo posto e lo chiamano Fine Viaggio.
Da qui qualcuno spera ancora di iniziare un nuovo commercio, forse con i longobardi, forse con i bizantini, forse con i saraceni, chissà, le testimonianze sono contraddittorie e scarse. Dopo nemmeno un anno, i liberi homines di Fine Viaggio vengono scomunicati, torturati e in parte condannati al rogo con l’accusa di complotto nei confronti dell’autorità imperiale e papale.
Questa la fine dei fondatori di Fine Viaggio.
E l’inizio di due domande.
Perché, nonostante le minacce, si attende un anno prima di punire i liberi homines di Fine Viaggio? E perché, infine, si decide di mettere al rogo i loro maggiori rappresentanti?
Proprio da qui storici ed espertologi più o meno improvvisati cominciano il “si mormora”, il “si dice”, il “sembra che”.
Ma per gli abitanti di Fine Viaggio le supposizioni sono realtà.
Per comprenderle, bisogna tenere presente che tra il IX e l’XI secolo inizia a consolidarsi lo Stato Pontificio. L’Italia si trova in un periodo di cambiamenti, di nuove assetti politici e commerciali e di nuove alleanze. In particolare i pontefici dell’VIII secolo sono stretti tra longobardi e bizantini; i primi ne ostacolano la politica di espansione, i secondi cercano di guidarla sotto la loro sovranità. Pertanto occorre un sostegno efficace che si concretizza nell’alleanza con i Franchi, culminata con Carlo Magno e il Sacro Romano Impero e proseguita nella dinastia degli Ottoni fino al 1806, quando viene soppressa da Napoleone.
Ma il nuovo Stato Pontificio ha bisogno anche di una ragione storica che giustifichi la sua ascesa temporale. E proprio tra il IX e l’XI secolo inizia a circolare il Constitutum Costantini, ovvero l’Editto di Costantino, atto con il quale il primo imperatore cristiano donava a Papa Silvestro I e ai suoi successori il Laterano, Roma, l’Italia e l’Occidente.
Ed ecco il punto.
Nella notte del 31 dicembre 919 alcuni liberi homines, approfittando della confusione dei festeggiamenti per il nuovo anno, trafugano dalla Chiesa vescovile di Novaria il primo manoscritto dell’Editto, addirittura ancora più vecchio di quello esposto in seguito a Saint-Denis e a cui gli storici fanno riferimento. La loro intenzione è di utilizzarlo come salvacondotto nel loro peregrinare e questo spiegherebbe perché le autorità imperiali e papaline si limitino a minacciarli senza annientarli nonostante la loro evidente debolezza. Ma non spiega perché lo fanno poi, un anno dopo.
E qui inizia il ciarlare degli storici e la convinzione di Fine Viaggio.
Perché in realtà i liberi homines non si limitano ad utilizzare l’editto come ostaggio, ma minacciano di svelarne il segreto. Infatti la donazione di Costantino non è altro che un falso scritto a metà dell’VIII secolo, proprio per dare autorevolezza al consolidamento dello Stato Pontificio.
La Chiesa attende forse che altri manoscritti e prove dell’autenticità siano prodotti ad arte, forse di essere sicura che l’Editto trafugato sia in effetti in mano dei liberi homines. Magari guarda anche con sospetto ai primi timidi tentativi di Fine Viaggio di instaurare un commercio con gli scomodi longobardi e bizantini, addirittura con gli infedeli saraceni.
Il fatto è che attacca la comunità dei liberi homines con l’aiuto dei Franchi e che con la tortura probabilmente riesce anche ad impossessarsi di quella prima copia ormai contaminata. E nel silenzio di morte che segue, può continuare ad estendere il suo potere temporale.
Questa la ballata dei fondatori di Fine Viaggio, bruciati non per giustizia o per commercio, ma per preservare il segreto di uno dei documenti falsificati più utili nella Storia.
***
- Le ceneri dei liberi homines vagano ancora nell’aria e sono il principio da cui si forma la nebbia di Fine Viaggio. Noi la spieghiamo così. E che sia vero o meno non importa -
Omero annuisce silenzioso, perso tra le sue pieghe del racconto. E, ancora di più, affascinato dal modo coinvolgente con cui Carmen ha parlato.
In quegli attimi ha visto scene graffiate di rabbia e dolore, ha sentito il rombo del sangue straripare da corpi e coscienze.
E poi, silenzio. Respiro di nulla in ogni scorcio di Fine Viaggio, dilatato tutto intorno e sulla collina, verso Cimitero di Solitudine.
Silenzio, ancora silenzio. Lungo fino ad oggi, a questo istante.
Carmen si è fermata e lo sta scrutando in penombre di familiarità.
- Questa storia la conoscevo già, certo. Ma così come l’ho narrata a lei, mi è stata raccontata dalla mia professoressa, pochi mesi prima del suo suicidio –
Omero apre la bocca, stupito, ma sa esprimere solo rinnovato silenzio.
- Ora devo proprio andare – decide Carmen e fa’ per allontanarsi.
- No, aspetti –
Alla prospettiva di un saluto così anonimo e frettoloso, Omero ritrova la voce e si scopre a sfiorare una mano della donna con la sua.
Carmen si volta, bella di tristezza e ricordi.
- Lei sembra un uomo sensibile, signor Omero. E ha anche un nome di promesse mantenute. Ma io ho un’altra storia con me, più recente e privata di quella che le ho raccontato. Ed è per questa storia che devo andare –
- Non capisco, mi perdoni – insiste lui. È davvero confuso, tanto da non accorgersi che la sua mano stringe il polso di lei, senza decisione, in un abbraccio timoroso.
La donna sospira in un adagio che è lunga dissolvenza di parole su polvere.
***
- La mia amica aveva un cancro nella testa, signor Omero. Poco prima di venire a vivere da me, era stata stuprata. Una violenza che aveva sparso tra la nebbia i brandelli della sua femminilità. Ma, vede, questo era solo l’inizio. Sentiva che chiudersi sarebbe stato peggio e fu per questo che iniziò subito ad uscire, a tentare una vita sociale, nella speranza di ritrovarsi. Così venne stuprata una seconda volta. Com’è possibile reagire così, si chiedeva infatti la gente; se esce già a divertirsi, invece di chiudersi in casa atterrita, vuol dire che in fondo se l’è cercata – Carmen stira le labbra in un’ombra di sorriso - Che è una puttana-
Omero boccheggia alla ricerca di una frase di circostanza e subito affloscia ogni tentativo non appena si accorge che lei sembra vederlo come si può fissare la nebbia.
- Buffo, no, che ad ospitarla sia stata poi proprio una puttana. E avevamo anche un’altra cosa in comune. Una verità. Lei ormai provava ribrezzo al pensiero di un contatto fisico con gli uomini, io conoscevo gli uomini solo come grugniti solitari di veloce soddisfazione a pagamento. Ci amammo, signor Omero, ci amammo tra le sfumature dei tramonti, tra gli sbadigli dell’alba. E diventammo desiderio e passione senza inganni -
La donna alza gli occhi verso il nulla e rimane così, come in posa nell’attesa di uno scatto dal cielo.
- Cimitero di Solitudine è lassù – continua quindi adagiando di nuovo l’assenza del suo sguardo sull’uomo – Come le ho detto, la mia amica aveva un cancro nella mente. Lo avevano fecondato i due stupri, quello fisico del branco prima, quello morale della gente, poi. Un giorno iniziò a prostituirsi anche lei. Disse che lo faceva per aiutarmi economicamente e per capirmi meglio, ma io so che non era così, signor Omero. Semplicemente, nonostante il mio amore, la sua distruzione psicologica era ad uno stadio troppo avanzato e lei stava scendendo di un altro gradino nell’umiliazione del suo corpo. Forse nel desiderio sconosciuto di punirsi. Fino alla fine –
Fino al suicidio, fino al suicidio, traduce la mente di Omero Agnosia, con la sgradevole sensazione di vacillare sull’abisso di una fossa spalancata in un cimitero nero.
- Fino a lasciare in assoluta solitudine il suo e il mio significato – aggiunge Carmen in un chiaro scuro di respiro.
***
Gli occhi di Carmen si allontanano da lui e tornano ad addentrarsi in un luogo privo di forme.
- Mi ha detto che è affascinato dai diversi significati di un termine. Per i liberi homines Fine Viaggio era il saluto all’illusione di una meta finalmente raggiunta – con un gesto rapido chiude il bavero sulle intuizioni di seni ghermiti da anni di uomini veloci - Ma pensi anche agli altri significati che questo termine può avere –
La donna si allontana, così, improvvisa, decisa, senza aggiungere altro, senza esporre nuove emozioni. Senza voltarsi indietro.
E lascia l’uomo sospeso tra le sue parole.
***
Omero Agnosia si sente più pesante della sua borsa piena di enciclopedie e dizionari, sfumato da un senso di inquietudine più tenace della nebbia che avvolge Fine Viaggio. Sospira mentre si chiede se lasciare andare Carmen sia stato un bene o male. In fondo, nonostante bellezza ed espressività, si tratta pur sempre una prostituta, tenta di considerare. E ancora si disperde tra i vicoli del dubbio.
Così, senza darsi risposta, inizia a biascicare passi a ritroso, nel tentativo di ritrovare ombre conosciute, e magari proprio il palazzo da cui tutto è iniziato.
Ma nemmeno con il movimento riesce a scrollarsi di dosso il gravoso senso di smarrimento che gli ha lasciato l’incontro fugace con la donna. Allora alza lo sguardo al cielo, nel tentativo di cogliere un bagliore di azzurro oltre il grigio, e si ferma di nuovo, allibito.
Il lungo cartello metallico annuncia il confine di Fine Viaggio con caratteri spenti.
Omero si guarda intorno, veloce, e solo a questo punto si accorge che nulla nei particolari intuiti gli ricorda la strada che porta alla fermata dell’autobus. Sporge ancora un passo in avanti, poi ci ripensa, ondeggia su se stesso e si muove con i piedi che tastano intimoriti il terreno verso la direzione opposta, dove Carmen è svanita.
Dunque la donna lo ha portato alla fine del paese. Alla fine di Fine Viaggio.
- Oh - mormora affranto, mentre le parole di lei diventano significato – Oh – ribadisce di nuovo, il respiro che diventa affanno, l’affanno che boccheggia di angoscia.
Sotto di sé, nel cauto esplorare dei piedi, ha avvertito il vuoto.
Senza più esitare, si getta carponi al suolo, le mani morse dalla ghiaia, e le porta in avanti, oltre il terreno accennato, oltre il velo di nebbia. Afferra una pietra e la getta, non sa dove, non sa come.
L’eco del tonfo sale in frazioni di secondo di troppo, ovattato, ma ormai fin troppo chiaro.
L’uomo nasconde il viso tra le mani e chiude gli occhi.
Vuoto, vuoto dappertutto. Un baratro.
Il Fine Viaggio di Carmen.


*racconto inserito nell’antologia “Città di Solitudine”.

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