sabato 29 dicembre 2007

considerazioni in salsa noir

Delle serie “ma non hai niente di meglio da fare”, ho deciso di uscire dall’atmosfera in cui inseguo i personaggi del mio romanzo per tentare di esprime un mio pensiero “noir”.

Perché nella località montana in cui mi trovo temporaneamente si respira aria “noir”. Anche nella città dove vivo e lavoro respiro “noir”. Diverso, forse più frenetico. Forse più “distratto” rispetto ad un paese.

Il mio è il parere di un grande lettore (lo sono secondo le statiche italiane, con oltre una quarantina di libri, tra saggistica e narrativa, “divorati” annualmente) e di un piccolo scrittore, emergente. Definito noir.

Premetto che nel genere mi sono trovato per caso, senza cercarlo.
Se per “noir” si intende un dipinto in cui il velo nero della società non è marginale, ma radicato nella società stessa; in cui non è l’investigatore, o solo questa figura, a condurre l’indagine per svelare il crimine, ma il crimine, in ogni sua forma, è il vivere della quotidianità.
In cui non c’è finale consolatorio, con la risoluzione che accontenta e rassicura il lettore. Ma, spesso, tutto finisce peggio di prima.
Ecco, in questo genere mi ritrovo, senza apparenze di moda da seguire.
Oltre i miei racconti, i miei attuali due romanzi sono stati definiti “noir sociali”. Anche se, per quanto scritto prima, “sociali” sembra più ridondanza che rafforzativo.
Eppure, a mio avviso, specificarlo ha ancora importanza, proprio per distinguere il “noir” spicciolo, di vendita, da quello che vorrebbe allontanarsi dall’idea precostituita per il successo editoriale. Successo, tra l’altro, proprio per la saturazione del “noir”, destinato spesso ad essere effimero.

Con questo mi discosto dalla mia produzione, da un lato perché non voglio puntare ad una forma di “autoesaltazione pubblicitaria” delle mie opere (proprio un bel tentativo di marketing!), dall’altro perché affermare di scrivere “noir sociale” non è sinonimo di qualità.

Mi soffermo solo su alcune considerazioni generali.
Spesso il “noir” non è scoperto dallo scrittore come genere proprio, tipico del suo stile ed espressività, ma inseguito per desideri di mercato. E il risultato è quello che lei descrive. Saturazione di superficialità che rende la superficialità quotidianità interessante. E rincorsa dell’editore a fare incetta di quel noir che corrisponde alle richieste di mercato (ci sono eccezioni, per fortuna).
Il “noir”, così formulato, sta uccidendo il “noir”. È l’omicida che desidera uccidere se stesso scambiandosi per la vittima designata.

Eppure, ritengo, per mia esperienza di lettore, che ci sia anche un “noir” che riesce a sopravvivere a testa alta.
È un genere non consolatorio, che parla di morte, di corruzione e non fornisce risposte. Ma proprio per questo dovrebbe pesare sul lettore. Su quello critico, almeno.
Perché spoglia la società delle “maschere” del buonismo, ha il coraggio di vincere l’ultimo tabù dell’occidente e mostrare la morte. Non soffermandosi gratuitamente sui suoi aspetti grondanti sangue (quelli che eccitano ogni lettore, quelli che spingono la gente a formare code in strada per guardare le lamiere di un’auto contorte e verniciate di rosso).
Ma sussurrando, che, alla fine, la morte è necessaria alla vita, come la vita non esiste senza morte. E invitando per questo il lettore a darle un’occhiata. Senza paura, ma come mezzo per riflettere sulle domande lasciate senza risposta dal romanzo noir. Dove finisce il velo nero del sociale? È masticato nella città, assaporato nel paese. Frantumato dalla metropoli e dilatato dalla comunità rurale.

Ma sempre presente, nascosto dalle maschere che indossiamo, maschere su maschere, diverse e imbottite di gentilezza e buonismo. Maschere che crollano per un sorpasso “di troppo”, per un rumore “di troppo” del vicino di casa. E svelano zanne.
Questa è la ricerca del “noir”. Questo il suo tentativo.
Far cadere le maschere, o almeno qualcuna di queste.

E poi ritirarsi, lasciando il lettore solo. Davanti allo specchio.

Giovanni Sicuranza

venerdì 7 dicembre 2007

I segreti del mare (versione Profondo Giallo)

I segreti del mare (prospettiva in giallo) di Giovanni Sicuranza.

La sabbia.
È così piena di se stessa e silenziosa da riempire la mente di Sabina e spingerla a proseguire, fin dove le onde diventano fragile schiuma. Fin dove l’uomo aspetta.
- Ciao – mormora lui, senza voltarsi, gli occhi che navigano nella sinuosità del mare.
Sabina si morde un labbro e ancora una volta si chiede perché.
Perché è qui, in una spiaggia deserta, in compagnia di un estraneo. Perché ha accettato il suo invito.
L’uomo scivola oltre quei pensieri, anzi, sembra essersi già dimenticato della sua presenza. Quando parla le sue labbra si schiudono alle onde.
- Non è possibile che sia lo stesso mare dell’estate. L’ultima volta che l’ho visto era un assembramento di ombrelloni, corpi, sdraio – lo sguardo si muove lento verso la donna, ma si ferma prima, sui profili della spiaggia che è solo sabbia e vento.
E silenzio. Silenzio pieno di sussurri di un luogo deserto, ma vivo.
- Hai freddo? – chiede improvvisamente l’uomo.
Sabina non risponde subito, ancora confusa dal suo atteggiamento, o da tutta la situazione che si è creata in pochi giorni e che l’ha condotta fin qui.
La morte di Cesare, la telefonata di quest’uomo, che è il fratello di Cesare, ma che lei non ha mai visto prima.
La sua richiesta di vedersi, di conoscersi almeno ora. L’appuntamento sulla riva, nei primi tramonti d’autunno.
E lei che accetta.
- No, non ho freddo.
Finalmente lui si volta e porta con sé un sorriso ampio. Troppo ampio. Lei lo guarda, e poi entra nei suoi occhi chiari e, ora, sì, ha un brivido di freddo.
- È bello conoscerti – sussurra l’uomo, senza nemmeno un fremito spontaneo in quell’espressione di cordialità.
- Davvero? – lei non riesce a nascondere l’incredulità.
Ma il sorriso di lui non cede. Allora Sabina cerca rifugio nelle onde che giungono alla riva, si arrampicano nel vento e diventano schiuma bianca che muore sulla sabbia.
- Il mare conosce molti segreti – la raggiunge la voce dell’uomo, calma, profonda, tanto che per un attimo lei crede che a parlare sia stato davvero il mare.
- Perché hai deciso di conoscermi solo ora, Claudio? Ricordo solo una tua telefonata, da quando ero con Cesare.
Dai colori accesi del cielo un gabbiano si lancia tra le onde, piume bianche in un guizzo di spuma bianca, la risalita rapida nel tramonto, con un grido di delusione per aver mancato la preda.
- Quando ieri ti ho chiamata, hai fatto fatica a ricordare il mio nome – sente la risata di lui, breve, sarcastica – Cominciavo a pensare che ora te lo fossi già dimenticata.
Lei si volta, rapida, i suoi occhi che entrano decisi in quelli di lui. E finalmente vede il suo sorriso cedere a un ovale di stupore.
- Non c’è mai stato un buon rapporto tra te e Cesare, anzi, nessun tipo di rapporto ad essere precisi – Sabina spinge le labbra tra la morsa dei denti, poi le lascia fuggire insieme alle parole – Siamo stati insieme per sette anni, Claudio, sette. Abbiamo vissuto felici in questo paese di mare, lontani dalla città. E adesso che ti incontro, filosofeggi sulle poesie della spiaggia deserta.
Claudio annuisce, sospira, ma i suoi occhi sono ancora un nulla chiaro. Chiaro come le onde, come il gabbiano. Un chiaro assoluto, privo di emozioni.
- Volevo conoscerti da tempo, Sabina, ma non ho mai avuto il coraggio, sai, per i rapporti tra noi fratelli. Ma ora che Cesare è morto – si ferma. Le sue palpebre diventano fessure, mentre a poco a poco ritorna quel sorriso senza vitalità.
- Tu, allora, perché hai accettato di vedermi?
Perché in fondo sei l’unico legame che ho ancora con Cesare, perché lui mi ha sempre detto che un po’ vi somigliavate.
Questo gli risponde la donna, ma solo con la mente, e di nuovo si volta verso il mare, in tempo per scorgere il gabbiano che tenta un altro affondo e ancora fallisce.
In realtà non è così, capisce ondeggiando tra delusione e rabbia.
Ed io lo sapevo. Cesare era spontaneo, vero, tu sei solo una copia di frasi fatte e sorrisi plastificati.
- Credi che io sia menzogna, vero? – ora le parole di Claudio sono così vicine alle sue spalle, che lei ne sente l’alito caldo correre sul collo e lasciare la traccia di un brivido – Posso dimostrarti che ti sbagli. E che la menzogna sei tu.
Cosa?, protesta lei, voltandosi verso l’uomo, così stupita che non riesce nemmeno a pronunciare la domanda, così rapida che le loro labbra non si sfiorano solo perché Claudio è altrettanto lesto a fare un passo indietro.
Il suo sorriso è ancora lì, scolpito e falso. Gli occhi, anelli di ghiaccio che svuotano.
- Vogliamo accomodarci? – la invita l’uomo indicando un tronco di legno che si inarca sulla sabbia – Chissà da quanto tempo il mare l’ha dimenticato qui. Non sarà il massimo della comodità, ma almeno è asciutto.
- Cosa vuoi? – lo sfida lei, cercando di essere dura, tanto dura, nonostante l’ansia che si gonfia dentro come marea crescente.
Claudio si è già seduto e continua a guardarla.
Se solo quel sorriso cedesse, pensa veloce Sabina, se solo
- Farti capite che non sono il cattivone che pensi. E spiegarti un po’ di cose senza chiedere nulla in cambio. Con calma – l’uomo allunga una mano verso la donna – Ti va?
Sabina non si muove, non risponde, stringe le braccia al petto, perché vorrebbe che il cuore smettesse di battere così forte, fino in gola, e intanto si sforza di reggere lo sguardo di Claudio.
- D’accordo, come vuoi – si arrende lui. La mano si tuffa nel giubbotto e riemerge con un pacchetto di sigarette – Scommetto che non fumi.
- Infatti – mente lei, mentre la salivazione aumenta alla vista della sigaretta che si accende e diventa tramonto di braci tra le labbra dell’uomo.
Claudio chiude gli occhi, inspira a fondo e abbandona il fumo a disperdersi tra il vento. Poi guarda ancora Sabina. Senza più sorridere.
Lei dovrebbe sentirsi sollevata e invece ora l’espressione di lui è ancora più inquietante. C’è rabbia, una rabbia forte, che si aggrappa sul viso della donna e che lì rimane, per un lungo istante di silenzio nel silenzio della spiaggia.
Sabina pensa che forse è meglio salutarsi, ora, subito, con le reciproche condoglianze per la morte di Cesare. Anche perché non capisce il motivo di quella rabbia, e, insomma, nel complesso non è che Claudio gli sembri una persona tanto a posto, anzi, scema a non intuirlo prima. E poi se lui ha intenzione di farle del male, chi mai potrebbe soccorrerla in questo deserto, e allora è meglio, sì meglio
- Non è meglio se cerchi di rilassarti e mi dai la possibilità di parlarti? – la sorprende ancora lui, con un tono troppo calmo per non essere maschera di emozioni represse – Solo un po’, poi sparisco – alza le mani in alto, come in segno di resa – Promesso.
Sabina ha un lungo sospiro con cui fa’ uscire la parte d’ansia che rischia di esploderle nel petto. Con quella che rimane, decide che tutto sommato il fratello di Cesare merita un tentativo.
- D’accordo – mormora – Ti ascolto.
Non si avvicina, non si siede al suo fianco. Ma lui sembra già soddisfatto così.
Annuisce, un altro lungo tiro di sigaretta, gli occhi che si chiudono ancora e poi si aprono oltre il fumo, nelle onde.
- Non credermi un cittadino viziato, nonostante i miei abiti firmati e la mia abbronzatura artificiale. So ascoltare il mare almeno quanto era in grado di farlo di Cesare. Per questo eravamo simili – il suo sguardo scivola veloce in quello di Sabina, poi torna all’orizzonte – E allora lascia che ti racconti qualcosa – una pausa, un tiro di sigaretta – Me l’ha raccontata proprio il mare. Lui ha molti segreti, te l’ho già detto, vero?
Un’altra pausa, durante la quale l’uomo osserva la sigaretta agonizzare tra le dita, con distacco, anche quando gli ultimi sussulti della brace mordono la mano. Allora si limita a chiuderla nel pugno e quando lo riapre non c’è più traccia di fuoco nel mozzicone.
Sabina non può fare a meno di scuotere la testa. Lui la guarda, con un sorriso amaro.
- Vedi? Probabilmente tu l’avresti gettata nella sabbia. Invece io – seppellisce la sigaretta nella tasca del giubbotto – Nemmeno Cesare lo avrebbe fatto, credimi.
La donna non risponde, ma ha qualche dubbio in proposito. E si chiede quanti mozziconi ci siano nelle tasche di Claudio.
- Scusami, ho la tendenza a divagare. È un mio difetto – l’uomo scrolla le spalle – Uno dei miei difetti – con un cenno del capo indica il mare – Ma ora lasciamo parlare lui, d’accordo?
Sarebbe anche ora, così torno a casa e penso quanto sono stata fortunata ad averti detto addio, pensa Sabina. E ancora tace.
***
- Intanto, mia cara Sabina, voglio raccontarti una ballata. Una ballata del mare, e non sbuffare, per favore, ti avevo detto che avrei lasciato parlare lui. Allora, devi sapere che un giorno, tanto tempo prima di me e te e Cesare, attratta dal lontano luccichio di strade asfaltate, la sabbia uscì dal mare. Aveva deciso di fermarsi sulla riva, giusto il tempo necessario ad irrorare di sole i suoi granelli. Quando fu asciutta, e già si vedeva tornare festosa al gioco profondo delle onde, arrivò l’uomo, che, incurante della sua antica libertà, la schiacciò con ventri di lettini e la penetrò con nerbi di ombrelloni. Da allora le diede il nome spiaggia e la dedicò alle urla orgiastiche dei turisti.
Claudio ha parlato senza pause. Ed ora sembra riprendere fiato, mentre osserva la corsa delle onde verso la spiaggia.
- Vedi, sembra che vengano qui a morire – si volta ancora verso Sabina – Insomma, sanno che si infrangeranno sulla sabbia, eppure non smettono, una a fianco all’altra, una dietro l’altra, in un suicidio di massa.
Sabina si morde un labbro, lancia un’occhiata alle onde e vede oltre le parole di Claudio. Poi torna negli occhi di lui.
- Puoi toglierti quell’aria ironica dal viso, sai? – la aggredisce lui, alzandosi dal tronco.
Lei fa un passo indietro, i muscoli delle gambe che si tendono, il respiro che si blocca. E invece lui si muove verso le onde e vi immerge gli occhi.
- Ti ho già detto di rilassarti. Era solo per dimostrarti che conosco il mare. Non ho intenzione di farti del male, anche se tu e Cesare pensavate che fossi un ingrato.
- Non un ingrato – precisa lei, senza rilassarsi per niente, anzi, con nuove ondate di ansia che si infrangono nel petto – Ma una persona distante da noi, non solo per i chilometri, Claudio, ma proprio per mentalità. Cesare
Lui si volta di scatto, ancora con quel lancio di rabbia negli occhi che colpisce la donna.
- Cesare mi ha chiamato poco prima di morire. Lo sapevi, vero?
No, pensa Sabina, stupita, Cesare non lo ha fatto.
- La tua espressione vale come risposta. Del resto lo immaginavo. Non voleva metterti al corrente che una delle ultime persone che desiderava sentire era proprio il suo odiato fratellino. Mi ha detto che era depresso, proprio lui, sempre allegro – Claudio sbuffa - e troppo irresponsabile per i miei gusti.
- E tu per lui eri un cinico troppo preso dagli affari – ribatte rapida Sabina, ancora confusa al pensiero della telefonata di Cesare.
Claudio scrolla le spalle.
- Lo so. Per questo non ci siamo più frequentati. Che vuoi farci, incompatibilità caratteriale. Ma la prima ed unica volta che tu ed io ci siamo sentiti è stata per una mia iniziativa. Volevo conoscerti almeno al telefono.
- Per poi litigare con tuo fratello sull’assicurazione – aggiunge lei, dura. Spera di avere spiazzato l’uomo e invece la sua sorpresa diventa una cascata che si unisce all’ansia quando scopre che lui ride. Ride davvero, di gusto, e la sua risata diventa eco beffardo che viola il silenzio della spiaggia.
- Basta – mormora Sabina- Basta.
Fa’ per girarsi su stessa, quando le parole di lui la ghermiscono e la bloccano.
- È per la polizza che Cesare è morto, vero?
- Cosa, ma cosa – annaspa lei – Cosa vuoi dire? – riesce finalmente a concludere, mentre si gira verso l’uomo, piano, mentre l’ansia è un fiume che straripa e tenta di forzarle la gola in ondate di nausea.
Claudio torna a sedersi sul tronco e con una mano le indica il posto al suo fianco.
- Credo sia meglio ritrovare la calma e chiarirci, Sabina, tutto qui. Te l’ho detto, conosco i segreti del mare. E qualche altro segreto viene dal mio lavoro – batte piano la mano sul legno – Forza, parliamo.
No, scappiamo, grida l’ansia.
L’uomo batte ancora la mano sul tronco, il sorriso di circostanza che gli lacera il viso.
Ma Sabina ha capito che non ha più scampo e allora, anche se non riesce a parlare, forse nemmeno a respirare, anche se la gambe tremano, in qualche modo raggiunge Claudio. E si siede al suo fianco.
***
- Una sigaretta? – chiede ancora lui.
- D’accordo – si arrende Sabina.
Nei minuti successivi, c’è solo il sussurrare delle onde, il fruscio delle sigarette che si consumano, e il colore del cielo che perde le tonalità rosse e gialle per un blu scuro, sempre più scuro.
Poi, quando il fuoco delle braci e del sole è spento, l’ombra di lui parla.
- Allora, quello che sappiamo è che Cesare aveva una polizza assicurativa molto alta – una pausa, lo sciabordio delle onde - e che in caso di morte tutto sarebbe passato a te.
Silenzio.
- Sabina? – la esorta lui, senza voltarsi a guardarla.
Sabina è sguardo lontano, oltre le parole, oltre il mare. Vede il film della sua vita con Cesare, il loro rapporto tormentato, e si cruccia, perché riesce ad evocare solo spezzoni sparsi della trama. Ma l’amore, profondo, quello sì, è sempre presente e ancora la riempie.
- Sabina? – ripete l’altro.
- Claudio, quando quella volta hai telefonato, era il giorno del nostro anniversario. Ma ovviamente non potevi saperlo. Non ti sei mai interessato a noi. Troppo impegnato nel lavoro di agente assicurativo.
- E Cesare in quello di pescatore. Ma, che tu ci creda o meno, siamo nati qui e un tempo eravamo molto uniti.
- Lo so, forse sarai tu a non crederlo, ma Cesare mi parlava spesso di te. Anche se raramente in modo positivo – Sabina ha un sospiro – Soprattutto dopo la tua telefonata.
- Un’altra sigaretta?
La donna si volta verso il profilo in penombra dell’uomo.
- Sì – decide, non perché la desideri davvero, ma per illuminare almeno il suo viso.
Claudio fruga nella tasca del giubbotto, dove sono giacciono sepolti schiere di mozziconi, poi ritrae la mano, deluso. Il pacchetto che stringe è un ammasso accartocciato da cui cadono residui di cenere.
- Terminate. Sai, con la vita stressante che faccio, ho iniziato a fumare di più.
- Capisco – risponde lei e pensa che è proprio uno stronzo.
- Comunque ti dicevo.
- No, scusa, io ti dicevo. Quella volta hai telefonato perché eri incazzato, non per conoscere me. Eri incazzato così tanto che ti sentivo urlare dalla cucina, anche attraverso la cornetta. E Cesare che tentava di spiegarti di noi.
- Beh, ascolta, quella polizza l’ha avuta grazie a me, era perfetta, mai venduto nulla di così vantaggioso ad un prezzo tanto basso.
- Già, ma l’evento morte era a tutto vantaggio del caro fratellino. Fino a quando non sono arrivata io. Cosa credi, anche se filtrata dalla cornetta, riuscivo a capire qualche tua parola gentile nei miei confronti, tipo “puttana”, “meschina” – Sabina decide di non proseguire. Il ricordo della telefonata la sta scaldando e ritiene di avere mostrato già abbastanza della sua emotività a quest’uomo.
E, soprattutto, non vuole correre il rischio di incontrare ancora il suo sguardo pieno di rabbia.
Ma Claudio la stupisce ancora una volta.
- Da allora Cesare ed io non ci siamo più visti – mormora con tono lontano, distaccato – Poi ho saputo dalla televisione che un uomo era disperso in mare e che le ricerche avevano dato esito negativo.
- Cesare è morto proprio dove avrebbe voluto – un altro lungo sospiro scuote Sabina, le palpebre si stringono, come nello sforzo di scoprire figure celate nel mare oltre l’oscurità – Eravamo in barca, proprio laggiù. Lui ha perso l’equilibrio e non, io ho tentato, l’ho chiamato, ma non so nemmeno nuotare – un singhiozzo, un altro e le lacrime esplodono - L’ho chiamato, l’ho chiamato, credimi, non sai quanto l’ho chiamato.
Claudio la abbraccia.
Lei non ha tempo di stupirsi, non ha voglia di rifiutare, e si lascia andare alla sua stretta. Fino a quando il pianto non sfuma e si accorge che lui sta cominciando a farle male. Allora tenta di divincolarsi, ma l’abbraccio dell’uomo è tenace e le blocca le spalle.
- Lasciami – protesta, già sapendo che lui non lo farà.
- Ti dico io come è andata – sussurra Claudio, le labbra che le sfiorano un orecchio – Sai, la telefonata di mio fratello dopo anni di silenzio mi ha stupito. Figurati sentirlo così depresso. Mi ha detto che voleva salutarmi, salutarmi davvero, perché non sapeva più quale strada prendere – un sospiro, che penetra nell’orecchio di Sabina con violenza – E vuoi sapere cos’altro mi ha detto? Che anche tu eri depressa, molto depressa. Solo che quel giorno ero in riunione e ho dovuto riattaccare in fretta, anche se, sì, lo ammetto, l’ho fatto con un cero piacere, visto che non gli ho perdonato il voltafaccia con l’assicurazione. Sai, sono cose che non si fanno ad un fratello.
Senza rendersene conto, Claudio stringe ancora di più la presa. Sabina geme, ma non osa più divincolarsi, nemmeno parlare, o, peggio, urlare.
È in balia di un folle e forse solo dopo il suo sfogo sarà libera, forse, per favore, forse.
- E allora ho pensato che nella sua morte tu hai avuto un ruolo. Sono un agente assicurativo, ho conoscenze dappertutto, anche tra i medici. Così, ho scoperto che la donna di mio fratello in passato aveva avuto due ricoveri per sindrome depressiva e ho tirato le somme.
No, tenta Sabina con la testa.
- Ssst – la ammonisce Claudio, con calma, l’alito che avvolge l’orecchio di lei – Allora, ecco come è andata, mia cara. Non so se Cesare era d’accordo con te, ma siccome non sono quel mostro che pensi, voglio darti il beneficio del dubbio e pensare che non hai organizzato tutto per i soldi dell’assicurazione.
Poi Claudio fa’ una cosa che sorprende e blocca Sabina ancora più di quanto potesse credere. Le bacia l’orecchio, delicato. E allenta la presa.
- Ora ti lascio andare, ma tu prometti che finisci di ascoltarmi, d’accordo?
Sabina non si muove. Sente l’orecchio umido e vorrebbe scattare, urlare, asciugarlo subito, ma è ancora smarrita da quel gesto.
Claudio stringe di nuovo la presa.
- D’accordo? – ripete, con tono decisamente meno conciliante.
Sì, risponde allora lei, ancora solo con la testa, sì, sì, sì.
- Bene, Sabina. Sai, non credo che tu sia proprio una cattiva persona. Solo, hai qualche problema, cioè, molti problemi.
E finalmente Claudio la libera dall’abbraccio.
Sabina non si muove, non ci pensa nemmeno, il capo chino sotto il vortice di pensieri di rabbia, frustrazione, paura. Dolore.
- Stai bene? – chiede lui, sorprendendola ancora con un tono premuroso.
Gli occhi di lei si sono rifugiati nella sabbia, e non hanno nessuna voglia di risalire, ma quando sente il tronco sollevarsi, Sabina capisce che lui si è alzato. Poi ne ascolta i passi pesanti muoversi e fermarsi davanti a lei.
- Lui era depresso perché tu eri depressa e non riusciva più ad aiutarti. Ti amava così tanto che, non so come, avete deciso di togliervi la vita insieme. Nel mare. Magari Cesare era convinto che vi sareste gettati insieme, ma alla fine proprio a te è mancato il coraggio.
- No! – scatta all’improvviso Sabina, con uno slancio inaspettato, mentre i suoi occhi salgono in quelli di Claudio.
L’uomo aggrotta la fronte, spiazzato. Solo un istante.
Subito dopo il suo sguardo si riempie proprio di quella rabbia che Sabina ha sperato di non ritrovare.
- No? – urla – No? – ripete in un crescendo di tono - Allora lo hai ingannato per avere i soldi dell’assicurazione! Gli hai fatto credere che sareste morti insieme e quando lui si è gettato ti sei allontanata!
Sabina si nasconde il volto tra le mani.
- Lasciami, lasciami per favore – singhiozza.
- È così, allora, è così, maledetta.
Sabina serra gli occhi e affonda la testa tra le spalle, in attesa che lui la colpisca e intanto non riesce a trattenere le lacrime, non riesce più a fingere che anche lei è forte.
Spera solo che Claudio vendichi la morte del fratello senza farla soffrire troppo e aspetta.
Silenzio.
Apri gli occhi, si dice.
Silenzio.
Non ci penso nemmeno
Silenzio.
Non puoi startene così, magari è andato via davvero
Le dita scivolano caute sopra le lacrime e quando apre gli occhi, Sabina vede la distesa scura del mare. E null’altro.
Rimane così, cercando di soffocare il pianto, di rallentare il respiro per cogliere la presenza di lui, ma quello che ascolta è solo il suono delicato delle onde.
- Il mare parla – la voce di Claudio arriva alle sue spalle.
Sabina ha uno scatto e solo una mano calata sulla spalla le impedisce di urlare fino a lacerarsi i polmoni.
- Stai calma, sto andando via – spiega l’uomo, di nuovo apparentemente calmo – Ma, come vedi, tra noi in realtà sei tu quella che devi qualcosa al mare. Non ti denuncio Sabina, non farò nulla. Almeno per il momento. Perché conto sulla tua depressione e spero che in qualche angolo della tua mente ci sia ancora amore per mio fratello. Quindi – la voce si abbassa di nuovo fino al sussurro caldo che sfiora l’orecchio della donna – Quindi, Sabina, non mi salutare, non ti voltare nemmeno. Continua solo a guardare il mare e pensa. Credo tu sappia cosa è giusto fare.
Un altro bacio, ancora, delicato, questa volta sul viso e poi quello che rimane di Claudio è il rumore dei passi che si allontanano.
Sempre di più.
***
Sabina non smette di piangere, nemmeno ora che è sola. Sola nel deserto della spiaggia, sola davanti alla vastità del mare.
Ai suoi segreti.
Si spoglia, piano, scossa dai singhiozzi, e intanto il suo sguardo affonda tra le onde.
Solo quando rimane in slip e reggiseno entra nell’acqua.
E scopre che non è nemmeno così fredda come credeva.
***
Claudio cammina sul marciapiede che costeggia la spiaggia, diretto verso l’auto. In realtà si muove come un automa, gli occhi che non vedono il percorso, ma guardano dentro, nel turbinio dei pensieri.
Si era fatto l’idea di una donna fragile, gravemente depressa, che a poco a poco aveva spinto il compagno nel baratro della sua stessa malattia. Una donna che aveva costruito il suo amore nell’idea della morte, ma che all’ultimo aveva perso il coraggio, forse proprio perché aveva visto Cesare inabissarsi.
- Buffa la vita – mormora a se stesso, mentre una mano affonda nella tasca, alla ricerca di una sigaretta superstite tra i mozziconi. E quando non trova nulla, nemmeno un frammento di caramella, si rende conto che l’attesa sarà lunga. Molto lunga.
Chiuso nell’auto, osserva la luce dei lampioni e si chiede distrattamente come sarebbe la notte illuminata da tante lune.
Accende lo stereo e si lascia avvolgere dalle tiepide note dei Cocteau Twins.
Probabilmente, ci sarebbero meno ombre in cui morire, si risponde. E chiude gli occhi.
E aspetta. Aspetta mentre immagina Sabina, bianca di morte, che galleggia nell’acqua scura e ripensa a come si è comportato con lei.
- Sei un fenomeno – bofonchia, mentre tutto intorno e dentro lui diventa buio e i Cocteau Twins affondano nel suo sonoro russare.
***
“Chi ami?”
“Nessuno”
“Chi odi?”
“Cosa? Ma che c’entra, adesso”
“Chi odi?”
Claudio sospira, fa’ per passarsi una mano sul viso, ma poi si ricorda che è sul fondo del mare e che asciugarsi non ha molto senso.
“Chi odi?”, insiste la voce dal buio.
“Dove sei? Non mi piace parlare a chi non vedo”, risponde Claudio, girando su se stesso con un’unica spinta del piede. L’acqua lo segue con una scia di bollicine e solo allora lui nota un particolare. Così ovvio, che non poteva farci caso.
“Chi odi?”, ripete la voce, ora più vicina.
“Non respiro”, trema Claudio, “Oddio, oddio, oddio, non respiro. Non ci sono bolle quando parlo”
“Chi”, la voce, a pochi istanti da lui, “Chi odi?”.
Ma dove? Alle sue spalle? Sopra?
Claudio si volta, frenetico, ovunque, in un vortice di oscurità totale.
“Chi sei?”, grida, così forte che dalla sua bocca dovrebbero esplodere bolle grandi come palloni. Invece nulla.
“Chi odi, Claudio?”.
“Io”, esita lui, “Io non, io sono, no, non è vero, non sono morto!”
“Io sì”. Il viso bianco della donna è ora a un soffio dal suo. Così vicino che Claudio riesce a notare tutte le screpolature delle labbra gonfie, ogni tortuosità delle vene che emergono dalla pelle sottile. E il freddo, un freddo così assoluto da annullare quello dell’acqua notturna.
“Vuoi baciarmi ancora, Claudio?”, chiede Sabina, mentre allunga alghe e braccia e con una mano gli sfiora già un orecchio.
Claudio chiude gli occhi, ma il viso di Sabina è dentro di lui e continua a sfiorarlo, bianco e gelido. Allora, prima che le labbra della donna incontrino le sue, fa’ l’unica cosa che gli è ancora concessa in quel mondo sommerso di morte. Urla. E urla. E urla.
***
- Ma che sei, rincoglionito del tutto?
- Eh? – Claudio si guarda intorno, gli occhi sbarrati, pronto a ricominciare, anche se quella voce non sembra più di Sabina.
- Allora, tanta cura nei particolari ed ora ti metti a gridare come un’isterica.
- Urlare? – ripete Claudio, scoprendo che si trova nella sua auto e che chi parla non è certo Sabina, né un qualsiasi altro cadavere.
- Urlare, sì – lo rimprovera l’uomo, senza alzare la voce – Vediamo di svegliare tutti, così, tanto per farci notare insieme.
Adesso, sì, Claudio si passa una mano sul viso. Adesso, sì, avverte il tepore del suo alito sul palmo e sospira, sospira a fondo. Poi si gira verso l’altro e gli sorride, con una spontaneità così intensa e nuova, che solo ora l’uomo seduto al suo fianco sembra davvero preoccuparsi.
- Tutto bene?
- Bene, sì, tranquillo – un altro sospiro e si sente già più leggero. E vivo – E tu, tutto a posto?
- A posto, anche se sono a pezzi – risponde l’altro. E tanto per dimostrare che non esagera, si appoggia sullo schienale e chiude gli occhi.
Claudio lo scuote. L’uomo apre appena la palpebra utile per lanciargli uno sguardo contrariato.
- Che vuoi ora? Solo tu puoi dormire?
- Lo sai che non abbiamo finito.
- Uff, senti, l’ho osservata fino a quando non è entrata nell’acqua. Anche se – l’uomo si morde un labbro.
- Anche se cosa? – lo esorta Claudio, un campanello di allarme che gli trilla intorno – Mi sono impegnato con tutta quella sceneggiata, non dirmi che qualcosa è andato storto.
- È questo il punto, bello – l’altro apre completamente gli occhi e si gira verso di lui – Hai voluto fare il grande, dimostrare quanto riesci a plagiare una persona con le tue capacità.
- Beh – inizia Claudio, sentendosi all’improvviso poco sicuro – Ci sono riuscito, no? Tutte quelle balle, insomma, ha creduto davvero che fossi il fratello arrivato a chiedere giustizia.
- Già. Questa era la parte più facile, considerato che non lo aveva mai visto – ironizza l’altro.
Claudio ha un desiderio improvviso. Prendere quell’uomo per i capelli e spingergli il volto oltre il parabrezza. E invece gli dedica il taglio di un sorriso.
- Cosa non ha funzionato?
- Te l’ho detto che Sabina era una vigliacca. Non ha mai avuto il coraggio di suicidarsi. Nemmeno quando io mi sono immerso chiedendole di seguirmi. Nemmeno quando sono sparito dalla sua vita – Cesare socchiude le palpebre su Claudio – Nemmeno ora, nonostante la tua grandiosa recita.
- Cazzo! – un pugno si abbatte sullo schienale, a pochi centimetri da Cesare, che sobbalza.
- Ehi, attento!
- Cazzo! – ripete Claudio, prendendosi il volto tra le mani – Non è morta?
- E’ morta.
Silenzio. Piano, come nel timore di perdere quella frase, Claudio alza il viso su Cesare.
- Morta?
Cesare si illumina, godendo del trionfo sul complice.
- Lo sai che me ne stavo al largo per nascondere il corpo. Quando ho visto che se ne stava lì, come una beota, con l’acqua fino al collo, mi sono avvicinato con la barca e – cala il pungo sul palmo – un colpo di remo secco, preciso. Le ho aperto il cranio in due.
Claudio ha un’espressione di disgusto.
- Ehi – lo aggredisce Cesare – Te e le tue filosofie fallimentari della non violenza. Non dovevo lasciarmi convincere dal tuo piano.
- Non volevo sangue, lo sai. Credevo che la sua depressione bastasse a
- Bastasse un paio di – inizia Cesare e subito si blocca, rendendosi conto che sta iniziando ad urlare.
- Forse è meglio se ce ne andiamo da qui – propone Claudio e fa’ per accendere il motore, ma un dubbio cala sulla mano che regge le chiavi – Hai nascosto ogni traccia?
Cesare annuisce.
- Tutte?
Cesare sbuffa.
- Senti, non è stato piacevole, per questo avevo dato a te l’incarico di far fuori Sabina. E invece te ne esci con la teoria psicologica su sensi di colpa e depressione.
- Ma tu risultavi morto, non potevi ucciderla! E lo sai che io
- Sì, sì, non sopporti il sangue – lo liquida Cesare con gesto sprezzante della mano.
- Hai cancellato le mie tracce? – insiste Claudio.
Cesare ha uno sbadiglio così largo da riempire tutto l’abitacolo, si adagia ancora sullo schienale e socchiude gli occhi.
- Ho spaccato la testa della mia compagna - cantilena - l’ho presa sulla barca, l’ho legata con le catene e l’ho gettata al largo. Passeranno giorni, forse settimane, prima che la troveranno. Poi, mentre tu te ne stavi qui al calduccio a dormire, sono tornato alla riva, ho preso i suoi vestiti e ho cancellato le vostre tracce sulla sabbia – pausa, una palpebra che si apre a sfiorare il compagno – Contento?
- … fanculo.
Con un lamento soffocato, l’auto esce dal paese.
***
Nell’abitacolo il silenzio è pressoché assoluto, a parte il sussurro del pianoforte di Sakamoto.
Mentre guida, Claudio lascia scivolare lo sguardo lungo i profili in penombra della spiaggia deserta. Ripassa mentalmente tutti i preparativi degli ultimi mesi e ancora si stupisce del fallimento del suo piano. Era convinto di riuscire a spingere Sabina al suicidio recitando la parte del fratello di Cesare, suo omonimo.
In realtà, Claudio e Cesare si sono conosciuti proprio grazie al fratello. Claudio e Claudio, una coppia di convincenti agenti assicurativi.
Tanto che Cesare aveva stipulato una polizza molto vantaggiosa a beneficio del fratello.
Solo che poco dopo Cesare si era innamorato.
E tutto era cambiato, oltre il cambiamento del beneficiario a vantaggio della sua compagna. Sì, tutto era cambiato con tre eventi che si sarebbero rilevati la premessa della morte di Sabina.
Il fratello di Cesare era morto d’infarto proprio pochi giorni dopo la telefonata del litigio.
La società di pescatori aveva dichiarato fallimento e Cesare si era trovato a vivere alla giornata, sperando nelle capacità della sua piccola imbarcazione e nella benevolenza del mare.
E al ritorno a casa, ogni volta, l’uomo trovava una donna apatica, impotente contro la depressione che la avvolgeva. Una donna che, da amata, si stava trasformando in zavorra. E che gli annullava ogni speranza di futuro.
Allora, a poco a poco, dapprima tra vaghi accenni, poi tra mormorii e quindi in discorsi particolareggiati, tra Cesare e il suo amico era nato il piano.
Prendere i soldi dell’assicurazione e allo stesso tempo sbarazzarsi di Sabina.
Ma prima Cesare doveva morire.
- I documenti sono pronti, hai detto – la voce spezza i pensieri e riporta Claudio sulla strada. Con la coda dell’occhio sfiora l’amico che osserva lui.
- Passaporto, carta d’identità. Tutto a posto.
- Già – ride Cesare – dove andremo la patente non ci serve. Solo mare e sabbia e sole.
- E un lavoro di consulenti alberghieri.
- Ma con calma – precisa Cesare – Con tutti i soldi che ci aspettano per la mia morte.
Claudio annuisce, lo sguardo sulla strada nera.
- Con calma.
Claudio e Cesare si guardano ancora un solo istante. Occhi negli occhi. E, dall’omicidio di Sabina, è la prima volta che si ritrovano a ridere da vecchi amici.
Intanto, però, Claudio preme sull’acceleratore. Ha fretta di avvicinarsi alla città.
C’è ancora molto da fare.
Innanzitutto, la curva a gomito lo aspetta. Lì, il caffé che Cesare ha preso dal thermos avrà già fatto il suo effetto. E il caro amico, drogato e assopito come un putto, si farà un bel volo nel burrone, con tanto di auto in fiamme al seguito.
Poi, il mattino dopo, al lavoro, dovrà affrettarsi a trasferire la cifra della polizza sul conto corrente di Sabina. Che è poi quello in comune con Cesare. E di cui Claudio, nell’ombra, è diventato cointestatario.
Tutto preciso, tutto veloce. Tutto in ordine. Come piace a lui.
Sorride ancora a Cesare, che ha già chiuso gli occhi sui suoi ultimi minuti di vita.
Allora abbassa il finestrino, solo un po’, e inspira l’aria di mare che scorre nella notte.
***
Nella Caserma dei Carabinieri, il Maresciallo Capo Pasquale Losaccio si stiracchia soddisfatto. È stato un turno duro, oltre il previsto, tanto che ha dovuto lasciare le seccature per la sera. Come compilare l’avviso di garanzia per la signora Sabina Dolore, indagata da quando si è scoperto che risulta beneficiaria di una cospicua somma in caso di decesso di Cesare Scoglio. E poiché domani mattina lui stesso provvederà ad un sopralluogo all’agenzia assicurativa, mentre i suoi colleghi bloccheranno il conto corrente della donna, l’avviso di garanzia non poteva essere rimandato.
Ma ora, finalmente, il Maresciallo Capo può lasciare la scrivania e tornare a casa prima di una nuova giornata impegnativa.
Pasquale Losaccio si affaccia dalla finestra, giusto in tempo per scorgere un’auto che corre oltre i limiti.
Scuote la testa al pensiero che nessuno dei suoi colleghi è nei paraggi, poi lo sguardo si allunga verso il mare.
Chi se ne frega, si dice, ho solo bisogno di rilassarmi.
Chiude la finestra, spegne la luce sulla scrivania e sbadiglia, già pregustando la passeggiata fino a casa.
Lungo la spiaggia deserta.

mercoledì 5 dicembre 2007

"La legge dei figli" presentata al Campidoglio

Addirittura. Proprio la raccolta in cui è presente anche il mio racconto "Il museo delle cere"?
Sembra proprio di sì. E allora complimenti a me stesso e agli altri autori. E grazie all'editore e ai curatori (se ho dimenticato qualcuno, mi appello alla Costituzione).

Da www.zaffoni.it , notizia 032:

"Un'antologia per la Costituzione.

139 articoli, 18 disposizioni transitorie e una storia che risale al 1948. Questa è la nostra Costituzione, che da sessant’anni fonda i valori della Repubblica Italiana, le sue leggi e la convivenza dei suoi cittadini. O almeno dovrebbe farlo.

Con La legge dei figli (Meridiano Zero) sedici scrittori della giustizia italiana - agenti delle forze dell'ordine, magistrati, funzionari - mettono alla prova la Costituzione di cui sono figli. Prendendo spunto da singoli articoli ci raccontano un paese in cui nulla è scontato, nemmeno l'applicazione dei principi stessi lasciati in eredità dai padri costituenti. Il risultato è un percorso a tinte nere per scoprire un'Italia in cui le ombre non si annidano solo fra il malcostume e la criminalità, ma soprattutto nell'oblio della Costituzione stessa.

Gli autori: Piernicola Silvis, Gianpaolo Trevisi, Andrea Testa, Angelo Marenzana, Simano Mammano, Maurizio Matrone, Marco De Franchi, Piergiorgio Di Cara, Alessandro Cannevale, Ugo Mazzotta, Giovanni Sicuranza, Carmelo Pecora, Mauro Marcialis, Girolamo Lacquaniti, Sergio Sottani, Marco Pelliccia.
Prefazione di Giancarlo De Cataldo.
L'antologia è curata da Lorenzo Trenti e Sabina Marchesi.

Il volume sarà presentato in Campidoglio martedì 11 dicembre alle 10.30".

domenica 11 novembre 2007

Incipit tratto dal romanzo "Quando piove" di Giovanni Sicuranza

atto primo - intorno ai primi eventi -

Piove.
A dirla, è proprio una parola breve.
Scivola veloce dalla bocca e sfuma nel distratto assenso di chi ascolta.
Ma a volte è così concreta. Pesante.
Come la giornata grigia, lenta, che si è addormentata sulla Villa.
Mi giro e la guardo, la Villa.
Per chi la conosce di fama, è una fulgida casa di riposo, immersa nel verde, a pochi chilometri dalla città, facilmente raggiungibile in auto. Soprattutto per chi, oltre all’auto, ha intenzione di parcheggiare alla Villa il proprio vecchio.
Con la differenza che mentre l’auto rimane giusto il tempo di qualche firma nei moduli di accettazione, il nonnino entra nella Villa finché morte non li separi. Morte di lui, si intende.
Ascolto gocce di pioggia confuse sulla veranda.
Per me la Villa è la facciata abbellita del traguardo di chi ha corso tutta la vita ed è rimasto senza fiato. Solo.
Ha un parco enorme, ben vestito di alberi, fiori e di un laghetto artificiale dove è addirittura possibile pescare pesci forniti ogni mese dalla cortese clemenza del Direttore.
Ed io, ora, qui, nello stagno di una veranda inzuppata di pioggia, mi sento parte di questo abito.
Vedo un’ombra gobba dipingersi veloce tra le tende che cadono immobili lungo le vetrate antistanti la veranda e svanire subito oltre le travi di legno. Chiudo gli occhi, assopendo pensieri gonfi di solitudine, poi appoggio le mani sulla balaustra bagnata, fredda. E conto mentalmente.
Uno
il gracidare secco della maniglia della porta a vetri che si abbassa
due
le porte a vetri che si aprono come una bocca famelica spinta dal vento
tre
- Ma è rincoglionito del tutto? Venga subito dentro prima che mi arrabbi più di questo temporale!
E, come da facile previsione, la melodica voce di suor Adelaide che mi invita a rientrare.
Mi volto verso di lei e non posso fare a meno di sorridere. Una cornacchia nera che agita nervosa le ali mentre il vento gioca con il suo abito funereo sullo sfondo delle luci stanche del salone. Rientro concedendomi il gusto della vittoria con passi lenti che se possibile rendono ancora più nervosa suor Adelaide. A capo chino passo sotto le forche caudine delle porte a vetri, accompagnato dallo sguardo cattivo e strabico della nostra amata suora. Le porte si chiudono alle mie spalle e il tamburo della pioggia diventa un sottofondo veloce.
- Bella mossa, bravo, complimenti! – suor Adelaide mi sbarra la strada in cameratesca posizione, mani puntate a pugno sui fianchi e petto in fuori. Mi chiedo se farà anche il saluto romano – Adesso stia fermo lì, che è fradicio dalla testa ai piedi, non vede?
- Veramente più che vedere, lo sento – mi viene fuori.
- Lo sente? Beh, lei è un incosciente! Vuole una polmonite? Non ricorda come si era ammalato il suo amico Santino poco prima di morire? Ora aspetti qui che le faccio avere un asciugamano e dei vestiti nuovi!
Le ultime parole volano nell’eco del salone mentre suor Adelaide sta già sparendo dietro una parete, verso i corridoi. Solo allora mi osservo dalla pancia in giù e vedo i miei pantaloni di tessuto acrilico e cotone beige (ma che cavolo di nome è beige?) che abbracciano stretti e fradici le gambe; le scarpe da ginnastica sono diventate una piscina al coperto per i miei piedi gelati. Poi sollevo lo sguardo e mi guardo intorno.
Il salone è ampio, arredato senza anima, al centro le tavole rotonde per il nostro cibo quotidiano, amen. Davanti a me, una statua di donna fa’ intuire un seno pieno, se non fosse per le braccia incrociate al petto come in un gesto di ripensamento. A volte le mie fantasie erotiche si spingono a chiedermi come saranno quelle tette sotto le braccia; un giorno potrei staccarle per scoprirlo, ma qualcosa mi dice che l’artista non avrebbe modellato invitanti e turgidi capezzoli per poi nasconderli in quel modo; il volto è chino e leggermente inclinato in una misteriosa tristezza che guarda lontano e che non aiuta certo l’umore degli ospiti della Villa.
A sorpresa vengo catturato dal planare silenzioso di un grande asciugamano sui capelli e sulle spalle, che mi fa’ gorgogliare in un suono strozzato.
- Non si agiti, sono solo io – mi svela compiaciuto un inserviente alto e grosso di cui non ricordo il nome, ma che è sempre meglio della visione di suor Adelaide.
Mi cingo le spalle, in un gesto istintivo di protezione e forse anche per dimostrargli che non ho nessuna intenzione di agitarmi. Lui, che avrà almeno trenta anni meno di me, comincia ad asciugare paterno i miei capelli pesanti.
Penso di essere spiritoso, esordendo con una battuta del tipo “visto che almeno i capelli ci sono ancora tutti?” e sperando che lui capisca che il paragone è da intendersi con i miei neuroni, ma la mandibola si apre silenziosa e chino il capo sopraffatto della vitalità dei suoi badili con dita.
La verità è che questa battuta autoironica forse lo farebbe sorridere per gentilezza, ma in me ha già lasciato un gusto amaro.
Mi giro verso la porta a vetri del salone, nera; nessun altro colore se non i bagliori gialli e blu del temporale, come se fuori il mondo fosse senza forma e vita.
E forse per noi ospiti della Villa è già così. Forse se tornassi fuori, mi aspetterebbe un buio gelido e senza confini.
- Certo che ci vorrebbe un phon per fare meglio e comunque deve cambiarsi – annuncia professionalmente l’inserviente e allo stesso tempo smette di usurarmi la testa con l’asciugamano. Si allontana da me di un paio di passi e mi osserva perplesso, come valutando un’opera non ben riuscita.
Forse pensa di mettermi un fiocco azzurro sui capelli, penso e un sorriso sorprende le mie labbra. Lui mi risponde allo stesso modo, meccanicamente, e continua a scuotere la testa. Ha una grossa voglia sul volto, sembra la mappa geografica dell’Africa stampata sulla regione orbitaria sinistra.
Beh, sì, anche quando mi perdo con me stesso ho espressioni che mi ricordano un altro uomo.
- Un tempo ero un medico – non so perché mi esce così, frase piena di ragnatele, che mi sorprende certo più di quanto non accada al mio ascoltatore, il quale arretra di un altro passo e aggrotta le ciglia, deformando i profili dell’Africa. O forse sono io ad essere arretrato di un passo, stupito dal rinculo dell’improvvisa deflagrazione del mio passato.
Il tutto dura lo spazio di un fulmine che tinge di giallo le pareti del salone e subito ci ripensa lasciandoci soli con la luce blu dei lampadari.
E forse accade solo nella mia fantasia, come le figure dei morti che ho visto danzare alla penombra della veranda poco prima che suor Adelaide mi fagocitasse nella Villa.
L’inserviente sorride ancora, ma a me sembra che le sue pupille si stiano restringendo, come un predatore in contemplazione della preda, anche se non ha abbandonato il tono cordiale, quasi paterno.
- Lo so che è un medico, dottor Salina.
Mi sta prendendo in giro o accenna a un piccolo inchino?
- Mi scusi – mormoro e lasciandolo fotografato al centro del salone, senza altro aggiungere, mi allontano verso i piani superiori accompagnato dal “ciaf ciaf” delle mie scarpe piene d’acqua.
***
La porta della mia stanza cigola da tre anni.
All'inizio lo facevo notare, perché quel suono mi sembrava una beffa della mia prigionia alla Villa; oggi, nel disinteresse degli inservienti, è diventato il benvenuto nel mondo silenzioso delle mie pareti.
Questa sera sembra lamentarsi con più tenacia, il suono lungo che graffia il corridoio, mentre mi rinchiudo nella camera e con gesti lenti mi libero di scarpe e pantaloni che atterrano confusi nel bagno.
Intanto sento già le cordiali imprecazioni di suor Adelaide quando domani, a colazione, mi illustrerà puntigliosamente quale maleducato-infantile-irresponsabile io sia stato a lasciare impronte d'acqua e fango dal salone alla mia stanza al primo piano. Sorrido, poteva andarle peggio se solo mi avessero alloggiato ai piani superiori, dal secondo al terzo.
Ma io ero un medico, soprattutto un medico dal conto corrente pasciuto e senza eredi, per cui mi è toccata la beneficenza di una stanza al primo piano, dove si trovano anche l'infermeria, un bar, la sala biliardo e dove mi si risparmia la lunga attesa di un ascensore silenzioso e pesante come le giornate alla Villa, o la tortura di affrontare le scalinate fino ai piani superiori.
Insomma, sono ospite in un luogo d'elite.
Mi siedo sul letto e inizio a liberarmi anche dalla felpa fradicia d’acqua, diventata blu scuro come una notte senza lampioni.
La ascolto atterrare in un tonfo umido, proprio all'ingresso del bagno, come indecisa sul da farsi.
Domani qualcuno pulirà il pavimento e laverà i miei vestiti fradici e, chissà, imprecherà contro questo vecchio maleducato, anche se non credo con la stessa veemenza di suor Adelaide. Il suo ph acido è irraggiungibile.
Nel frattempo questa notte il vecchio ascolterà il tuono e la pioggia al buio e i suoi pensieri saranno lontani. Solitari.
Dalla scrivania illuminata da tratti di lampi, l'immagine fotografata del mio cane che mi fissa con aria interrogativa da quasi venti anni.
I nostri occhi che si ritrovano, oltre la morte.
Chissà perché proprio stasera mi è uscita la frase con l'inserviente, gli chiedo di rimando, tu lo sai Blues?
Blues non lo sa o forse non gli interessa il mio dilemma esistenziale, immerso in un immutabile paesaggio di verde collinare, anche se da tempo i suoi resti mortali concimano una terra ormai dimenticata.
Mi sdraio sul letto, con il mio pigiama a strisce verticali come la caricatura della divisa di un carcerato e, mentre mi muovo, mi accorgo che questa volta l'aumento dell'umidità non ha risvegliato il dolore delle articolazioni.
Buonanotte Blues, mormoro, anche se so che per me non lo sarà, e mi giro sul fianco verso la finestra ad osservare il colore freddo dei fulmini, che esplodono ancora decisi intorno alla Villa.
***
E invece mi sono addormentato quasi subito, una parte di me lo capisce bene mentre corro nel freddo, lungo un grigio che non capisco.
Marmo sopra la mia testa, marmo ai miei lati – faccia mediale e laterale, dottore – marmo che calpesto con passi veloci e incerti.
Non ho fiato, ma corro, non ho battito, ma sento il sangue pulsare prepotente nelle arterie.
Se potessi provare paura, sarei terrorizzato nel realizzare che sono un morto che corre.
Che corre nel corridoio di un cimitero.
Marmo intorno a me. E lapidi.
Ma cavolo, questo è un sogno, vero Blues?
Niente Blues, niente suono a parte il ritmico pulsare del sangue nelle arterie, viscoso e arrugginito, diverso dal battito cardiaco.
Corro, ma il marmo non finisce e nell’oscurità intravedo il profilo delle lapidi e istantanee di defunti.
Dovrei fermarmi, non ha mica senso questa corsa che non porta a nulla, ma ecco l’imprevisto. Tutto sommato si tratta proprio di un incubo e alle mie spalle qualcuno-qualcosa mi respira addosso, in attesa di prendermi con se.
E corro e non mi volto.
Ho paura e la pulsazione vischiosa nelle mie arterie ha un singulto e gorgoglia sorpresa. Corro e corro capendo che la distanza tra me e quel qualcuno-qualcosa non aumenta e non diminuisce, che se solo esito un istante ora posso anche già essere un morto che cammina, ma preso dal mio inseguitore sarò carne da macello e basta, corro fino a quando inciampo nel nulla, nella piena tradizione di un film horror o nel peggiore dei finali di un incubo, e cado al suolo senza avvertire dolore, ma solo uno splash secco sul marmo e una mano-un artiglio prontamente mi afferra una spalla.
Chiudi gli occhi, mi intima veloce la paura, ma ai piani bassi nessuno risponde al comando e invece mi giro consapevole per un istante che il suono vischioso del mio sangue è sparito.
L’assalitore è chino sopra di me, ma non fa altro che lasciare la mano sulla mia spalla e guardarmi. Immobile. Socchiudo gli occhi per metterlo a fuoco nella oscurità ed ora sì, sento il galoppo del mio cuore impegnato in una corsa ad ostacoli.
Sono di nuovo vivo? Io forse sì, ma temo non chi mi è davanti.
"Santino"
"Buonanotte Edoardo", esordisce il mio inseguitore con un piccolo cenno del capo. La voce è sussurrata e cavernosa, ma riconosco bene l’accento toscano che ha accompagnato per due anni le nostre conversazioni intorno ai tavoli della Villa.
"Santino"
"E fin qui lo avevamo capito", ma sta sorridendo?
Senza rendermene davvero conto devo essere indietreggiato con le mani e i piedi sul marmo.
Lui esita un attimo, poi lascia la presa sulla mia spalla e si osserva la mano come se non la riconoscesse.
"Scusa, sai, ma sei tu che hai cominciato a correre, io volevo solo salutarti", gira la mano all’altezza dei suoi occhi, prima in un senso, poi in un altro e infine la lascia cadere nell’unico modo in cui immagino possa fare, a peso morto
"Morto, ecco, ma non sono mica ancora abituato; a volte facciamo fatica a capire e solo la carne che diventa putrida ricorda che non possiamo presentarci a voi. Scusa Edoardo, non volevo spaventarti".
Incredibile, ora mi sento in colpa e quasi mi vergogno della mia corsa. Non riesco a parlare, ma mi avvicino un istante a lui e nella penombra ho l’impressione di carne che si muove sul suo volto, come onde grigiastre sulla superficie di un mare di morte.
Poi realizzo, mentre Santino lentamente si alza in piedi. Larve, insetti, vermi che esplorano e si nutrono di lui.
"Vedi, tutte le notti ci troviamo un po’ più in là e in altri angoli del cimitero. Non è male nemmeno questa nuova brigata, via! Certo, sono qui da … da …", si passa la mano tra i capelli e quando la ritrae stringe una piccola forma allungata che si muove frenetica. Lui la rimette tra i capelli senza degnarla di uno sguardo.
Si può vomitare in un incubo, vero?
"Da quando sono morto, Edoardo?"
"Da … Santino …"
"Ma che piattola, a domanda rispondi … Ricordi il nostro gioco, quello della nostra brigata?", fa lui con un tono allegro che chissà perché aumenta il battito del mio cuore, "A domanda rispondi e via con argomenti provocanti, risposte irriverenti e precise a domande secche!"
"Da una settimana", lo informo solerte e il resto mi esce senza pensarci "Ma io ti ho visto anche questa sera"
Sembra esitare un istante, sembra quasi che mentre esita la sua immagine diventi un po' sfuocata. Gira velocemente la testa alle sue spalle ed io cerco di seguire il suo sguardo, ma c’è solo oscurità nera davanti a me. Si china ancora su di me, accovacciandosi, ma per fortuna almeno questa volta non mi tocca. Per evitare di metterlo a fuoco, alzo lo sguardo dove in teoria dovrebbe esserci il soffitto e lui forse si rende conto che il mio disagio è indeciso se diventare terrore o panico, perché di nuovo si alza.
"Il marmo è freddo, il marmo è grigio, il marmo è ovunque", mormora "E allora non sempre rimaniamo qui", le sue parole cadono pesanti sulla mia testa.
Un brivido lungo la schiena, sì, mi sa proprio che ora sono vivo. Io.
Lui mi volta le spalle e alza il tono della voce "Ma tu sai bene, vero Edoardo, sai bene che noi morti è meglio vederci solo in un modo. Lo sai, no?"
È un rimprovero. O sono io che lo percepisco così?
In effetti scuote la testa come deluso dal mio silenzio ed è allora, in questo gesto, che lo vedo sfumare all'interno di una lapide, un cenno del capo fuori, nell’aria cimiteriale, un altro dentro il marmo della tomba.
D'accordo, è solo un incubo, mi ricorda una voce tremula in un angolo della testa. Sarà, ma è troppo, risponde il resto dei neuroni in coro.
E urlo.
***
- No!
Chiude gli occhi anche se sa che non dovrebbe farlo. Vorrebbe anche mordersi le labbra, ma questo proprio si vieta di farlo. Troppi segni che mostrerebbero la sua debolezza. E dall'oscurità sente il tonfo secco di un pugno battuto sulla scrivania.
Segnale di pericolo, apertura degli occhi, pronta alla reazione.
- No! - le ripete l'uomo dall'altra parte della scrivania, mentre la sua pancia smisurata ha un sussulto scoordinato, che a lei sembra un accenno di danza.
E' solo la tua ansia, pensa lei veloce veloce, non c'è pericolo, è solo la tua ansia.
L'uomo ha di nuovo il pugno a mezz'aria, il grande ovale della sua pancia fermo come in attesa del prossimo colpo sulla scrivania. Invece il pugno diventa mano e plana sulla scrivania, mentre il resto del corpo si affloscia grasso sulla sedia.
Lei si guarda nervosamente intorno e lascia cadere lo sguardo sulla fotografia che ritrae il capo panciuto accanto a un ragazzo minuto dall'aria persa e malata tra le rovine di un tempio greco. Il figlio durante il tumore, già; meglio non mostrarsi troppo interessata a quella foto, non oggi, no. Allora china il capo nelle regole della gerarchia e si perde ad osservare la lenta deriva di un portapenne colore ghiaccio lungo il bordo della scrivania. Lo ha visto avvicinarsi pericolosamente all’orizzonte del baratro ad ogni pugno dell’uomo, ma per ora forse è salvo.
- Siediti - il tono dell’uomo è diventato calmo e conciliante, anche se lei sa bene che l’oceano sotto quel placido suono è un pericolo di scogli taglienti. Comunque si siede veloce su una delle due sedie dall’altro confine della scrivania, senza distogliere lo sguardo dal portapenne.
La pausa è lunga e lei non osa spezzarla, perché la sta sfruttando per ritrovare un po' di calma e sicurezza, anche se forse sarebbe meglio una pausa di qualche anno.
Poi in un angolo della sua visuale intuisce il gesto dell’uomo che appoggia i gomiti sulla scrivania e lo sente sospirare.
Chissà quali sono ora i movimenti della sua grande pancia, si sorprende a pensare, e così capisce che piano forse sta riuscendo a combattere lo sconforto della reazione di lui.
E allora si ascolta mentre si decide a parlare, anche se con parole caute.
- Professore, il quesito che mi è stato posto dal Giudice delle indagini preliminari
Lui la interrompe subito, di nuovo, con un semplice cenno della mano e lei sente il suo sguardo duro scannerizzarle il volto.
- Puoi guardarmi? – le chiede, sempre in tono conciliante, mentre in realtà le dice “guardami!”, e allora lei solleva il viso pesante e si costringe finalmente a guardarlo negli occhi.
Occhi scuri, profondi. Due buchi neri al centro di una galassia di potere.
Lui sorride compiaciuto e si appoggia allo schienale, che cigola indeciso sotto il peso della pancia.
I capelli bianchi e folti volano senza legge sul cranio appuntito. Le mani grandi e forti che tante volte lei ha visto muoversi sul lavoro con eleganza e precisione inaspettate riposano sul promontorio della pancia, che si abbassa e si alza al ritmo di un respiro che le sembra un po’ troppo veloce, nonostante l’impressione di calma che l’uomo tenta ora di comunicarle.
- Lo sai da quanto tempo sono professore in questo Istituto?
Lei scuote la testa, non lo ha mai saputo di preciso, c’è chi mormora quindici anni, chi venti.
- Sono ventitre anni, sempre qui, immerso nella realtà che cambiava, sempre qui - pausa ad effetto – E sono stato direttore per due volte di seguito quando ancora ti masturbavi mentalmente sui testi di medicina. Ed ora di nuovo. E ancora quando ci saranno le prossime elezioni – si interrompe. A lei sembra opportuno annuire subito con la testa. Ma lui non continua e questo la disorienta di nuovo.
Si sporge in avanti come per invitarlo a parlare e solo in quel gesto si rende conto che l'ampia scollatura della sua camicia è un invito rotondo e florido per ogni sguardo maschile, anche per quello di un direttore che vive per il suo lavoro e che dalla morte del figlio non si è più mostrato interessato a rapporti emotivi.
Veramente nemmeno quando aveva famiglia sembrava accorgersene, le echeggia nella mente la voce fuori luogo della segretaria, registrata in ripetuti pettegolezzi, il direttore vive solo pensando alla sua posizione e al nome dell’Istituto di Medicina Legale.
A riprova che a volte a sparlare del passato si intuisce anche il presente, lui non sta assorbendo le sue tette con lo sguardo, no, ha preso in mano dei fogli appena stampati e li sfoglia distrattamente scuotendo la testa.
- No – ripete, almeno questa volta senza ira – Queste descrizioni le devi omettere. E ne avevamo già parlato, mi sembra – l’ultima frase indossa il velo di un blando rimprovero.
Lei prende fiato.
- Direttore, mi scusi, ma i segni ci sono, anche le fotografie lo dimostrano.
Di nuovo quel gesto deciso con la mano ad interromperla.
Inutile, stupida a non capirlo ancora, non si sta svolgendo una discussione, per quanto sgradevole, si stanno semplicemente impartendo direttive senza appello.
Lui le allunga i fogli con uno sbuffo immediato quando la pancia non trova più spazio tra le sedia e la scrivania, poi si accascia di nuovo nella posizione rilassata sullo schienale.
E continua a fissarla. Non sulle tette, ma negli occhi.
Chissà come mi vede, pensa la donna irrazionalmente e si sente arrossire. Lui sembra non farci caso, ma lei sa bene che registra ogni particolare dell’ambiente in cui si muove e cerca di sfruttarlo a suo vantaggio. Questo non è solo un pettegolezzo da segreteria, ma un dato di fatto che ha avuto modo di verificare personalmente nel loro rapporto professionale.
Infatti il direttore ricomincia a parlare, sempre con tono lento e bonario, per darle l'impressione di volerla mettere a suo agio.
- Dottoressa Laghi, il Giudice ha rivolto al nostro Istituto di Medicina Legale i quesiti classici sulla morte di questo … questo tizio – continua senza chiederle il nome del tizio in questione – ovvero epoca e causa del decesso. E il caso è così lampante che non ha nemmeno richiesto un’autopsia, ma solo un esame esterno.
Questo accade anche troppo spesso, precisa lei in un sussulto di testardaggine, ma spetta a noi avvisare il Giudice se ci sono i presupposti per procedere ad un’autopsia, cosa che comunque dovremmo sempre fare, credo.
Lui non la ascolta, anche perché le parole sono solo nella mente della dottoressa.
- Precipitazione da media altezza a scopo suicidario. Causa della morte: fratture delle vertebre cervicali multiple, ben deducibili dalla motilità preternaturale del collo; inoltre scoppio della scatola cranica a più frammenti. Decesso istantaneo stabilito intorno alle ore 21 convenzionali – si interrompe e non smette di guardarla, mentre le sue mani cercano qualcosa sotto la cintura; per un attimo lei ha il timore che si stia slacciando la lampo dei pantaloni. Ma è solo un fazzoletto quello che ha preso da una tasca e che si porta alla fronte con piccoli e ripetuti gesti come ad asciugarsi il sudore.
Eppure non fa affatto caldo dopo il temporale della notte. Anzi, non ci sono mai state tante giornate di pioggia come in questo periodo a muovere l’aria.
- Sono queste le risposte alle domande del Giudice da scrivere nella perizia. Il resto non importa.
Lei tace.
- Il resto non importa – ripete il direttore e concede al fazzoletto altri balzi veloci sulla superficie rugosa della fronte.
Lei tace.
- Dottoressa Laghi, sei giovane e hai terminato la specializzazione in medicina legale da soli tre anni. Sei mesi fa’ mi hai chiesto di continuare a frequentare il nostro Istituto per svolgere attività di ricerca, che praticamente non esiste qui in Italia, e per mantenere i tuoi turni di autopsia presso la Procura. Io sono stato ben lieto di assecondarti, perché stimo la tua intelligenza e la tua professionalità. Inoltre, nonostante la crisi che c’è oggi nel nostro campo, ti ho anche trovato un posto nella Commissione Invalidi dell’A.U.S.L., in modo da venire incontro anche a questa tua inclinazione – pausa, piccola, ma bruciante - E alle tue necessità economiche.
- La ringrazio – si sente allora costretta a mormorare lei.
Sa che essere apprezzati da una personalità come il direttore Vasari, uno dei più stimati e potenti professori di medicina legale in Italia, è motivo di vanto, ma sa altrettanto bene che lui in realtà ha trovato le parole per metterla all’angolo e per farla sentire una sua emanazione.
Lui fa un cenno affermativo con il capo, accettando le parole di sottomissione.
- Ma, per l’appunto, sei giovane e ancora non hai ben compreso che il nostro mondo è fatto di fragili equilibri e di territori da non invadere. Territori che vanno ben oltre la nostra competenza professionale.
Ora è lei a sorprendersi in un gesto affermativo della testa, mentre nei suoi pensieri si vede accennare ad un sorriso amaro.
In realtà lo ha capito anche fin troppo bene. Sulla sua pelle, sui suoi soldi e sui suoi sogni.
Dopo la specializzazione era entrata come collaboratrice di studi privati medico-legali nel settore assicurativo privato. E aveva scoperto che una quota della valutazione del danno alla persona non aveva a che fare con la reale lesione, ma si gonfiava più o meno consistentemente a seconda dell’Infortunistica privata o della Compagnia Assicurativa in causa, in un sottobosco di rapporti di potere ed economici sempre in movimento, con piccoli e grandi tradimenti ed alleanze.
Un mondo che lei aveva trovato alienante, pur se gravido di promesse di carriera e denaro, anche perché richiedeva un assorbimento continuo nel lavoro, con scomparsa graduale del tempo libero e di tutti gli interessi extraprofessionali.
In sintesi, della propria personalità.
Pertanto aveva deciso che fuggire dal mondo assicurativo privato era una necessità di sopravvivenza.
E si era allontanata alla ricerca di una medicina legale che somigliasse di più a quanto aveva sognato durante la specializzazione. Autopsie, soprattutto, e assistenza ad invalidi e handicappati.
Ma splendori e miserie del mondo sono un copia e incolla nel tempo e nello spazio, come le diceva sempre suo padre da quando, a sessantasette anni, aveva deciso di passare il resto della sua breve vita a scrivere aforismi al computer. Computer poi seppellito con lui, con tutti i documenti, per sua volontà, come un defunto dell’antichità calato nella tomba con suppellettili moderne.
Il professore Vasari continua ad osservarla in silenzio dall’altro capo del globo della sua pancia.
Lei è confusa, confusa dai suoi improvvisi pensieri, confusa dall’improvviso silenzio di parole e di mimica e accenna ad alzarsi dalla sedia, tanto per capire cosa fare. Il professore sbilancia gli angoli delle labbra all’insù e lei sa che è il momento di andare.
La porta dello studio del direttore, in legno massiccio, le è sempre sembrata un esercizio crudele per le sue esigue forze e questa volta, mentre la apre, la colpisce il paragone con il peso di una pietra tombale. Forse per il pensiero improvviso al seppellimento di suo padre.
- Dottoressa Laghi – la raggiunge calma la voce del direttore.
Lei si gira subito, già pronta a scusarsi perché ancora non lo ha salutato. Ma lui non sembra affatto contrariato, immobile nella sua solita posizione con le mani adagiate sulla cima della pancia – La Villa è un luogo molto importante per i professionisti della medicina legale e per gli equilibri della nostra città. L’esame esterno su quell’ospite che si è suicidato era solo un atto dovuto.
- Sì, professore.
- Bene. Ma stabilita la causa e l’epoca di morte, ogni altro polverone sollevato su pure supposizioni non conviene e non interessa a nessuno - pausa; affondo - A nessuno.
Lei stringe le labbra perché vorrebbe obiettare che non si tratta di pure supposizioni e che anzi quanto ha osservato e documentato potrebbe anche portare a rivedere la dinamica del decesso. Ad avanzare l’ipotesi di un omicidio.
Ma rivede ancora l’espressione di disprezzo con cui l’egregio e stimato dottor Govatti, suo superiore, l’aveva ascoltata mentre spiegava di volere abbandonare il lavoro alienante del mondo assicurativo privato. Ricorda ancora il deserto che le era stato fatto intorno dopo avere varcato per l’ultima volta la soglia degli Studi medici.
Sa bene che se non fosse stato per l'intervento del professore Vasari, le porte della medicina legale per lei sarebbero ancora chiuse. Senza appello.
- Capisco, direttore.
- Ciao, dottoressa Laghi.
- Buonasera, direttore.
***
Se fosse un dipinto, il tavolo pesantemente imbandito si collocherebbe bene nell’opulenza dell’arte barocca, pensa Alfonso Vasari mentre mette a dura prova la tenuta della pancia, in affanno oltre la morsa dei pantaloni.
Il paesaggio bucolico delle colline in cui lui e gli altri due uomini stanno mangiando da circa tre ore lo porta ad essere sereno e vicino ad ogni forma d’arte, compresa quella della grigliata di carne dal sapore così amabilmente untuoso e ricco di aromi.
La difficoltà respiratoria che sembra avere già colto gli altri commensali dopo le pietanze ingurgitate, sembra ai suoi occhi deliziati una rinuncia blasfema al sapore della vita. Afferra un costino di maiale e lo accompagna fino in fondo a compiere il suo destino di cibo, con eleganza, nonostante ormai tutti abbiano abbandonato l’uso delle posate e rivestito labbra e mento di strati geologici di sugo e grasso.
D’altra parte, solo alla trattoria “L’Antro dei Cinghiali”, immersa nel verde al limitare del bosco, il professore si concede questa libertà fuori dall’etichetta.
E poi, osserva sorridendo con la mente, mica è la prima volta che lui e i suoi compagni di gozzoviglia si lasciano andare al piacere di sbranare carne senza curarsi del galateo. Certo, è in compagnia di importanti personalità, ma quello è il loro intimo territorio dove si compie un piacevole paradosso: spogliarsi dell’etichetta davanti al cibo e allo stesso tempo tessere nuove trame di equilibri e strategie nel campo professionale.
Osserva la premurosità con cui Enzo Govatti riempie continuamente di pregiato vino Cagnulati il suo bicchiere e quello del Cavaliere Giangiacomo Tosarelli.
A Vasari, il dottore Govatti, con quegli occhi socchiusi e la fronte larga, ha sempre ispirato una lombrosiana diffidenza; a tale proposito, è convinto che Cesare Lombroso, pur con i limiti e i pregiudizi della sua epoca, abbia intuito molto più sulla fisionomica di quanto non si voglia ammettere in questa decadente epoca di buonismo e maschere sociali. In effetti il caro Govatti solo due anni addietro ha cercato di prendere il posto di un suo pupillo nella Segreteria del Sindacato dei medici legali della Regione. La mossa avventata di questo principiante è trapelata in tempo nei sotterranei di alleanze e tradimenti e per poco non è costata al caro dottorino il ruolo di medico legale di fiducia nelle Infortunistiche Tosarelli. Ma Alfonso Vasari, con una mossa di cui ancora narra quando è necessario ricordare la sua abilità di stratega e vestirsi da uomo comprensivo, ha ritenuto opportuno perdonarlo e non invadere il territorio delle Infortunistiche.
Questo Govatti lo sa, lo sa bene, e da allora sono considerevolmente aumentati anche i ritmi con cui versa al professore bicchieri di vino e di quant’altro opportuno.
Vasari solleva il bicchiere accondiscendendo all’ennesimo gesto di brindisi del dottorino, che ha questo difetto tutto sommato innocuo e a tratti coinvolgente di brindare per motivi banali, quali il piacere di un’altra bevuta dopo questo alzare dei calici o, come solo poco prima, alla recente decisione di una Compagnia Assicurativa di indire colloqui di assunzione per nuovi collaboratori medico-legali. Ovviamente i nomi dei fortunati sono stati già selezionati durante il pranzo tra gli uomini di fiducia di Govatti.
Attraverso il vetro bianco e vermiglio del bicchiere, Vasari lancia una rapida occhiata al Cavaliere Tosarelli, che nella rifrazione della luce sembra la caricatura ben riuscita di un disegnatore; il naso aquilino che si allunga e si affloscia fino quasi a toccare le labbra sottili e tirate, le orecchie a punta che sembrano ancora più tese verso l’alto come nello sforzo di captare ogni suono oltre quello secco delle ossa spezzate sui piatti.
Ha oltre settanta anni, il Cavaliere Giangiacomo Tosarelli, e con quello sguardo velato di cui non si colgono mai sfumature, con i suoi lunghi silenzi aperti solo da frasi decise senza punti interrogativi, ha creato dal nulla e con segreti appoggi la più vasta e potente rete di Infortunistiche della regione, con la quale ogni Compagnia Assicurativa deve fare i conti prima e durante e dopo la valutazione di un danno alla persona.
Gli Studi Tosarelli sono simbolo di assistenza agli infortunati, così come la Villa, costruita sullo stesso terreno, è la casa di riposo d’eccellenza voluta dallo stesso Cavaliere.
Vasari stesso deve scendere a patti con lui prima di prendere una decisione, anche se questo rapporto è a volte reciproco.
Eccoci riuniti dunque, osserva Vasari, gli occhi che si spostano dal Cavaliere a Govatti e poi tornano al Cavaliere. Due leoni allo stesso banchetto di carne in compagnia di una iena che si aggira nel territorio di Tosarelli non certo per spiccata competenza professionale, non certo per intelligenza, ma solo per l’esigenza di un medico legale di fiducia a dirigere gli Studi medici.
- Alla Villa - Tosarelli ha alzato il calice, ma ha anche spostato il tema del brindisi e con il bicchiere a mezz’aria stretto nella mano ossuta fissa lo sguardo sorpreso di Govatti.
- Alla Villa – ripete accondiscendente la iena. Ma il suo tono scivola in un tremito sull’ultima parola, mentre anche il vino all’interno del suo calice ha un'ondata di sussulto.
Le mandibole dei commensali entrano in pausa all’unisono.
Govatti lancia uno sguardo sbilenco e interrogativo a Vasari e accenna ad un sorriso beota.
Vasari tace e aspetta il seguito.
Giangiacomo Tosarelli sorseggia Cagnulati nella sua annata migliore.
Un paio di mosche cercano di approfittare della pausa per immergersi nella carne che ancora avanza sui vassoi, ma una zampata nervosa della iena le allontana.
Tosarelli posa il bicchiere e fa scivolare lentamente, con gesti ripetuti, l’unghia del lungo indice sulla striscia rosa-pallido che è il suo labbro inferiore. Continua a fissare Govatti, che si agita sulla sedia e di nuovo lancia un veloce sguardo di supplica a Vasari.
Il professore osserva la scena pensando divertito che il gesto di Giangiacomo potrebbe sembrare una provocazione sensuale nei confronti del dottorino. In realtà intuisce già dove vuole arrivare il Cavaliere delle Infortunistiche e teme che il piacere di quella mangiata sia al tramonto.
Enzo Govatti capisce di non reggere ancora quello sguardo impregnato dall’improvviso silenzio e dai percorsi indecifrabili del dito sul labbro e decide di parlare, di dire qualunque cosa pur di interrompere la tensione che sta crescendo in lui.
- Gli incarichi sono un po' calati da parte delle Compagnie, ma è normale se si considera la stagione.
Tosarelli mette a riposo il dito e gli concede un sorriso stirato, ma nello sguardo fisso rimane una nebbia impenetrabile.
Govatti sospira e non appena si rende conto di farlo va in apnea per qualche secondo, poi lascia uscire il resto del disagio in un soffio pesante.
- Da parte vostra abbiamo sempre un buon numero di incarichi - si agita sulla sedia, sorrisino tremulo, occhi che corrono spaventati da Vasari e poi tornano servizievoli da Tosarelli - Per cui, ecco, va tutto bene, direi, ecco - e gli sembra un gesto opportuno alzare di nuovo il calice per un brindisi al giro di incarichi.
Ma l'immobilismo di Tosarelli e la mancanza di soccorso di Vasari gli fanno cambiare idea; ancora nuvole pesanti nell'aria elettrizzata.
Le mosche sono tornate con i rinforzi ed ora esplorano indisturbate le colline di selvaggina.
- Dottor Govatti, sa bene che alle mie Infortunistiche si rivolge un buon settanta per cento delle vittime di incidenti stradali o di infortuni di altro tipo - ricorda Tosarelli con tono annoiato – In sostanza, i miei medici legali trattano in media un centinaio di incarichi al mese. Nello stesso mese, lei riceve dalle Compagnie Assicurative l’incarico di valutare le persone già visitate nelle mie Infortunistiche. É qui che si forma il nucleo dei nostri accordi - con l'indice della mano Tosarelli inizia a disegnare un cerchio nell'aria - Infortunio, tutela del danneggiato da parte dell'Infortunistica, varie visite presso medici specialisti, infine relazione medico-legale con valutazione del danno a vantaggio del cliente - breve pausa a metà cerchio.
Poi, veloce, il dito del Cavaliere si inclina verso Govatti.
Il medico sembra avere un principio di infarto. Ha un sussulto mentre osserva con occhi dilatati e pallidi il dito ossuto, come se fosse un punteruolo puntato contro il viso.
Vasari, che continua ad osservare la scena con il distacco di chi assiste alla replica di un programma televisivo, non può fare a meno di concedere un sorriso ammirato a Tosarelli. Niente da obiettare, è un maestro anche quando ribadisce concetti ovvi per tutti loro
Il dito riprende lentamente a disegnare il cerchio.
- Poi cosa succede nel campo opposto, mio caro dottore?
Govatti conosce il seguito, ma non crede che la domanda sia un invito a proseguire. Infatti il dito continua a muoversi, spinto dalle parole del Cavaliere.
- La stessa persona visitata dai miei medici è valutata anche da un medico legale incaricato della Compagnia Assicurativa per una stima di controparte del danno - il dito si ferma senza completare il cerchio.
Tosarelli stringe le palpebre.
A Vasari sembra che con questo gesto anche le sue orecchie siano diventate più lunghe.
Un predatore pronto allo scatto, riflette.
Tuttavia in lui sta subentrando un senso di noia oltre l’ammirazione per la teatralità del Cavaliere. Riepilogare le dinamiche della valutazione del danno a Govatti è come spiegare i modi di aromatizzare la carne ai cuochi della trattoria.
La visione di insieme, intuisce all’improvviso Vasari, forse è a questo che mira Tosarelli. Solo quando si riassume la visione di insieme di un fenomeno puoi cogliere nuovi particolari. Dal tutto all'uno, non è forse questo il ragionamento deduttivo con cui il Cavaliere ha costruito il suo impero?
- Perché il cerchio si chiuda al meglio per gli interessi economici della parti chiamiamole pure avverse…
- Cioè l’Infortunistica da una parte e la Compagnia Assicurativa dall'altra - si affretta ad aggiungere Govatti, tutto di un fiato, nell’affannosa necessità di mostrare con la banalità quanto sia attento alle banalità.
- Perché questo avvenga - continua deciso il Cavaliere,mentre con occhi di ghiaccio uccide il dottorino - occorre un sistema perfetto di complicità in cui la valutazione della nostra parte è fatta previ accordi con chi valuta dalla parte opposta, cioè con lei, egregio Govatti - e con questa frase finalmente il dito disegna il cerchio completo nell'aria – Ora, la Villa è il centro in cui questo avviene senza scossoni da ormai dieci anni. Non è solo una casa di riposo, ma un organismo complesso e delicato fatto di intrecci di accordi silenziosi tra le Infortunistiche e le principali Compagnie Assicurative della nostra regione.
Enzo Govatti si affretta ad annuire. Già pensa che sarebbe ora di un nuovo brindisi per decantare l’alleanza nel mondo assicurativo, ma qualcosa che guizza nella nebbia dello sguardo del Cavaliere lo trattiene, preoccupato. Forse comincia a capire.
Tosarelli si volta all'improvviso verso Vasari.
- Maurizio Santino non si è suicidato gettandosi dal balcone della sua stanza.
Non è una domanda, ma una sentenza, per di più precisa di generalità del defunto, che nemmeno il preciso direttore dell'Istituto di medicina legale ricordava.
Eppure aveva letto la relazione della dottoressa Laghi solo la mattina prima.
Così Vasari registra distrattamente la caduta del bicchiere dalle mani di Govatti, il rosso scuro del Cagnulati migliore annata spandersi velocemente sulla tovaglia, mentre si ritrova all’improvviso chiamato in campo, impegnato ad elaborare una veloce strategia per contrastare l'attacco imprevisto del Cavaliere.
Sempre così questo bastardo, sempre imprevedibile e infimo, annaspa il direttore, in realtà non era Govatti il suo bersaglio, ma il sottoscritto.
Si ricorda di bloccare ogni mimica del viso, ogni movimento delle mani che tradiscano sorpresa e nervosismo e si lascia andare sullo schienale. Scricchiolio di protesta del legno.
- Ti riferisci a quell'ospite della Villa che è morto una settimana fa - comincia per guadagnare tempo. Ma, come previsto, il Cavaliere non parla e ora la nebbia del suo sguardo è tutta per lui - Da quello che so era molto anziano e soffriva di depressione in terapia farmacologica. Mi sembra che qualche giorno prima di morire si fosse anche preso una broncopolmonite; sai, non c'era più con la testa e lo hanno trovato nel parco il mattino dopo una notte passata sotto la pioggia con un altro sciroccato degli anziani – Vasari si schiarisce la voce, ma evita di sistemarsi meglio sulla sedia come gli suggerisce la pancia - Quindi si trattava di un soggetto depresso con scarso compenso nonostante la professionalità del medico psichiatra, che tutti conosciamo - pausa, affondo - che è un collaboratore delle tue Infortunistiche.
Giangiacomo Tosarelli gli concede un'ombra di sorriso in cui il disinteresse è la parte più chiara e feroce.
- Maurizio Santino non si è suicidato - ripete con lo stesso tono deciso di prima - L'ho letto nella prima stesura della perizia della tua allieva.
- Cazzo - la voce di Govatti è lontana e solo più tardi Vasari realizzerà che è la prima volta in venti anni di conoscenza che gli sente dire una parolaccia in presenza di Tosarelli.
Il punto è che nella sorpresa di questa rivelazione ha perso l'equilibrio del discorso. La stronzetta, pensa velocemente sotto la nebbia dello sguardo di Tosarelli, ma come si è permessa, a chi lo ha detto, non certo a questi due, con loro non hai più rapporti da quando ha abbandonato le assicurazioni private.
- Alfonso, Alfonso - sospira il Cavaliere fingendo delusione – sai, uno dei motivi per cui io sono qui, a parlare in questo modo al direttore dell'Istituto di Medicina Legale, uno dei motivi per cui il mondo assicurativo non si muove se solo teme di calpestare il mio territorio, è che io guardo oltre la professionalità e mi interesso anche della vita privata dei miei collaboratori - sguardo posato per un istante su un Govatti piccolo piccolo - dei miei avversari e di chiunque, dico chiunque, sfiori per qualsiasi motivo il mio raggio d'azione.
- Cosa sai, Giangiacomo? - sibila Vasari nervoso e preoccupato.
- La tua pupilla, la dottoressa Valentina Laghi, sembra sia molto acuta nelle autopsie e di certo ti deve molto perché altrimenti non so che fine avrebbe fatto dopo che ha abbandonato Govatti e gli altri nostri collaboratori - altra veloce occhiata all'agonizzante Govatti, che annuisce rapido - Comunque devi stare tranquillo, non è una stratega di autoconservazione, altrimenti non avrebbe mai preso l'iniziativa di lasciare il mio impero. Non avrà mai soldi e potere, ma ha capito la lezione; chi torna sui suoi passi paga un prezzo alto - Tosarelli chiude gli occhi e inspira l'aria a fondo, ma Vasari ritrova subito quello sguardo indecifrabile su di se - per cui seguirà le tue direttive di omettere una parte della perizia in cui descrive ematomi sul corpo del suicida, visto che ti ostini a definirlo tale, e che invece potrebbero insospettire un magistrato.
Vasari cerca di respirare piano, attento a non essere tradito dal promontorio della pancia. E tace.
Tosarelli affonda per un istante gli occhi nel bicchiere di vino, poi, quando li riporta in quelli del professore, sorride, anche se quello che Vasari vede è solo una fila di denti in esposizione.
- Vedi, mio caro Alfonso, la tua dottoressa ha una relazione con un avvocato giovane e ambizioso. E poiché continua ad essere una che non sa vendere la propria immagine, ha avuto la bella idea di raccontargli tutto non appena uscita dal tuo studio.
- E questo avvocato lavora per te - conclude freddo Vasari, soffocando un’esplosione di rabbia sul nome di Valentina Laghi.
- Sì, ma non giudicarla troppo male. Lei ignora questo particolare e lui si guarda bene da confessarle il nostro accordo.
Vasari si impone di sorridere, mentre adagia le mani sulla cima della pancia.
- Ora che me lo hai detto, ti sei giocato un'inconsapevole infiltrata nel mio territorio.
- Si vede che non ne ho più bisogno, non credi? Come forse non ho più bisogno di quell’avvocato. Non mi sottovalutare Vasari, non è da te, forse c'è troppo vino in giro nelle tue ampie budella.
- E quindi? - incalza l'altro, ignorando la provocazione.
- E quindi voglio sapere chi ha spinto giù dal balcone della sua stanza al secondo piano l'ospite della Villa. Non per motivi di giustizia, ovvio, ma perché con un’indagine si rischiano di compromettere i fragili equilibri che abbiamo costruito negli anni – il Cavaliere sposta occhi e sorriso da Vasari a Govatti, poi sospira, come rassegnato in presenza di due persone che faticano a comprendere la sua lingua - Non dovrò ricordarvi ancora che gli Studi medici delle mie Infortunistiche e quelli delle Compagnie Assicurative per le quali lavora Govatti sono nello stesso terreno della Villa.
Poi, finalmente, segue l’invito di Govatti. Alza il calice al cielo, gli occhi che si riflettono nel rosso del vino, ormai distanti dagli altri commensali.
Alfonso Vasari sente per la prima volta il disagio della pancia piena di cibo. Gira il capo verso Govatti, che sta guardando proprio lui. Pallido e immobile.
Se fosse una scultura, pensa, il dottorino rappresenterebbe l’essenza del panico.
***
Chissà perché il tono della giornalista è sempre sopra le righe.
Capisco quando era corrispondente in zona di guerra, magari devi farti sentire oltre gli spari, i bombardamenti, le urla, o semplicemente devi avvolgerti nella tua voce per darti coraggio. Ma anche ora che si trova a mezzo busto durante il telegiornale, le sue parole giungono fino a noi con volume alto, innaturale, che non è quello del televisore.
Forse lo fa’ per noi anziani, riniti nella sala della Villa come una placida mandria al pascolo dell’informazione televisiva. In effetti mi osservo intorno e vedo solo facce prive di espressione assorbite dallo schermo gigante e ultrapiatto che decora una parete come un quadro dinamico di autori e stili vari.
O forse lo fa’ perché ogni zona di guerra, anche se non hai visto che qualche maceria e hai solo intuito il canto della morte, ti lascia dentro qualcosa di profondo. E la voce rimane più alta, nel tentativo di tenere lontano un indimenticabile sapore di distruzione.
La osservo parlare, questa giornalista, ora firma di prestigio della cronaca e della politica; mi è sempre piaciuto il suo volto delicato, i suoi capelli lungi e biondi, tanto che fino a qualche anno prima, quando almeno potevo permettermi sporadici ed incompleti amplessi solitari, le ho dedicato diversi incontri erotici, anche se non ho mai intuito le forme del resto del suo corpo, mutilato da primi piani o deformato da divise da soldato.
E a maggior ragione trovo quel tono sopra le righe distorto nell’immagine sensuale che ho avuto di lei.
Ma sembra che sia l’unico nella sala a farci caso, gli altri la osservano come se stesse predicando il Verbo.
Con lo stesso tono, dopo un servizio di dieci minuti dieci sul campionato di calcio, la giornalista ci spiega velocemente che nella notte c’è stato l’ennesimo attentato in cui sono morti tre soldati, cinque civili e il kamikaze.
Servizio, rapide immagini verde fosforescente dalle telecamere a raggi infrarossi, lamiere fuse di auto e sagome di uomini che corrono verso un bagliore in lontananza, fine del servizio.
Tono sopra le righe della giornalista che non cambia espressione ora che ci spiega come in Parlamento sia scoppiata una rissa tra chi sostiene misure restrittive per i terroristi che vogliono distruggere la nostra libertà e chi protesta per il pericolo di leggi liberticide.
Servizio, zoomate tutte colorate di bambini in cravatta che si azzuffano all’asilo del Parlamento, particolare di capelli neri tirati con isteria da una mano tozza ma elegante nel polsino della giacca, fine del servizio.
Interviste di almeno cinque minuti cinque a politici di vari schieramenti, gonfi di impettita retorica sui valori della democrazia, della libertà, della sicurezza e del bene del Paese, e non manca chi ricorda che il nostro è uno scontro di civiltà che va combattuto senza cedimenti, che lo stesso Grande Presidente del Paese-sempre-amico-e-benefattore, a cui rinnoviamo la nostra alleanza amen, ha ricordato ancora nell’ultimo discorso che siamo sostenuti da Dio in persona. Pensa un po’.
Mi guardo ancora intorno, c’è chi si morde le labbra, chi scuote piano la testa, ma la maggior parte degli spettatori non sembra avere cambiato espressione durante la corsa dei servizi.
Sono tutti in attesa dell’ultima notizia, anche se quando arriva è masticata dalla giornalista così velocemente e senza filmato, che sembra quasi non esserci. Ieri nel cimitero vicino alla Villa hanno profanato un’altra lapide. La terza in quasi due mesi. La foto del defunto è scomparsa. La conoscevamo bene la signora malinconica ritratta in quell’immagine, perché ha diviso in questa casa di riposo gli ultimi silenzi della sua vita. Come l’uomo secco e lungo chissà come racchiuso per intero nella prima foto rubata al cimitero. La seconda foto, invece, è stata proprio quella del mio amico Maurizio Santino. Ma i nomi dei morti sono silenzio per la giornalista e la notizia è subito fagocitata della pubblicità, in un’esplosione di colori e slogan.
Mi alzo a fatica dalla poltrona, aiutandomi con le mani sui braccioli, perché oggi le ginocchia si fanno sentire, senza troppa prepotenza, ma in modo costante.
Non penso alle lapidi violate, nemmeno a quella del mio amico, ma alla giornalista compagna delle mie fantasie erotiche. Forse il motivo per cui il tuono della sua voce è così sopra le righe è molto più triste di tutto il mio filosofare da vecchio. Forse la sua voce è un tentativo di nascondere sia l’inconsistenza delle informazioni, sia la povertà di chi guida il nostro Paese.
Lascio la sala seguito dallo sguardo silenzioso di una donna sulla carrozzina parcheggiata nell’ultima fila accanto alla porta, le gambe nascoste da una coperta nonostante il caldo e l’umidità della giornata. Le rivolgo un cenno di saluto, non ricambiato.
- Vado a fare due passi fuori – bisbiglio a Lara, una delle infermiere che ci assistono durante gli svaghi collettivi. In realtà non c’è obbligo di comunicare i nostri spostamenti, ma ormai per chi si stacca dalla mandria è abitudine non scritta avvertire il cane da guardia prima di pascolare in territori non programmati nel corso della giornata. Lei mi rivolge un sorriso caldo che mi regala un flebile vento di energia. Mi piace Lara, ha un modo semplice e umile di svolgere il suo lavoro. Anche fisicamente, pur non essendo bella di viso con quel naso sproporzionato e brufoli che le colonizzano continuamente la fronte, ha curve generose che persino un uomo della mia età riesce ad apprezzare. Ma non ad inseguire.
Nella veranda mi accoglie l’aria immobile di questa giornata che già posa umidità sulla mia camicia di cotone. Ma almeno respiro una parvenza di silenzio che mi manca sempre dopo i primi minuti davanti la televisione.
Le notizie le guardiamo tutti, anche se pochi le sanno narrare, e pochi le sanno ascoltare.
Ecco che riprendo a filosofeggiare, oggi sono così, mi chiedo se non sia anche per l’incubo notturno che ancora veste le mie sensazioni con un velo di disagio. Guardo alla mia sinistra, verso gli alberi di pino distanti una trentina di metri dalla veranda, dove la sera prima, tra la pioggia, ho creduto di vedere ombre danzati di cadaveri. E tra queste Santino.
- Dottor Salina – sobbalzo alla voce dura che si infrange sulle mie spalle. Prima di girarmi del tutto so già di chi si tratta, sempre con quel suo modo di materializzarsi, improvviso e, soprattutto, non desiderato.
- Buongiorno suor Adelaide – saluto con un accenno di inchino che nelle mie intenzioni è canzonatorio e che lei deve effettivamente cogliere per quello che è, considerata l’occhiata con cui mi uccide.
- C’è ancora fango nel terreno, se lo ricordi se ha intenzione di farsi un’altra passeggiata sperduta come l’altra sera – mi ammonisce senza celare disprezzo, mentre si avvicina di un passo nero nella sua veste informe – Guardi che abbiamo passato la mattinata a pulire le sue impronte dappertutto.
- Mi scusi – mormoro recitando la parte del pentito e comunque ho forti dubbi sul quel “abbiamo passato”, visto che in tutti gli anni passati da ospite nella Villa non ho mai visto suor Adelaide intenta a lavori pratici. Lei si avvicina ancora un po’. Per un attimo sono preso dal dubbio che voglia baciarmi, invece si limita a sibilarmi addosso il suo alito acetonico.
- Alle diciassette e trenta c’è la messa nella cappella.
- Cappella? – provoco divertito. Un doppio senso banale, sufficiente a mettermi nei guai, mi sa. Ma è stato più forte di me.
Suor Adelaide sfodera lentamente la lama del suo sorriso.
- Crede di scandalizzarmi con le sua allusioni sessuali, dottore? Lei non solo è un blasfemo, ma nasconde la sua insicurezza con tipiche battute infantili. Ultimamente il suo comportamento sta creando qualche disagio tra gli ospiti della Villa e il personale – i suoi denti grigi ma perfetti nella finzione delle protesi si schiudono alla mia vista mentre le labbra si ritraggono – L’avverto, se continua così dovrò parlarne con Faccetti.
Accenno ironicamente ad un altro inchino per mostrarmi poco toccato da quella minaccia, ma in realtà crea sempre un certo disagio tra gli ospiti l’idea di un colloquio con il dottor Faccetti, distante di altezzosità e severo di decisioni, nonché direttore della Villa e niente-poco-di-meno stretto collaboratore del Cavaliere Tosarelli.
Personalmente non sottovaluto nemmeno il suo ruolo di rappresentante della Compagnia dei Celesti, o come diavolo si chiama, un’emanazione del Comitato Etico Ecclesiastico, quello che ha il compito di pontificare sul Giusto e sullo Sbagliato della nostra decadente civiltà. Figurarsi se non ha il potere di decidere chi rimane in questo luogo. Figurarsi se non lo esercita nel vagito di un secondo.
Insomma, sembra che, morte e Cavaliere Tosarelli a parte, nessuno disponga più di lui di noi ospiti. E se la Villa è una prigione, rimane pur sempre anche un comodo rifugio di sopravvivenza.
Suor Adelaide deve aver colto un lampo di smarrimento nel mio sguardo perché ora un angolo della sua bocca tremula in un sorriso soddisfatto.
- Buona giornata, dottore – mi saluta senza nascondere il tono canzonatorio dell’ultima parola, mentre entra impettita nella Villa.
Mi volto di nuovo verso gli alberi e mi incammino lentamente lungo le brevi scalinate della veranda, sotto un alito di inutilità, poi prendo il sentiero di ghiaia che serpeggia tra il verde. C’è anche un percorso cementato, più lineare e diretto verso la pineta, pensato soprattutto per chi ha difficoltà a camminare o si muove in carrozzina, ma il suono della ghiaia sotto i passi accarezza i miei pensieri solitari.
Mentre cammino vedo in lontananza uno dei quattro parcheggi esterni della Villa, il più ampio, percorso da un lento movimento di automobili. Da quel lato ci sono gli ingressi del Poliambulatorio, sempre aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19 e al sabato dalle 9 alle 13, come recitano gli avvisi all’entrata e in varie zone della città.
Li ricordo, quegli avvisi, cartelli gialli con scritte scolpite in nero, che ho sempre visto in città da quando ho iniziato la mia professione, dapprima nelle vie periferiche, poi negli angoli delle pagine di un giornale, quindi sempre più invadenti e decisi, distesi su intere pagine dei due principali quotidiani locali, nella pubblicità delle riviste, delle reti locali, dei cinema.
Poliambulatori Tosarelli, sempre al vostro fianco, uniti con voi per i vostri diritti, l’evoluzione della giustizia, una mano amica e un orecchio attento dopo un incidente stradale, eccetera eccetera. Ho sempre pensato che Tosarelli abbia fatto a livello regionale quello che McDonald ha fatto a livello mondiale e ora nessuno può crescere da queste parti senza familiarità con il suo nome.
Le ginocchia mi mandano acuti segnali di dolore che decido di non ignorare, per cui mi siedo su una panchina di marmo, all’ombra di una statua grigiastra raffigurante una Madonna con le braccia tese verso il sentiero e il palmo delle mani mostrato in avanti in un gesto di umiltà. La osservo con il solito distacco. Arti superiori in posizione neutra, mormora quella parte di me che non vuole dimenticare che sono stato un medico. É una voce alla quale non posso più dare nulla, perché so di vagare da secoli nel fallimento della mia vita. Le ordino di tacere, mentre massaggio delicatamente le ginocchia attraverso i pantaloni di flanella. Dopo poco avverto una piacevole sensazione di intorpidimento che scende fino alle caviglie e ne approfitto per guardarmi ancora intorno.
Il parcheggio è parzialmente nascosto da alti cespugli e da una statua raffigurante un enorme pesce dalla coda mutilata, sinceramente fuori luogo, anche se si trova al centro di una fontana, ma di cui dovrebbe essere chiaro l’antico simbolismo cristiano. Almeno così piace raccontare a suor Adelaide.
Riesco comunque a vedere ancora il lento incedere di nuovi arrivi e nuove partenze, di auto private, taxi e di qualche ambulanza a sirene spente. Con loro inizia il valzer dell’infortunato e cresce il giro di affari del Poliambulatorio, tra visite specialistiche e valutazioni medico legali.
La Villa è una distesa enorme. Da qui non riesco a vederne i confini, un’etnia di stili architettonici combinati tra loro in modo tutto sommato equilibrato e gradevole; ci sono ben sette ingressi, di cui due riservati a noi vecchi e al personale e tre ai Poliambulatori; gli altri due non li ho mai visti, perché il padiglione della Villa dove si trovano è chiuso agli ospiti, ma tanto è un segreto di pulcinella di cui non si dovrebbe parlare e che invece tutti conoscono, ospiti o meno. Quel padiglione affaccia sulla statale che porta in città da una parte e all’autostrada dall’altra e ha un altro indirizzo civico. Anche lì si trovano altri studi, dove lavorano medici legali delle Compagnie Assicurative. Così chi subisce un infortunio viene dapprima tutelato dalle Infortunistiche Tosarelli, poi, al momento di essere visitato da un medico legale della Compagnia Assicurativa di controparte, non gli resta che tornare alla Villa. Anche se ufficialmente si reca ad un nuovo indirizzo.
Fine del giro di valzer. Applausi.
Mi alzo e a passi lenti raggiungo la pineta, dove mi accoglie a sorpresa un tiepido vento, balsamo per l’umidità di oggi. I grilli hanno smesso di cantare, segno che la temperatura è davvero alta, ma qualche uccello tenace ha la forza di avvolgermi con le note del suo canto. Respiro a fondo e poi mi affloscio sotto il peso di un’improvvisa malinconia che ha il nome di lunghe camminate e chiacchierate con Santino.
Mi guardo ancora intorno, verde e giallo ovunque nella penombra della pineta, ma nessuna traccia apparente di presenza umana. O sovrannaturale.
- Maurizio – mormoro un po’ indeciso, un po’ sentendomi stupido.
Gli uccelli tacciono. Solo un attimo, per fortuna. Ricominciano a cantare proprio quando inizio a pensare che il loro silenzio sia il preannuncio di un’apparizione spettrale, nella migliore tradizione di un racconto gotico. Mi appoggio ad un albero e respiro piano, ma ancora mi guardo intorno furtivo, non del tutto rassicurato; un’ape danza accanto al viso per qualche secondo ed io soffio delicato nella sua direzione, fino a quando non decide di cambiare il piano di volo e si allontana verso odori più attraenti.
Niente Maurizio, niente zombi o fantasmi, concludo mentre mi distacco dall’albero e guardo di nuovo verso la Villa, dove si staglia una parte del lato est del padiglione riservato agli ospiti.
E subito crollo sullo stesso albero.
Al secondo piano, sopra la mia stanza, c’è il balcone dal quale Santino è precipitato otto giorni prima; le finestre sono aperte e per un attimo intravedo una figura bianca muoversi nell’ombra della stanza.
Che dovrebbe essere vuota.
***
Enzo Govatti si compiace di mostrare un’immagine di forza e tolleranza allo stesso tempo. Cerca sempre di vedersi attraverso gli occhi degli altri e pensa che questa prospettiva sia un aspetto importante della strategia per arrivare al potere.
Non è importante quello che sei o che sai, ma come lo vendi.
In piedi di fronte ad una finestra aperta del suo studio, attraverso le fessure della tapparella in parte serrata nel tentativo di prendere le distanze dal caldo, osserva non visto due giovani infermerie che scherzano all’ombra di un porticato a fianco di un paio di anziani immobili sulle carrozzine. Le ha classificate subito come oche facilmente conquistabili con un po’ di copertina di uomo sicuro e potente ed ora le vede con le loro divise corte e piene di promesse stese nel suo letto; con lui tra loro, ovviamente.
Si accarezza il pene attraverso il camice e i vestiti ,mentre il suo sguardo morde le forme delle infermiere, che continuano a ridere, forse scherzando proprio sulle loro avventure sessuali, ignare della sua eccitazione, che cresce ancora al pensiero di essere scoperto dal loro sguardo e di essere invitato a proseguire tra loro in modo più concreto.
All’improvviso il telefono interno si intromette con un suono acuto, fuori posto, e prosegue testardo nel reclamare la sua attenzione, nonostante lui lo abbia mandato al diavolo già al secondo squillo, deciso ad accarezzarsi il membro in erezione, sudato sulle infermiere. Loro tacciono, alzano lo sguardo verso la finestra, distratte dal richiamo del telefono e lui, per quanto sicuro di essere celato alla loro vista dalla tapparella, si ritira dietro la parete con un balzo in gola.
Seccato per la rinuncia alla propria eccitazione, forza il pene all’interno dei pantaloni e si decide a rispondere.
- Dottor Govatti – annuncia la voce nasale della segretaria di turno – sono arrivati i pazienti delle quindici e trenta.
Lui lancia un’occhiata all’orologio rotondo e asettico appeso sopra la porta e un’altra all’agenda sul computer. Impreca mentalmente.
- Anna, scusami con loro – risponde, la voce cordiale e profonda – falli attendere in sala ancora cinque minuti, finisco prima una perizia urgente – e riattacca sbuffando. Non gli piace fare aspettare i pazienti, nemmeno quando arrivano con un po’ di anticipo come in questo caso; l’immagine dell’efficienza e della cordialità è una fase importante della visita, spesso più della visita stessa. Anche per ridurre i tempi di attesa ci sono i suoi collaboratori, giovani medici legali da spremere nella promessa di onore e soldi, ai quali smistare le visite, oltre al notevole carico quotidiano di certificati da riportare nelle perizie. Ma questo è un caso delicato, si tratta di una coppia di anziani raccomandati con una nota informale da Tosarelli in persona e per i quali è stato chiesto il 6% di Danno Biologico.
Con l’unghia dell’indice della mano destra inizia a picchiettarsi nervosamente gli incisivi superiori.
Il punto è che si tratta degli esiti di un trauma distorsivo del rachide cervicale da tamponamento che con le nuove tabelle di legge vale al massimo 2%, il punto è anche che lui è il medico incaricato della Compagnia della valutazione di controparte ed ora si sente in imbarazzo per quella richiesta così alta e che non sa come assecondare.
Tic tic commenta l’unghia sul dente.
Sì, si era promesso di parlarne con Tosarelli in persona durante il pranzo, ma dopo che il bastardo se ne era uscito con la storia del suicidio, figurarsi se aveva testa per ricordarselo.
Una soluzione potrebbe essere quella di affidare la visita a Palmato, giovane e promettente collaboratore di cui finge di fidarsi ciecamente, e che tiene al guinzaglio con una retribuzione ridicola, con un impegno giornaliero minimo di dodici ore, ma con la ghiotta prospettiva di essere entrato nel giro dei medici della Villa.
Intanto lui potrebbe consultarsi telefonicamente se non con Tosarelli in persona, che dopo quel pranzo è forse meglio non sentire per un po’, almeno con un avvocato dell’Infortunistica e magari anche con il liquidatore della Compagnia assicurativa.
Una bella soluzione, sogghigna ironicamente, se non fosse che da ben tre quarti d’ora ha incaricato quel coglione di Palmato di svolgere una perquisizione informale nella stanza del suicida e che ancora lui non è tornato.
“Conosco bene la figlia di quel poveretto”, gli aveva mentito durante una pausa caffè al bar dei Poliambulatori, pausa proposta con il tono comprensivo e compiaciuto di chi sa offrire al proprio vassallo anche piccoli piaceri quotidiani, oltre allo smisurato carico di perizie, “Non puoi immaginare quanto è depressa, guarda. Mi fa una tenerezza, aveva solo suo padre al mondo e non riesce a capire come abbia potuto suicidarsi”.
“Una brutta situazione”, aveva annuito Carlo Palmato, lo sguardo impassibile.
Allora Govatti si era avvicinato, per fargli capire che diminuendo la distanza gli concedeva fiducia.
“Ovviamente le sono stati restituiti tutti gli averi del padre; ma lei sostiene che mancano delle carte importanti, la loro corrispondenza privata e non so bene cos’altro. Sai, sembra che questo Santino scrivesse versi, poesie, ecco, e che le lasciasse un po’ dappertutto. Ma non sono state trovate, nemmeno sul cadavere, capisci. Lei è davvero molto dispiaciuta e allora ho pensato che se si può fare qualcosa per aiutarla almeno un po’ … Insomma, ti sarei davvero grato se tu facessi questo per me, dato che sono pieno di lavoro urgente da sbrigare”, un secondo di parole sospese e complici.
Palmato gli aveva sorriso, incerto, come ad aspettare altro.
“Se tu potessi dare un’occhiata adesso alla sua stanza, così, velocemente, e vedere se salta fuori qualcosa, carte, documenti, insomma, qualunque cosa che io possa restituire alla figlia per darle un po’ di sollievo”.
Una storia così inverosimile e melensa che nessuno poteva crederci, Govatti lo sapeva bene. Figurarsi Palmato, che stupido non è, anche se gli manca la sua capacità di vendere immagini, anche se sa che il suo allievo non la troverà mai nemmeno in cento anni di lavoro. Ma Palmato è una creatura tirata su da lui ed è ambizioso quanto basta per non fare domande e per fingere di credere.
Basta accarezzarlo con le parole giuste.
Così aveva lasciato alla fine la frase magica, l’unica attesa dall’allievo.
“Lo sai quanto mi fido di te”
Ed ora Palmato sta perlustrando la stanza del fu Maurizio Santino.
Govatti lancia un’ultima nervosa occhiata all’orologio a parete e spera che non abbiano scoperto il suo collaboratore. La stanza non è più sotto sequestro giudiziario, ma gli seccherebbe se circolassero voci tra il personale o gli ospiti della Villa su questa insolita intrusione. Soprattutto perché la sua è un’iniziativa personale di cui non sono al corrente né Vasari, né Tosarelli. Ma importante per mostrare loro la sua efficienza.
“Se ti scoprono”, aveva aggiunto mentre tornavano agli Studi, “racconta che stai collaborando alle indagini come Consulente medico legale della Procura in appoggio alla dottoressa Laghi. Il fatto che lavori anche alla Villa non importa, anzi dovrebbe essere il tuo salvacondotto”
Govatti smette di picchiettarsi i denti e decide che le telefonate all’Infortunistica e alla Compagnia possono essere rimandate a dopo la visita. Non può fare attendere troppo i pazienti, soprattutto se raccomandati dal Cavaliere in persona.
L’immagine prima di tutto.
Solleva il telefono interno con un largo sorriso.
***
Non dovevo farlo.
Ecco, potrebbe essere lo slogan della mia vita, sempre al passato, chiaro, mica sono capace di utilizzarlo al presente o, ancora meglio, al futuro. Ho un sentiero di “non dovevo farlo” dietro le spalle, che mi ha smarrito molti anni fa e che mi ha condotto fino a questa Villa a guardare il trascorrere dei miei ultimi momenti.
Il “non dovevo farlo” che ora riempie i miei pensieri è riferito a “non dovevi raggiungere di corsa la Villa e precipitarti al secondo piano per scoprire chi frugava nella stanza di Santino per tre buoni motivi”.
Uno, perché la mia goffa corsa dalla pineta al salone e poi sulle rampe di scale hanno morso ogni articolazione dalle anche alle caviglie, che ora stanno urlando in una polifonia in do maggiore, dove do sta per dolore.
Due, perché una volta raggiunto il secondo piano si è presentata una delle mie crisi di dispnea, evento che potevo ben prevedere, dato che ne soffro da quando i miei polmoni si riempiono dell’aria della Villa. Se poi si tratti o meno di una coincidenza, è un particolare che ora non mi interessa molto.
Al momento sono sovrastato dal motivo numero tre. Appoggiato ad una parete, sono riuscito in qualche modo a raggiungere l’ingresso della stanza del fu Maurizio Santino. Ultimo errore, perché qui mi ha investito un bolide bianco in uscita e mi ha sbalzato contro uno stipite dell’ascensore.
Ora sono steso al pavimento, senza respiro e con il dolore che affonda pugnalate nella spalla sinistra, che martella sulle articolazione delle gambe – degli arti inferiori; ecco, se riesco ancora a correggermi con queste definizioni anatomiche, forse non sono ancora tutto morto.
Non ho visto chi mi ha investito, ma aveva un camice bianco, da medico, questo è sicuro, e credo proprio che si tratti della stessa persona che ho intravisto dalla pineta. Un medico che aveva qualcosa da fare nella stanza di Santino, qualcosa di non troppo limpido a giudicare dal modo in cui mi ha salutato andandosene.
Mi giro cauto verso la spalla sinistra, richiamato dall’intensità del dolore.
D’accordo, è ora di sospendere il tempo dell’autocommiserazione e delle deduzioni, quello che vedo è più urgente; a parte il dolore, quanto rimane del mio sguardo clinico nota subita il segno della “spallina” e nello stesso istante scopro che non riesco ad avvicinare il braccio al corpo.
Dottore, la diagnosi è lussazione di spalla, penso mentre stringo i denti, chiudo gli occhi e abbandono la testa sul pavimento.
Se non fosse per la dispnea, proverei a ridurre la lussazione da solo, in fondo l’ho fatto decine di volte sui pazienti, anche se in altre epoche. Ma così non se ne parla proprio.
Alternative egregio?
È vero che la “fame d’aria” si sta attenuando, ma non sei certo in grado di chiamare aiuto e a quest’ora sono tutti nel parco o nel salone due piani sotto a giocare ai bravi nonnini e ai diligenti inservienti.
Dormi
Apro gli occhi e sollevo di scatto la testa per quanto mi è dato dalla posizione sdraiata sul pavimento.
Dolore al rachide cervicale, benvenuto anche a te, figliolo.
Mi guardo cautamente intorno mentre il mio cuore ricomincia a galoppare. Alla mia destra, il lungo budello del corridoio dove riposa la doppia file delle porte chiuse, alla mia sinistra un balcone a vetrata, velato da tende su cui colano pesanti motivi floreali.
Allora guardo in avanti. L’unico pensiero che ci vorrebbe per farmi agitare ancora un po’ è proprio quello che mi sorge spontaneo: la porta della stanza del fu Santino è spalancata verso l’esterno e sembra una ferita aperta a mostrare le interiora.
Il mio sguardo entra in punta di piedi e subito scopre una parte del letto, quella dove dovrebbe esserci il cuscino, che però non c’è, e le lenzuola, che ci sono, ma avvolte in un abbraccio confuso con un cassetto rovesciato e preso da chissà dove; il comodino giace al solito posto, apparentemente in ordine, il balcone è aperto.
Nient’altro, almeno dalla mia posizione, ma abbastanza per capire che il tipo che mi ha investito è un tornado. Previsioni del tempo, annuncerebbe con brio la mia cara bionda presentatrice.
Un’altra fitta alla spalla mi costringe a chiudere ancora gli occhi, ma li riapro subito sulla stanza. In attesa.
No, questa volta nessuno bisbiglia. Nessuna presenza di Santino.
Perché la voce che ho sentito prima sembrava proprio la sua. Ma ora noto un particolare inquietante che prima mi è sfuggito. Le tende del balcone aperto ondeggiano pigre, come mosse dal vento, nonostante sia una giornata afosa; non può trattarsi nemmeno di corrente d’aria, perché il balcone del corridoio è chiuso per dare spazio all’aria condizionata.
Il cuore ricomincia a galoppare e subito cade nel baratro del panico insieme al resto del corpo.
- Aiuto! – grido con la testa verso la rampa delle scale, ma la mia voce sembra giungere dalla parte opposta del lungo corridoio e il silenzio è interrotto solo da un’altra pugnalata alla spalla lussata. Allora cerco di puntellare il gomito destro sul pavimento e di sollevarmi con il busto, ma non appena la spalla sinistra si muove, il dolore è così forte da schiacciarmi di nuovo al suolo.
E la piacevole novità è che ora il corridoio ha cominciato a girarmi intorno.
Chiudo gli occhi e questa volta non li riapro, lasciandomi andare al risucchio che mi porta da qualche parte in un mondo pietoso, senza paura e dolore.
Dormi, ritorna dolce la voce di Santino.
***
Aghi gelidi saettano dal cielo a migliaia, inclinati e precisi quando colpiscono il terreno d’erba e fango che mi circonda; non aprono ferite, ma si dissolvono al suolo in esplosioni di acqua. E anche su di me stranamente non lasciano alcun segno, se non questo freddo che mi avvolge deciso.
Sono sdraiato in un campo a pancia in giù – prono, dottore, prono - in un imbrunire di pioggia.
Sento sulle mie labbra l’umidità del terreno mentre cerco di mettere meglio a fuoco il luogo dove inspiegabilmente mi sto risvegliando. Attraverso il velo della pioggia scorgo ombre che spuntano dal terreno, quasi tutte identiche e alla stessa distanza una dall’altra, come in una parata militare.
Lapidi, lapidi ovunque.
Dunque sono in un altro incubo.
Infatti mi basta immaginare il gesto di alzarmi, con calma e con gesti studiati, perché anche nell’incubo ricordo bene che ho la spalla sinistra lussata, ed ecco che sono già in piedi, come nel montaggio a singhiozzo di un film. E un altro indizio che sto percorrendo in un incubo è che la spalla non fa male e non ha nessun segno di lussazione; la muovo cautamente verso l’alto e poi verso la schiena e il gesto è completo e senza dolore.
Ma non ho il tempo di gioire, perché subito dopo arriva una consapevolezza che mi fa barcollare sotto il peso del suo senso assoluto.
Sono morto, non sento il cuore battere, non ho bisogno di respirare e il gelo che avverto non è quello della pioggia che esplora il mio corpo, ma nasce da dentro, da ogni angolo del mio corpo.
Sono morto e sono in un cimitero. E forse questo non è un incubo, ma il proseguimento naturale di quanto è accaduto davanti alla stanza di Santino.
Un piastrone verticale di marmo che nasce dalla terra erbosa è l’appoggio provvidenziale che mi impedisce di ritrovarmi steso al suolo, ma subito ritraggo la mano e lo guardo inorridito, mentre un dubbio si insinua nella mente.
Forse questa è la tua lapide, dottore, perché se sei morto da qualche parte devono pure avere parcheggiato le tue spoglie mortali in attesa che la parola “cadavere” torni al suo significato d’origine, “caro data vermibus”.
La paura può vestirsi di curiosità di sapere, come la curiosità di sapere può essere vestita da paura, mi sorprendo a citare un detto del fu dottor Edoardo Salina, utilizzata ad effetto da chi in un tempo lontano mi chiedeva come potessi svolgere le autopsie senza esserne spaventato, e subito il mio disorientamento aumenta: in un incubo si possono formulare questi pensieri?e dopo la vita?
In ogni caso, muovendomi piano tra il fango e l’erba luccicante di pioggia mi porto davanti alla lapide. Vorrei trattenere il respiro, ma data la mia condizione credo di poter fare a meno di questo tentativo.
La lapide è marmo liscio, dipinto di grigio scuro dalla pioggia; nessuna incisione, nessuna iconografia simbolica. Nessuna foto, nessun nome.
Marmo grigio senza identità.
Questa scoperta non mi rassicura affatto, anzi, aumenta il senso di smarrimento, tanto che mi giro intorno con espressione spaventata, forse addirittura supplichevole.
Ma se sono morto non dovrebbe esserci uno spirito buono, un angelo, un caro defunto, o qualunque volontario in assistenza alle matricole del trapasso a consolarmi e guidarmi?
La pioggia che cade ininterrotta, a ritmo intenso ed inclinato da un vento che non avverto, è l’unica forma di movimento di questo posto.
Se qualche spirito lassù o laggiù vuole ricordarmi in questo modo che la mia vita terrena ha fatto acqua da tutte le parti, d’accordo, ho capito il messaggio, ora possiamo cambiare scenografia, por favor?
Niente da fare, lo spiritoso o è sordo o non conosce il detto “lo scherzo è bello finché dura poco”.
Mi trascino ad un’altra lapide e scopro che anche questa è solo marmo liscio e grigio.
Il mio sguardo vaga nel campo scuro e bagnato che mi circonda; lapidi tutte uguali nella forma e nella dimensione, lapidi che nascono dalla terra bagnata come denti a più file di un predatore.
Ed io mi sento indifeso e incapace di agire, mentre i miei occhi, forse opachi di morte, cercano sperduti e supplicanti una forma umana.
Così la vedo, l’ombra nera e confusa di qualcuno seduto sopra una lapide, in fondo all’orizzonte.
Forse avvicinarmi è un pessimo errore, il primo della mia vita ultraterrena, e magari qui il primo è anche l’ultimo concesso, ma il bisogno di sapere e scoprire altre forme oltre quelle che mi circondano ora è più forte della paura.
Chiunque sia quell’ombra, non sembra accorgersi di me e rimane immobile, il capo chino tra le braccia incrociate sulle gambe. La pioggia che cade intensa e veloce non mi permette di cogliere i particolari, nemmeno ora che sono a pochi passi dall’ombra, ma qui mi fermo, con i sensi all’erta e pronto alla fuga, perché somiglierà anche una forma umana, ma date le circostanze, non è detto che sia necessariamente una forma socievole – non necessariamente una forma non affamata, precisa la voce più ironica dei miei pensieri, evocando storie di zombi e vampiri vari.
Mentre rifletto sul modo migliore per stabilire un contatto con quell’ombra, il viso grigio tra il grigiore del luogo si solleva dalle braccia e si gira verso di me. L’ombra non parla, ma ora ne intuisco almeno il contorno sfumato del volto. Faccio per avvicinarmi ancora, solo pochi passi, ma l’ombra mi ferma con un gesto improvviso e deciso della mano.
“Buono lì, Edoardo, mica ti è concesso di vedermi quando e come ti aggrada”, l’accento toscano di Santino, così pieno di vita, stride con il grigiore e la morte in cui risuona.
“Perché no, anch’io sono…”, mormoro senza riuscire a finire la frase.
Lui scuote la testa d’ombra e per un attimo, solo per un attimo, mi sembra di vederlo sorridere.
“Macchè morto. È una delle tue solite biscarate”, sbuffa.
Mi guardo ancora intorno, sempre più smarrito. Le lapidi, la pioggia, il senso di freddo e umidità, la paura che mi stringe lo stomaco. È tutto così reale.
“Senti, mi sa che ti hanno conciato male, ma non al punto di essere davvero qui. Però bisogna che tu quando ti ripigli parli con qualcuno”, mi ammonisce l’ombra in tono divertito, “Insomma, mica possiamo sempre incontrarci così”
Annuisco in un gesto sembra surreale. Sto ancora conversando con il mio compagno di senilità alla Villa, solo che è morto. Vorrei farglielo notare e forse in questa situazione assurda riuscirei a riderci sopra con lui, ma l’ombra mi precede.
“Te l’ho già detto, è un casino appena morti, a volte c’è confusione tra i piani dove si dovrebbe rimanere”, poi si interrompe, un attimo. Come pensieroso.
“Ma mi sembra che anche voi state combinando un bel casino su di me”, conclude in tono lontano, come se stesse commentando una faccenda che non lo riguarda più.
“Che vuoi dire, Santino?”
Lui non risponde, osserva davanti a sé, in silenzio e immobile, verso altre lapidi ed altra pioggia.
Socchiudo gli occhi, vorrei cogliere i particolari della sua figura, o forse no, perché li riapro subito.
L’ombra gira ancora il viso verso di me.
Un istante, lungo come la vita di un ago di pioggia che dal cielo si schianta al suolo, poi a torna a guardare davanti.
“Vorresti vedermi davvero per quello che sono, Edoardo? Ma non è questo il modo, te l’ho già detto. Questa è la scappatoia che ti crei perché non vuoi sconvolgerti”
Sospiro di ombra. Dove si scioglie ogni forza di volontà che mi è rimasta.
Inizio ad indietreggiare, ed è già molto, perché in realtà vorrei proprio voltarmi, dare le spalle a questa oscurità, e correre, correre via, ovunque, purché lontano dall’ombra.
Indietreggio e non mi curo di dove finiscano i miei passi.
L’ombra si Santino si volta, ancora, verso di me. Ma non accenna ad alcun gesto per fermarmi.
“Non è la strada giusta, Edoardo, e tu lo sai bene. Se vuoi vedermi davvero, conosci il modo, perché è nel tuo passato”
“No!”, urlo in silenzio,”Non conosco niente!”
“Ci vuole solo coraggio”, sembra rispondermi Santino. La voce è ancora la sua, ma ora echeggia da ogni segreto del cimitero.
Di certo è l’ultima frase che sento prima di inciampare e cadere al suolo. Dove il buio mi attende.
[... continua ...]