venerdì 15 giugno 2007

il violinista

il violinista*
di homo interrogans

Il capriccio graffia le pareti dell’uomo fino a gettarsi nelle sue profondità, riempiendole di note lontane. Lui continua, continua a sottostare all’emozione che libera il suo deserto e suona, silenzio pieno di accordi di violino, davanti ad un pubblico di nulla.
Le dita di una mano che camminano sulla tastiera, corrono, si fermano, tornano indietro e ricominciano; quelle dell’altra mano che si arrampicano sull’archetto, lo solleticano, lo ghermiscono e concedono solo lampi di pausa prima di un nuovo inizio.
L’uomo è un pendolo libero nello spazio che si muove con le note.
Il capo reclinato sulla mentoniera, verso i salti dell’archetto, gli occhi chiusi nell’immagine di una donna mai conosciuta e di una figlia mai nata, seduti. In ascolto.
E all’improvviso, con un singulto di note spezzate, il violino smette di eseguire il Capriccio lento in sol minore di Niccolò Paganini e si affloscia trascinato al suolo dalla caduta del braccio.
Il maestro Camillo Fadore, professore di musica in pensione, apre gli occhi, piano, come gli accade sempre in questi casi. Davanti a lui, una porta incrostata di bianco è chiusa su una parete spoglia, dove solo la grafia del gatto randagio del palazzo ha lasciato tracce di vita.
La musica riempie l’animo, Camillo Fadore, non le case.
L’uomo striscia i piedi verso la cucina, museo incustodito di reperti archeologici mai classificati: stoviglie colonizzate da residui di cibo, vite spente in simbiosi tenace, sparse in un caos immobile che concretizza i suoi pensieri di solitudine.
Il maestro Camillo Fadore ignora i cadaveri di piatti e bicchieri che reclamano almeno una degna sepoltura e versa il caffé ormai freddo in una tazzina superstite.
Un solo istante, un pigolio di desiderio che supplica da qualche parte nella sua mente. Si ferma, la tazzina che sfiora le labbra. Chiude gli occhi.
***
- Amore – sussurra delicato nella fragile penombra della stanza, chinandosi come un orco sulla preda ancora addormentata nel letto – Ti ho portato il caffé – aggiunge sfiorando la donna con un bacio che scivola dalla guancia fino al collo, libero dai lunghi capelli ramati. Lei mormora nel dormiveglia, come una bambina da coccolare, si gira con un gemito invitante verso di lui, e scopre ancora di più la delicatezza del collo. Lui le sorride e l’azzanna fino in fondo, oltre la pelle, lacerando i muscoli, stritolando la cartilagine in un tripudio di sangue.
***
- Eh – commenta riaprendo gli occhi, con un sospiro di soddisfazione e si lascia riempire dal gusto amaro del caffé.
Senza muoversi, si perde oltre la finestra, lo sguardo che sale sulla collina e infine, giunto in cima, si riposa tra i contorni grigi di silenzio che svelano le mura del cimitero. Allora alza la tazzina nel gesto di un brindisi e accenna ad un assolo di sorriso.
- A te, Cimitero di Solitudine -
Il cimitero risponde al saluto soffiando verso di lui nuove fantasie di morte.
***
- Esco, papà – esclama la piccola zampettando sulle scale. Lui si sente raggiungere da un punto esclamativo, solitario, ma deciso.
Depone il violino nella custodia, vellutata di viola e spalancata come una bara in attesa, e si avvicina alla figlia.
- Mi aspettavo un punto interrogativo – dice, cercando toni allegri tra le note.
La figlia ciondola indecisa tra la porta e lui.
- E dai. Sono in ritardo – sbuffa in un vapore di incomprensioni.
- Hai ragione – annuisce lui, colpito da questa rivelazione – Vieni qui solo un attimo, a dare un bacio al tuo papà –
La piccola si illumina di immenso e si getta tra le braccia spalancate del predatore, senza vederne i denti affilati.
- Ti voglio tanto bene, papà – soffia poco prima del suo ultimo respiro. Poi si spegne al suolo, con aria finalmente interrogativa, il coltello da cucina affondato nella nuca.
***
Un rumore inaspettato fa calare il sipario troppo in fretta, tanto che il maestro Camillo Fadore torna alla realtà con un singhiozzo.
Si affaccia alla porta della cucina proprio mentre il rumore si ripete. Qualcuno sta rovistando tra i cassetti dell’armadio.
Il maestro sospira e mesto si trasporta verso la stanza da letto.
Credeva di essere davvero solo in casa, almeno oggi, invece.
- Ciao –
- Sorpreso di trovarmi qui? – sbotta l’altro con occhi canzonatori.
- No, non proprio. Ma speravo di essere lasciato in pace –
- Lasciato alle tue fantasie di morte, vorrai dire. Ma, tranquillo, vado via subito. Volevo solo salutarti prima della partenza –
- Magari ci rivediamo –
- Magari no –
Uno spiffero d’aria spinge la porta della cucina in un tonfo di chiusura. I due uomini si voltano verso il suono, secco e assoluto come uno sparo, poi tornano a guardarsi.
- Hai lasciato le finestre aperte – commenta l’altro senza interesse.
- Volevo respirare un po’ –
- La nebbia di Fine Viaggio? –
- La speranza di Cimitero di Solitudine –
- Allora hai deciso –
- Mi conosci da così tanto tempo. Non hai bisogno di stupirti –
Gli occhi dei due uomini non smettono di fissarsi nell’esumazione di ricordi imputriditi.
- Hai iniziato a suonare per riempire la tua solitudine. E il violino stride di vita. È per questo che hai voluto anche insegnarlo -
- Portavo la vita, l’unica che conosco –
- Ma poi anche il violino taceva e non ti rimaneva mai nulla in mano –
- Forse sì, forse sarebbe accaduto se avessi incontrato una donna appassionata dalla mia musica. Forse le note sarebbero rimaste negli accordi del suo sguardo ammirato, nel ritmo dei suoi respiri sospesi. Ed io mi sarei sentito vivo, ancora –
- E come lei, immaginavi tutta la famiglia –
- Ho sempre desiderato una figlia, lo sai –
I due uomini annuiscono, in una complicità che li ha uniti senza ritorno.
- Soprattutto da quando hai ucciso quella bambina, la tua prima allieva –
- Non aveva amore dopo le mie note. Lasciava spegnersi la musica e diventava assente, persa nei giochi, negli appuntamenti con le amiche. Così, ogni volta, mi lasciava solo. Il violino ed io. E lei che se ne andava –
- Ed hai iniziato ad odiarla. Fino ad odiare anche la tua famiglia inesistente –
- Sì –
- Fino ad ucciderli nella fantasia ogni giorno –
- Sì –
- Come hai ucciso altri allievi nella realtà –
- Sì –
- Ed ora –
- Ora non mi rimane altro che il livore della mia solitudine. Del mio silenzio. Niente più note prive di ascolto. Niente più assenze di ammirazione –
Il viso del maestro Camillo Fadore è accarezzato da lacrime sottili e discrete che luccicano di speranza attraverso lo specchio dell’armadio.
Anche la sua immagine riflessa piange, proprio come lui, e continua a parlargli
- Forse ora ti senti meglio. Il veleno che hai messo nel caffé dovrebbe già fare effetto-
- Sì – annuisce il violinista e con lui l’immagine riflessa, in una complicità indissolubile fino alla morte – Ora è tempo di salutarci, sento che le forze mi abbandonano –
- Stammi bene, Camillo –
E i due uomini, uno davanti allo specchio, uno all’interno, chiudono insieme gli occhi.
***
Miao, gatto vagabondo di Fine Viaggio, è improvvisamente distolto dal suo meticoloso leccare di zampe. Il tonfo del corpo che cade al suolo lo spaventa e lo spinge ad abbandonare in tutta fretta il comodo giaciglio creato tra le cornici prive di foto che ha sparso sul pavimento. Con un balzo attraversa la finestra della stanza e atterra nel balcone sottostante. Qui, con cura, continua ancora un po’ la sua toilette.
Poi, finalmente tranquillo, ondeggia tra le piante incolte di Carmen e della sua amica professoressa.

*racconto inserito nell’antologia “Città di Solitudine”.

Nessun commento: