venerdì 8 giugno 2007

gli artisti della morte

gli artisti della morte*
di Giovanni Sicuranza

atto I: algor

È troppo preso dal nulla per rendersi conto del roco ansimare che srotola sbuffi di polvere alle sue spalle.
Si sta guardando intorno da giorni, forse mesi, e non sente e non vede che vuoto.
Vuoto sulla strada, vuoto sugli alberi, vuoto sul cielo. Vuoto nella cassa dei soldi.
Vuoto cronicizzato in un deserto che lo affama, di cibo e di vita.
Lo sguardo è assente nel ventre spalancato del congelatore per le bibite. Vuoto.
Ne ha aperto il pesante sportello e si è immerso tra le sue croste di ghiaccio respirando il ricordo di bottiglie sigillate da liquida freschezza per gli automobilisti in sosta nel suo distributore di benzina.
E intanto è diventato una fotografia in bianco e nero con una mano sospesa sullo sportello, l’altra accennata tra la tasca dei pantaloni e un frammento di camicia libero al vento. Ha perso gli occhi in quello spazio ghiacciato e pieno di niente e con loro ha trascinato ogni senso.
L’ansito avanza nel silenzio della strada asfaltata dalla nebbia e dal vento e cresce, fino a diventare il rombo spezzato di anziani pistoni quando raggiunge lo spiazzo dove si apre il distributore di benzina.
L’uomo non lo sente, non del tutto almeno, perché in un angolo della mente ha preso anche quel rumore e lo ha trascinato con sé negli ampi spazi del congelatore per trasformarlo nell’emozione delle prime settimane in cui, all’entrata del paese di Fine Viaggio, sulla strada principale che prosegue oltre il Cimitero di Solitudine, aveva sparso risparmi e speranze nel distributore di benzina. Il primo nel raggio di chilometri, l’unico dispensatore di carburante per i motori della zona.
In un brio di ottimismo che lo aveva spinto a danzare per giorni con occhi e parole, aveva acquistato persino quel congelatore per bibite, frizzante ristoro durante l’erogazione della benzina.
Aiutato dai facchini che lo avevano trasportato dalla città su un furgoncino gracchiante di ruggine, mentre lo collocava ben in evidenza al lato dell’ingresso del gabbiotto, ne aveva assaporato i colori urlati di rosso e verde, sfida alle giornate di nebbia, pioggia e vento che scorrono su Fine Viaggio. Alleati necessari anche durante le ore di quel sole che a volte scende duro da un versante della collina del cimitero, perché all’interno del congelatore celavano la promessa di un refrigerio.
Il rombo del motore sussulta indeciso alle sue spalle, tossisce in una scarica di addio e si perde nel silenzio.
L’uomo non si gira. Lo sguardo smarrito tra il ghiacciaio inesplorato del congelatore.
C’erano state bottiglie di bibite dove ora c’è il vuoto. Per qualche settimana, mani veloci le avevano cercate tra il vapore che sibilava freddo all’apertura dello sportello per estrarle da bianche profondità e svelarne il contenuto.
Lui osservava con raggi di vittoria il rinnovarsi della scena, sempre dallo stesso angolo, alla pompa di benzina, mentre nutriva le auto sussurrate di polvere, nel grigio spalmato sulla stazione di servizio. Il rosso e il verde che dal congelatore esclamavano oltre la nebbia erano le credenziali migliori per i suoi sogni. Il prezzo della benzina sarebbe salito, ma la sua vita era già una discesa, e i colori del congelatore ne rappresentavano lo stendardo ideale.
Dietro di lui, a fianco di una pompa di benzina su cui pende un foglio inclinato di nero sulla parola “vuoto”, un’ombra grigia è stesa tra il grigio della nebbia.
In una goccia di realtà, l’uomo sospetta la nuova presenza, ma non reagisce, la maggior parte di lui ancora intrappolata nell’angoscia del deserto ghiacciato del congelatore.
Allora l’ombra grigia ha un nuovo singulto e tra fantasmi di motori si avvicina. Piano.
***
Poco dopo l’inaugurazione, lui, le due pompe di benzina e il congelatore delle bevande erano rimasti soli.
Le auto passavano ancora, certo, ma così rade e veloci che a volte si era chiesto se appartenessero alla sua stessa realtà o non si trattasse invece di rapidi scorci di un altro Fine Viaggio. O se non era il distributore che aveva slittato in un mondo parallelo, dove le macchine non esistevano, ma si potevano osservare in uno schermo di beffarda trasparenza.
Però la verità era molto più semplice.
Aveva previsto ogni fotogramma, tranne quello centrale. L’apertura di una superstrada che ignorava il paese per stagliarsi tra le città.
Aveva ritoccato verso il basso il prezzo della benzina con tanto di cartelloni a decantarne il vantaggio. Niente. O meglio, qualcuno si fermava, ma era come vedere il sole che cadeva dalla collina con sbuffi di luce fino alla strada assonnata per svanire veloce tra i segreti della nebbia.
Aveva rinforzato il verde e il rosso sul congelatore di bibite, quindi si era incamminato fino alla curva della strada che immetteva al distributore e solo lì aveva alzato le spalle curve di perplessità e sconforto. E aveva guardato, oltre i respiri della nebbia. La sagoma del congelatore si perdeva, ma i colori che lo lambivano a strisce erano un potente richiamo. Inutile.
Dal quel giorno aveva atteso, esiliato nel gabbiotto, con lente escursioni nel congelatore per riempire stomaco e mente di liquido frizzante. Fino a quando il contenitore era diventato una distesa bianca in cui la vita si rinnovava solo nel ronzio del motore.
Un rumore sottile, solitario e testardo, sparso a riempire il vuoto, il bianco e il grigio. Il nulla.
Per questo lui non ne aveva spento il sussurro.
Per questo ancora oggi il congelatore funziona, per questo l’uomo perde lo sguardo nei suoi spazi.
E per questo non si accorge che la nuova ombra è ora a pochi istanti da lui.
***
La donna scivola lacrime sottili sulla nuca grigia dell’uomo, sulle bretelle che sgorgano dalle spalle, fino a diventare lago blu della divisa da benzinaio nel resto del corpo, sulla mano avvizzita di macchie e rughe che alza al cielo lo sportello del congelatore.
Il fatto che lui non sia mosso da quando è entrata nel distributore, non la colpisce più di quanto potrebbe interessarle il paesaggio spento di Fine Viaggio. Attraverso la polvere soffiata sul finestrino di guida, vede solo quello che è urgente sapere. C’è un posto dove chiedere informazioni, c’è un uomo in cui sperare aiuto.
Ha viaggiato a lungo quando ha capito che non poteva più tirarsi indietro. Nell’emergenza della notte scesa sulle sue illusioni ha preso l’auto del marito e ha premuto lacrime e preghiere sull’acceleratore, diretta verso l’unico luogo che forse ha ancora uno scorcio di speranza.
Ha percorso asfalto che si contorceva su colline e monti e pianure, mutava in ghiaia e terriccio, cedeva di crepe smarrite. E che si è dissolto, polvere tra nebbia, da quando è entrata nel territorio di Fine Viaggio.
Ma lei non ha esita, non può più permettersi di farlo. Anche se forse è già tardi.
Solo ogni tanto si era fermata sul ciglio della strada o in mezzo alla carreggiata. Incurante del rischio di essere investita da un’altra auto, comunque inconsapevole che man mano che procedeva il traffico diventava un ricordo. In quegli attimi era semplice incoscienza gelata da valanghe di terrore. Allora aveva frenato, brusca, assoluta, con scatti di mani aveva estratto dalla borsa lo specchietto per controllare che tutto fosse ancora valido.
Oppure, vinta dall’urgenza dell’odore nell’abitacolo, si era proiettata all’esterno. Per vomitare.
Poi aveva continuato, nella guida verso lo scricchiolio di un’ultima salvezza, e così ancora, e ancora.
Fino a quando non aveva scorto il distributore di benzina.
***
L’uomo si volta, solo un po’, con il collo che smuove pieghe appassite di carne. La mano rimane ferma sullo sportello spalancato del congelatore, tenace resistenza di ricordi oltre il presente.
Non ha ancora del tutto realizzato che al volante di quell’auto grigia è seduta una donna che lo guarda spaventata, e la sua mente compie già una capriola di vitalità.
Una cliente!, esclama al vuoto dei suoi pensieri.
Dovresti offrirle una bibita, sussulta la mano che sorregge lo sportello.
Allora lui si volta del tutto. E vede.
Lo sportello del congelatore crolla con un tonfo echeggiato di nebbia.
***
La donna abbassa il finestrino in lunghi cigolii di polvere e incuria proprio mentre il benzinaio inizia a girarsi verso di lei.
Ha il viso sospeso in un pallore di nausea. Nonostante tutti gli altri finestrini siano aperti dall’inizio del viaggio, l’odore che appesantisce l’interno ha unghie affilate ed è penetrato con facilità in ogni fibra dell’abitacolo e della sua pelle.
E ha il cuore bloccato in un freddo di angoscia. Nonostante la prova dello specchietto le dia ancora speranza, una parte di lei sta intuendo il vuoto di un’altra verità.
In un mormorio di forza, riesce ad aprire lo sportello. Poi crolla a terra, spargendo vomito e lacrime.
***
- Ehi! – sbotta l’uomo chinandosi lesto su di lei e una frazione di secondo dopo si sente solidale con tutto il vomito con cui la donna si è presentata.
L’odore che sibila dall’auto non è soltanto insopportabile. È un annuncio gonfio di morte.
Distoglie lo sguardo dalla figura reclinata accanto al posto di guida, ma questo non basta per attenuare l’urlo di nausea e allora si impone di concentrarsi sulla donna. Ha il viso rivolto al suolo, i palmi delle mani stesi tra il suo stesso liquame a reggere i sussulti del corpo.
Sembra una fontana scolpita con le sembianze di una donna minuta, solo che invece di sgorgare acqua, dispensa vomito.
L’uomo chiude e apre gli occhi, rapido, per scacciare quel pensiero fuori luogo, e tocca cauto una spalla di lei.
- No – gorgoglia la donna, riuscendo a scostarsi nonostante i conati – No – ribadisce con più decisione.
L’uomo ritrae la mano, indeciso sul da farsi. E spaventato.
- Signora – abbozza in un tentativo di ritrovarsi.
La donna alza il viso, disegnato da rivoli di bile in cui luccicano soffi di lacrime. Allunga a sua volta una mano verso il benzinaio, viscida e tremante nell’aria offuscata di morte. Poi la ritrae, forse perché ha visto disgusto negli occhi di lui, forse perché non ha tempo per se stessa.
- Pensi a mio marito, la prego. Sta morendo -
***
L’uomo non ha nessuna intenzione di pensare alla figura reclinata sul sedile a fianco del posto di guida come un lungo zaino nero pieno di oggetti immobili.
Non ci pensa nemmeno, perché basta l’intenzione di uno sguardo, il sussurro di un annusare, per comprendere che si tratta di un marito morto. Molto morto.
Putrefatto, persino.
Non ha mai visto cadaveri umani, ma di carcasse di animali, anche di grossa taglia, sono piene le paludi di nebbia che circondano Fine Viaggio.
E questo gli basta per intuire che la signora ha viaggiato tra vomito e sussulti in compagnia di un cadavere stagionato.
- Signora – ricomincia allora con un cauto pigolio, che è una supplica a non insistere in quella richiesta di aiuto fuori tempo massimo.
- Mio marito – insiste invece lei, la voce più ferma in uno stagno di putredine e bile.
- Suo marito è morto, signora – escono le parole di lui, in un gemito gentile che congela entrambi di stupore.
La donna spalanca occhi e respiri sul viso contratto dell’uomo. Lo guarda cercando di trovare nella sua espressione il significato di quella frase. E si sente persa.
É troppo grande la fronte selciata dalle rughe, troppo spento lo sguardo velato dagli anni, perché possa leggere conforto. Scuote la testa e bagna di lacrime l’aria morta.
- No, no, senta - muove allora le labbra, veloce, per annullare le parole dell’uomo con il fiume delle sue - Lo so che sembra morto, cioè, sento l’odore e lui non si muove da giorni, ma -
Il viso si affloscia al suolo. Le dita ghermiscono polvere e vomito.
Silenzio di attese e negazioni soffia sul distributore di Fine Viaggio.
- Signora – tenta ancora l’uomo chinandosi accanto a lei. Ora le sue mani sfiorano la schiena della donna, anche se non riescono davvero a toccarla, come spaventate da quanto stanno ascoltando.
Lei non solleva lo sguardo, la voce soffia piano al terreno imbrattato e sale verso lui in spirali infrante.
- Senta, mio marito ha una grave malattia. Sta morendo, non è morto. Abbiamo provato di tutto, ma non ci sono stati miglioramenti. Allora ha deciso di smettere di rivolgerci a medici e di prendere medicine che lo facevano solo stare peggio. Io ero d’accordo. E abbiamo atteso – un nuovo fremito salta sul corpo fragile della donna - Finché qualche giorno fa non si è più mosso -
- Signora, io – l’uomo inizia a sentirsi perso in caduta libera da un incubo ad occhi aperti.
- No aspetti, aspetti – la donna solleva il viso con uno scatto illuminato – La prova dello specchietto è ancora positiva –
- Cosa? – barcolla lui.
Lei si alza, con macchie di bile sparse tra il volto, i capelli, il vestito, chiude gli occhi e con un movimento rapido afferra la borsa appassita sul sedile di guida. Riapre gli occhi e in un tuffo di mani estrae uno specchietto da viaggio incastonato in plastica nera e lo para davanti agli occhi del benzinaio.
Per un istante l’uomo crede che gli stia suggerendo di riflettersi per una sistemata, poi capisce che questa spiegazione è ancora più assurda del gesto della donna e allora attende.
- Senta, mentre mio marito si spegneva ogni giorno un po’ di più, leggevo tutti quei trattati sui seppellimenti prematuri, sa, quando c’era il rischio di seppellire persone ancora vive – lei fa danzare lo specchietto intorno agli occhi di lui – Ho saputo che uno dei metodi per capire se una persona era viva anche se sembrava morta, ma morta davvero, era quello di mettere uno specchietto davanti alla bocca -
L’uomo socchiude gli occhi nell’intuizione di un mistero che sta per dissolversi.
- Così se la persona respira ancora lo specchietto si appanna -
La donna accende occhi e parole e innalza lo specchietto al cielo.
- Sì sì sì. In questi giorni ho provato e riprovato a mettergli lo specchietto davanti, anche prima, sa, venga, venga -
È così potente il motore di quelle frasi che l’uomo non riesce a far altro che seguire la donna, anche se sta girando intorno al cofano dell’auto, anche se sta per spalancare lo sportello che cela in parte il cadavere.
E poi, si chiede, sta a vedere che
- Ecco, ecco – esulta la donna, china sui residui del marito – Guardi lo specchietto! –
Lui non si muove, bloccato dalla prepotenza di un odore senza alternative.
Lei rimane per un istante sospesa, con lo specchietto quasi appoggiato alle labbra livide e gonfie del marito, poi si volta, decisa.
- Ma come, non vede? – tuona risentita – Lo specchietto si è appannato ancora! Mio marito è vivo, vivo. Dobbiamo aiutarlo! -
L’uomo sospira, nega con la testa e i suoi occhi riescono finalmente a posarsi sulla putredine seduta a pochi passi.
- No, signora, mi dispiace – spiega, ora sperando davvero di essere solo in un incubo – Sono i gas della putrefazione che escono dalla bocca e fanno appannare il vetro -
- Co – lo specchietto si libera dalla presa della donna e con un flop di sconfitta si adagia sul grembo gravido di morte del marito – Cosa? No, senta, ascolti, mio marito è nato a Fine Viaggio e non è più tornato da quando era bambino. L’ho portato qui perché mi diceva sempre che rivedere di nuovo il suo paese sarebbe stato una rinascita – mentre parla le mani cercano conforto una nell’altra e poi si nascondo tra i capelli arruffati di grigio e vomito – Ho preso la sua macchina e sono corsa qui. Anch’io voglio vedere Fine Viaggio. Voglio essere come lui, capisce, perché senza lui non sono che – gli occhi cadono sul corpo del marito, stanchi, e si appannano in dissolvenze di emozioni – Senza di lui non sono che un’ombra –
L’uomo stringe le labbra, smette di respirare e, rifugiandosi in rare immagini colorate dei ricordi, si sporge sul cadavere che continua a marcire tra emissioni di gas.
- Vede, signora – spiega ritraendo subito la mano con cui lo ha sfiorato, il tono cauto di chi svela una sgradevole, ma necessaria verità ad un bambino – È freddo -
- Oh – mormora lei, lo sguardo lontano. Poi si affloscia al suolo sollevando gemiti di polvere. Appoggia la schiena al metallo distante dell’auto e chiude gli occhi.
- Allora è davvero finita. Se è freddo, intendo. È proprio morto, io – increspa le labbra tra i denti, un istante, prima di liberarle in una smorfia di sorriso - io non ci avevo pensato, stupida –
Apre gli occhi.
Il benzinaio è di fronte a lei, il volto flaccido di silenzi, una mano celata a grattare la nuca, l’altra tesa a offrire un appoggio.
Ma la donna chiude di nuovo gli occhi e appoggia sulla bara metallica anche la testa.
- Mio marito è freddo di morte. Senza di lui io non esisto. Non voglio più questa vita -
L’uomo continua a grattarsi la nuca, anche se non si rende conto del gesto.
Vorrebbe scuotere la donna, fuggire dall’incubo, chiamare i carabinieri. Vorrebbe qualunque cosa, ma non continuare ad esistere in quella scena surreale.
E già che c’è si chiede anche come mai l’unica auto a sostare nel suo distributore dopo mesi di silenzi doveva essere proprio quella di una disperata in viaggio con un marito morto e putrefatto. E con tanto di specchietto da beauty-case-controlla-respiro al seguito.
Poi lei apre di nuovo gli occhi
- Voglio essere come mio marito. Mi aiuti – mormora.
E lui smette di pensare, assorbito dal profondo significato di quelle parole.
***
Il sole scende pieno dalla collina del cimitero, fino al distributore di benzina e ne accende i contorni.
L’uomo scruta l’orizzonte, in attesa.
Ancora non vede arrivare automobili, ma si sente già meglio e il sorriso che luccica sul suo viso ne è la prova.
Da un calcio distratto al terriccio, smembrando granelli sulla strada, poi, adagio, si incammina verso i colori brillanti del congelatore per bibite.
Quando apre lo sportello, il sorriso si allarga a splendore.
Almeno l’interno non è più spazio vuoto in cui smarrirsi di angoscia.
Mentre il vento si alza a borbottare frasi di polvere, lo sguardo del benzinaio vaga soddisfatto nell’immobilità del contenitore, tra le curve ghiacciate dei corpi della donna e di suo marito.



atto II: livor

Ascolta il piede scendere sulla vastità del marmo e rimane sospesa, seduta sul bordo del letto, a lasciare che il gelo del pavimento invada tutto il suo corpo.
Allora sospira, occhi chiusi sulla luce che sbadiglia nell’alba della nebbia, e lascia scivolare al suolo anche l’altro piede. E si sveglia davvero, le palpebre che si aprono piano, come serrande pesanti. Sapendo che è l’ultima volta che lo faranno.
I piedi nudi sussurrano schiocchi di sudore sul marmo mentre raggiunge la finestra, aperta in questi giorni di tarda primavera sul paese sempre-grigio e tuffa gli occhi nei cumuli di nebbia sottostanti.
Quando era più piccola, le piaceva perdersi in quel gioco; era come volare in alto e vedere le nuvole sotto di lei. Allora la nebbia celava un mistero magico e piacevole, nonostante le leggende di morti antichi che, si diceva, contribuivano a formarla.
Ma a lei questo non spaventava.
Gli antenati di Fine Viaggio erano troppo distanti per la sua mente di bambina, mentre la nebbia sotto la finestra della casa era sempre lì, ad attenderla in ogni alba, per mostrarle giochi di nuvole.
- fanculo – mormora Candida dodici anni dopo e chiude la finestra in uno slancio di vetri che terminano la corsa in un secco applauso.
Si volta verso l’uscita e lo specchio che cola riflessi lungo la porta la cattura con l’immagine di una ragazza dai capelli neri, troppo leggera per la vestaglia che le ondeggia intorno al corpo, troppo diafana per la seta che urla di rosso sulla pelle.
Con gesti veloci di rabbia, si libera del vestito e getta di nuovo gli occhi nello specchio.
- Ti sfido – mormora in un ghigno forzato mentre osserva il pallore assoluto del suo corpo, così intenso da averle portato il soprannome di “cadaverina” tra i compagni del liceo – Stronzo – aggiunge poi con dedica al ragazzo di cui è innamorata, quello che la evita accuratamente da mesi e anni.
Lei è consapevole di avere un volto piacevole, disegnato da occhi verdi di rinascite, da capelli ondulati di oceani scuri, da labbra piene di promesse in attesa.
Ma sa anche che non ci sono colori sulla sua pelle, sa che la bianca distesa che offre il suo viso, la sua mano, la sua gamba, il suo tutto, è troppo somigliante alla morte per essere attraente. E nel tempo ha capito di odiarla, senza riuscire a liberarsene.
Nel tempo ha imparato ad odiare anche la nebbia sotto la sua finestra, intorno a Fine Viaggio, sempre presente, così bianca da diventare un richiamo beffardo alla nullità della sua pelle.
E sa che quel ragazzo diventato sospiri di solitudine non la desidera, che non la chiamerà mai con il suo nome, già beffardo, ma con quello di “cadaverina”.
Imponendosi di fare piano per non svegliare i genitori che dormono ancora al piano di sotto, apre del tutto la porta, fino a schiacciare lo specchio contro il buio della parete.
Il pavimento del corridoio è ancora più freddo di quello della camera e lei rimane ad ondeggiare sulla soglia, con mille piccoli brividi che si arrampicano dai piedi alla testa, poi si decide a muovere un passo, cauta, quando pensa che il gelo vero, quello che sospende desideri e speranze, è sulla sua pelle e dentro il suo corpo.
Ancora un passo, più lungo, e si ferma.
- Merda – sussurra agli echi silenziosi del corridoio, mentre si gira su se stessa e con un salto ovattato rientra nella camera da letto.
Si avvicina alla scrivania, bazar di fotografie splendenti di colori di albe, tramonti, vestiti e fiori, con un gesto deciso della mano ne fa crollare una piccola collina e svela la copertina rossa del libro che ha preso in prestito alla biblioteca della città. Lo apre, veloce, solo per controllare che tra le pagine ci sia ancora il certificato medico con la diagnosi dell’esame, poi torna nel corridoio e scende le scale, senza più ascoltare il freddo del pavimento, senza più curarsi di interrompere il ritmico russare dei genitori, nell’unica sincronia rimasta dopo decenni di matrimonio.
Ha fretta, ora, Candida, non vuole perdersi i colori dell’alba, che, pure filtrati dalla nebbia, sono quelli della vita.
Prende la bicicletta reclinata nella penombra del portone e finalmente esce di casa. Nuda di pallore.
***
Ha pedalato con ritmo sostenuto sulla strada che porta alla collina, dove si estende il cimitero del paese. È allenata a lunghi percorsi in bicicletta, solitari, e la velocità l’ha aiutata a combattere il freddo e ad arrivare prima che i colori accesi dell’alba anneghino nell’alta marea della nebbia.
Come aveva previsto, non ha incrociato nessun abitante di Fine Viaggio e comunque si trattava di un rischio a cui non dava importanza. Anzi, aveva pensato ridendo all’aria grigia, se qualcuno mi vede pedalare nuda, penserà ad un incubo con cadavere in escursione.
Oppure nemmeno si accorgerà di me, pallida tra la nebbia, ma solo di una bicicletta che si muove senza guida. Questa considerazione aveva smorzato la risata e lasciato il segno di lacrime fragili, subito smarrite nel bianco del viso.
Ora che ha raggiunto la collina rallenta il ritmo e si guarda intorno, attenta a scrutare la terra scura tra le sinuosità delle radici, tra le foglie chine di umidità, fino a quando non la vede allargarsi in una chiazza vermiglia.
Si ferma e annuisce, di triste soddisfazione.
Gli occhi sfiorano il pendio della collina, su, fino al muro di cemento già fasciato dai raggi del sole. Quella vista è la conferma ulteriore di essere nel luogo giusto.
Lassù, tra i silenzi di quel muro, sono seppelliti i bambini schiacciati dal crollo di una scuola elementare, durante il terremoto di tanti anni prima.
In questo lato della collina, in un periodo che nessuno sa ricordare, scorreva un fiume tra ricchi minerali, ferro in particolare, che poi, all’improvviso, si era prosciugato, lasciando sulla terra, oltre il tempo, un dipinto rosso, con pennellate più decise proprio dove si è fermata Candida.
La ragazza scende dalla bicicletta, prende lo zainetto giallo agganciato al portapacchi e per un istante lo osserva brillare di giochi con il sole. È una scoperta inaspettata, che la rende ancora più desolata di pensieri, e la spinge decisa tra gli alberi e l’erba.
La bicicletta, stupita da quell’abbandono improvviso, crolla esausta sulla strada sollevando vagiti di polvere.
Candida la imita sedendosi sul terreno.
***
C’era un altro aspetto che avvolgeva di triste perplessità il suo fragile corpo.
A differenza di tante sue compagne di classe, non aveva problemi di peluria. Tutte indaffarate a farsi la ceretta alle gambe, alle braccia, qualcuna, aveva saputo, addirittura sul petto e lei, invece, niente.
Nessun pelo sbirciava dalla sua pelle.
E questo, invece di compiacerla, la deprimeva ancora di più.
Un pelo, avrebbe voluto anche solo un pelo, scuro, nero di notte senza luna, coraggioso tra le neve delle gambe, delle braccia, anche del viso.
E invece nulla.
Solo il riflesso scolorito della pelle che la graffiava con i soprannomi dei compagni di classe, con le allusioni sussurrate, ma non al punto da non ferire le sue orecchie.
Solo il rifiuto del ragazzo amato. E la disperazione in piena quando proprio lui, tra il coro generale delle risate della compagnia, aveva sbottato ”Ma sai che è strano, non hai nemmeno un pelo, eppure so che crescono anche ai cadaveri”.
La zip dello zaino scricchiola mentre ne apre la cavità nera.
Candida affonda le mani ed estrae il libro con il certificato medico schiacciato tra le pagine. Come aveva già fatto in biblioteca, si incanta ad osservarne il colore della copertina, molto indicato per le circostanze, poi si scuote ed apre la tasca laterale dello zaino. Prende i tre tubetti bianchi che ha sottratto dal beauty della madre la sera prima e li allinea sul terreno di fronte a lei, come lapidi disposte in fila ordinata.
Infine solleva il primo, ne svita il tappo rugoso con gesti delicati, quasi affettuosi, lo porta alla bocca e inizia a deglutirne il contenuto.
***
Il funerale a cui aveva assistito poco tempo prima, l’aveva soprattutto incuriosita.
Non conosceva personalmente la donna, anche se ricordava di avere visto il figlio, Achille, giocare tra le lastre di nebbia del parco, intorno alla statua di quel tale che aveva contribuito a edificare molti edifici di Fine Viaggio e che, si raccontava, era stato la vera causa del crollo della scuola elementare durante il terremoto.
Achille era morto di leucemia e, poco dopo, la donna lo aveva seguito, suicidandosi.
Se si esclude se stessa, era stato il primo cadavere che aveva conosciuto, e si era sorpresa nello scoprire che il viso non era pallido come il suo, ma rosso.
- Ah, sono gli artisti della morte - le aveva bisbigliato il dottor Santino, chino di noia durante la cerimonia funebre che aveva radunato tutto il paese nella chiesa. Poi, notando l’espressione perplessa di lei, aveva continuato – Si chiamano algor, livor e rigor e quando arrivano vuol dire che la persona è davvero morta, senza ritorno – un colpo di tosse improvviso e cupo lo aveva sorpreso, come alla vista del biglietto da visita dei tre personaggi. Si era guardato intorno, negli echi della chiesa, e intanto aveva proseguito.
– Algor, il cantore del gelo, è il primo, e soffia sul corpo, raffreddandolo, perché la temperatura dell’organismo tende ad equilibrarsi con l’ambiente esterno, di solito più fredda. Poi c’è Rigor, lo scultore dei gesti, che modella il cadavere in un irrigidimento progressivo, cominciando dapprima dai muscoli masseteri e della nuca ed estendendosi poi a quelli del collo, del torace, degli arti superiori ed inferiori. Quando si è stancato, abbandona il corpo, che comincia a rilassarsi nello stesso ordine. Intanto, però, arriva Livor, il pittore astratto, che lascia macchie di colorito rosso livido, chiamate ipostasi, nei punti di appoggio del corpo. Le ipostasi sono la traccia visibile del sangue che smette di circolare e si deposita nei vasi del derma, secondo la legge di gravità. Quindi la loro posizione cambia in funzione della posizione del cadavere -
Candida aveva annuito a quella spiegazione sussurrata tra salmi di dolore.
- Quindi la donna aveva il viso rosso perché quando è morta è rimasta a testa in giù -
Il dottor Santino le aveva sorriso con la complicità di un occhio strizzato. Poi si era voltato verso la bara, biascicando frammenti di orazioni funebri.
Il giorno dopo, Candida aveva preso dalla biblioteca comunale della città un testo di medicina necroscopica. Dalla copertina rosso cupo.
***
Il dolore arriva subito con l’effetto di un ariete calato sullo stomaco.
Candida ha una smorfia così intensa che per un vago istante il suo viso diventa davvero colorato di rosso. Trattiene i conati di vomito e spreme ancora nella bocca il contenuto del tubetto, già quasi terminato.
Mentre una nuova fitta le apre squarci di urla, lo sguardo cade sul certificato medico, aperto come un sottile sudario sui tubetti ancora al suolo.
Il dolore che prova ora è molto più affilato di quella tensione fastidiosa che da qualche mese le fasciava l’addome e che l’aveva spinta a farsi visitare da una ginecologa, in città, perché a Fine Viaggio non c’é una specialista.
E perché non voleva che i suoi genitori sapessero. Troppe volte l’avevano scrutata, in silenzio, con aria di sufficienza, la figlia triste e paranoica fissata con il pallore della pelle.
La dottoressa l’aveva visitata, con tanto di ecografia, e la diagnosi era stata quella di cisti dermoide dell’ovaio destro. Nulla di preoccupante, l’aveva rassicurata, è una formazione benigna che si accresce con lo sviluppo. Da cosa?, aveva voluto sapere lei. La dottoressa aveva allargato le rughe sulla fronte. Da cosa si forma?, aveva insistito lei.
E la risposta era stata una beffa.
***
Candida sta morendo.
Il dolore allo stomaco è lancinante, ma passerà. D’altra parte, sa bene che ingoiare tre tubetti di crema depilatoria nel kit di acidi per “braccia e gambe”, “ascella e bikini”, “mousse depilatoria” non è certo una passeggiata. L’aspetto più difficile è riuscire a non vomitare, ma per ora è brava, forte nella sua decisione.
Lei che desiderava almeno un pelo nero a violare il candore marmoreo della pelle, ha scoperto che la cisti sebacea è un anomalo sviluppo di cellule della cute o ghiandole all’interno di altri tessuti, come appunto il suo ovaio.
O che, spesso, racchiude un folto assembramento di peli.
I morsi che le stanno squarciando lo stomaco la spingono ad urlare ancora, negli echi della nebbia.
A tentoni, cerca un altro tubetto e lo apre.
Poi, tra i veli delle lacrime, abbraccia il terreno vermiglio alla base della collina.
Il colore è tutto concentrato lì, prima della salita verso il cimitero, come la macchia ipostatica del fiume.
Inizia ad ingoiare anche il secondo contenuto e, già sfumata di pensieri, si ricorda che deve solo stare attenta a come adagiarsi al suolo.
Con la faccia in giù.
Così, quando la troveranno, finalmente il suo viso sarà colorato.



atto III: rigor

Salta in ritmi liberi al bordo di quella striscia grigia dove ha scorto movimenti di cibo e si guarda intorno, uno scatto da un lato, uno dall’altro, con un vago senso di allarme portato dagli odori del luogo.
Allora si blocca, il collo allungato in una repentina intuizione.
Prima di vederlo, avverte il verso crescente e ne intuisce la decadenza, ma è ugualmente lesto nel fuggire, perché il predatore è grande, anche se lento nello scatto.
***
- Ma boia – declama l’autista con tono esclamativo di mani battute sul volante.
- E stia attento, no? – raucheggia una voce alle sue spalle – E poi, scusi, cosa voleva, investire quell’uccello? -
Ci riuscissi una volta, pensa l’autista e con gesto volutamente lento, molto lento, riporta la corriera al centro della carreggiata. Non si sa mai, riflette, mentre con la coda dell’occhio scodinzola ancora al bordo della strada.
Carmine Pellegrino guida corriere in quella regione, e anche su e poi giù, in turni di giorno e di notte, festivi compresi.
Lo fa da oltre venti anni e in tutto questo tempo non è mai riuscito ad investire un uccello.
Tra migliaia di chilometri registrati dal suo corpo con fitte al collo e alla schiena e un fastidioso tic che ogni tanto lo porta a serrare la mano destra in uno scatto rapace, una volta è riuscito a mettere sotto persino una volpe.
Ma uccelli, accidenti, quelli mai.
Certo, se non dovesse guidare questi bestioni cigolanti, avrebbe già le sue belle tacche nel taccuino che si porta in giro tra i sudori dei pantaloni, ma così è sempre in netto svantaggio.
- Allora? – echeggia improvvisa un’altra voce al suo lato e per un istante Carmine teme di perdere il controllo del bestione.
- Ehi! – si esibisce la voce trascinata con tanto di proprietaria contro la portiera del lato opposto.
- Mi scusi, signora – dice pronto Carmine mentre l’occhio cade sul pulsante che apre le portiere. Basterebbe un gesto per sbarazzarsi di quella rompicoglioni – Mi ha spaventato, lo sa che non si parla all’autista -
La donna lo osserva con aria di sfida mentre inizia la scalata sul reggimano verso il posto di guida.
- Ma se non fa altro che sbandare da quando siamo in campagna. Lo ammetta, cerca di investire gli uccelli! -
Carmine la annega con uno sguardo liquido, poi finge di stare attento alla strada, un lungo taglio grigio tra verde senza orizzonte.
Gli è bastato un accenno di occhi per conoscere il tipo di donna e per capire che è una di quelle zitelle pronte a spargere acidi tra le parole. Già, è proprio vero che ci si abitua a inquadrare subito le persone quando per anni si accompagnano mandrie di sconosciuti in vagabondaggi tra pascoli da depliant.
È meglio tacere, allora, ma, tanto per essere l’ultimo a chiudere la scena, preme una mano sul clacson.
La corriera emette un verso d’asma e arranca di ghiaia e bitume tra voli di uccelli spaventati.
***
Luciano Ignorato, professore universitario di storia medievale su una carriera senza encomi e demeriti, osserva il panorama che muta forma e colori attraverso il vetro spesso di tracce untuose di pelle e di gocce di pioggia fossilizzate.
Ascolta la corriera sbuffare gas di scarico neri e densi sul pendio e ne immagina il muso contratto nella griglia obliqua simile ad una bocca spalancata su denti serrati, mente ingoia l’asfalto che si sgretola in ghiaia.
- Ch che suc cedee? – sussulta con parole spezzate la donna al fianco del professore.
Lui la guarda obliquo, perplesso dal ritmo della domanda. Poi intuisce.
La signora che lo osserva in attesa, affumicata da un tailleur grigio, non è una balbuziente. Si è solo adeguata ai singhiozzi della corriera sulla ghiaia.
È come sentire la puntina di un giradischi che salta sul vinile, riflette in un impeto di nostalgia, chissà se ha anche il fruscio.
E nel frattempo intuisce che la donna sta aspettando una risposta.
Allora si gira di nuovo verso il finestrino e chiude gli occhi.
Ha deciso di partecipare all’escursione nelle Grotte del Senza Nome per celebrare un addio e in null’altro desidera essere coinvolto se non nella sua gravidanza da lutto.
La sua compagna, spenta di desideri e di vita, lo ha lasciato proprio mentre stavano programmando di visitare le grotte. Cioè, mentre lui stava programmando.
Come già faceva da tempo, lei era limitata soltanto ad annuire con la testa.
Ed ora che è diventata solo un ricordo gonfio di buio.
La corriera sussulta sull’onda di un dosso, i sedili che cigolano all’unisono in un abitacolo di improvvisi silenzi.
Lui, ancora gli occhi chiusi, rivede il suo viso di barba e lacrime sfiorare la guancia della compagna, ne sente persino il ghiaccio steso sulla pelle tra il calore viscoso del sangue. La donna dei suoi anni che se ne è andata senza nemmeno una parola, un biglietto, nulla, se non il segno della fronte aperta dopo il volo dal terzo piano. E, ancora ben stretta in una mano, la piantina del viaggio che lui, solo lui, aveva stabilito.
Nel lago rosso del sangue che avanza, il ricordo scivola sul nome della destinazione. Grotte del Senza Nome, a pochi chilometri dal paese di Fine Viaggio.
E si infrange nella pungente oscurità del dolore.
***
La donna socchiude gli occhi sull’uomo che si è girato verso il finestrino. Attraverso le fessure tra palpebre gonfie tinte di viola, mette a fuoco la sua barba grigia.
Finge di dormire, pensa irritata, e, se potesse, oltre che con lo sguardo, darebbe davvero fuoco a quei peli sparsi tra gli occhialini da intellettualoide maleducato.
Un nuovo singulto della corriera sbalza pensieri, rabbia e occhi nella penombra dei sedili anteriori, dove, accasciati uno sull’altro, giacciono due ragazzi, senza suono e senza movimenti. La donna sussulta, in sincronia con un nuovo, lento cigolio dei sedili.
- Ma – inizia attraverso lo splendore opaco della dentiera.
- Sono così da quando siamo partiti -
Un altro sussulto risucchia all’interno della donna il resto delle parole e, per poco, persino la dentiera.
- Oh, mi scusi – si affretta ad aggiungere l’uomo seduto al suo fianco, nell’altra fila dei sedili – Non volevo spaventarla – sorriso, largo, bello – Mi chiamo Guglielmo Rigori – la mano si stende oltre lo spazio che li separa. La donna socchiude ancora gli occhi e ne osserva le dita lunghe, ben curate, il polso sottile.
- Mi scusi lei – borbotta allora senza ricambiare il gesto – Ero pensierosa – fa una pausa, alla ricerca di qualcosa che manca – Oh, io sono Ermenegilda Conti -
L’uomo ritira la mano, piano, come in attesa di un ripensamento di lei, ma il sorriso rimane.
- Dicevo di quei due giovani – precisa – Dormono uno contro l’altro da quando siamo partiti – poi sussurra un accenno di risata – Saranno mica morti? -
- Oh, beh – inizia Ermengilda Conti portando di nuovo lo sguardo sui due putti teneramente adagiati nei sedili davanti. Nemmeno si accorge che nel frattempo le labbra si tendono in una smorfia di disapprovazione – Non credo mica che siano morti – No, aggiunge con pensieri taglienti, magari è molto peggio, magari sono dei deviati, dei, come si dice, uominisessuali, ecco.
- No, certo – echeggia già lontano nella sua attenzione il signor Rigori e la conversazione, quella sì, muore.
Ermenegilda Conti si scosta di pensieri come poco prima è stata allontanata dall’uomo seduto al suo fianco e serra ancora di più le palpebre.
Si trova da tre ore in questa corriera sgangherata, tra vicini maleducati o melliflui e ragazzi ambigui, e già desidera essere sulla strada del ritorno, che le Grotte del Senza Nome vadano pure al diavolo, visto che proprio da lui, tra l’altro, traggono il nome.
Non fosse per la vincita ai punti della tessera, mica ci sarebbe andata, lei, a visitare quei luoghi umidi e bui. Sai cosa le importa se lì si trovano i dipinti su roccia del diavolo, il Senza Nome.
Interessanti per lo stato di conservazione, le aveva declamato il direttore del supermercato dove aveva vinto il viaggio, e perché si tratta dei primi dipinti di Satana, risalenti al secolo undicesimo, pensi un po’, quando ancora era raffigurato in modo angelico e non bestiale, come dovrebbe essere, sia chiaro che non voglio polemizzare, aveva concluso quindi in un solo respiro. E le aveva dedicato un sorriso di soddisfazione così largo da spingerla ad imitarlo.
Ermenegilda Conti aveva rifiutato una stretta di mano. Ma il biglietto, quello sì, lo aveva accettato. Viaggio andata-ritorno, comprensivo di menu turistico, aveva letto mentre pensava, lei davvero soddisfatta, all’invidia che avrebbe provato la sua vicina, da anni rivale nella raccolta punti.
Ed ora già attende il momento di essere a casa, per sbirciarne l’espressione risentita.
Le palpebre si chiudono del tutto per permetterle di vedere solo il sapore della vittoria.
Muoviti, ordina secca alla corriera.
***
Il predatore avanza lento, troppo lento per essere una vera minaccia. Però con il suo verso e la sua scia di odori sgradevoli, turba l’equilibrio del territorio.
Allora la colonia si alza in volo dagli alberi nidificati e ne segue attenta i movimenti pesanti, che creano nuvole fragili dove l’erba è tagliata di grigio.
***
- Ma boia- si rinnova Carmine Pellegrino, questa volta con un sussurro, quando scorge gli uccelli che sfrecciano davanti al parabrezza. Allora, per non dichiararsi impotente, aziona il tergicristralli con un gesto nervoso.
La mano destra si serra un istante di troppo sulla leva, nonostante il suo sforzo per liberare la presa.
- Ma boia, ma boia, ma boia – continua allora, anche quando ha ripreso il controllo. Quel tic lo sorprende sempre, perché ogni volta lui si dice che deve essere per forza l’ultimo, che in realtà non ha problemi.
Non è preoccupato per la sua salute, ma per il lavoro. Per questo, nessuno della ditta ne è al corrente.
Con un rapido salto dello sguardo nello specchietto retrovisore appeso sopra la sua testa, si accerta che i passeggeri della corriera non si siano accorti di nulla.
Vede volti con occhi chiusi, o persi nel panorama che sta diventando polvere sollevata sulla ghiaia.
Allora si dimentica della mano e torna a scrutare il cielo, alla ricerca di vittime.
Il vetro del parabrezza geme sotto la carezza ruvida dei tergicristalli e infrange il silenzio del paesaggio ovattato di grigio.
***
- Ma che razza di nome – borbotta Ermenegilda seguendo con gli occhi il cartello sorto improvvisamente dalla nebbia – Come si fa a chiamare un paese Fine Viaggio? -
L’uomo al suo fianco finge di svegliarsi e la guarda con un’espressione così piena da metterla vagamente a disagio.
- Fine Viaggio – ripete allora, un po’ per rompere quello sguardo senza parole, un po’ per rimarcare il suo disappunto.
L’uomo continua ad osservarla. E non parla.
- Beh, almeno significa che stiamo arrivando alle Grotte del Senza Nome – le viene in aiuto la voce allegra del signor Rigori – Lo zoppo -
- Prego? – si gira lei in uno scatto sofferto di artrosi.
Guglielmo Rigori esclama gli occhi nei suoi, forse sorpreso dal gesto repentino, forse spiazzato dal tono duro della domanda.
- Oh, beh – si affretta a rispondere – Il diavolo è raffigurato con ali angeliche e con un bel viso, ma ha una gamba più corta dell’altra, cioè – si schiarisce la voce e si muove nervoso sul sedile – volevo dire che nei dipinti delle Grotte è stato raffigurato così -
- Oh, questa poi, e perché mai? -
- Ecco – Rigori si stringe nelle spalle, come a proteggersi dallo sguardo ostile della vicina. Poi si volta verso il finestrino, fingendo di cercare una risposta.
In realtà non vuole lasciare traccia dei suoi pensieri. Poco fa, in sottofondo, ha sentito la voce dell’autista ripetere “boia boia”, un’espressione che gli ha richiamato alla mente quella ruota del treno, che, come una lama spinta da un boia metallico, gli ha decapitato una gamba.
È accaduto pochi anni prima e da allora in ogni angolo della sua nuova vita ha continuato a sentire un dolore lancinante, dove dovrebbe esserci la gamba e invece c’è il vuoto.
Sindrome dell’arto fantasma, la chiamano i medici, ma per lui è un’ossessione, che ha trovato un po’ di conforto solo nella speranza della fede.
Così, quando la televisione aveva trasmesso il servizio sulle Grotte del Senza Nome, nei dintorni del paese di Fine Viaggio, era stato ghermito da uno sconforto senza ritorno.
In un bianco e nero sgranato di penombre, lo schermo aveva mostrato alcune dei dipinti del Senza Nome, così chiamato dagli abitanti della zona, in un negativo che doveva servire ad incutere più timore di ogni suono di malvagità.
Le immagini si erano soffermate non solo sul volto simmetrico e piacevole con cui era raffigurato il diavolo fino al secolo undicesimo, ma anche sulle sue gambe. Una più corta dell’altra.
Una voce femminile fuori campo aveva spiegato in tono lento, tanto da sembrare annoiato, che nella tradizione la zoppia rappresentava il rapporto con l’aldilà, con la discesa agli inferi in particolare, per cui chi era a contatto con gli abissi dei demoni veniva contrassegnato da questa menomazione.
“Menomazione”, proprio così aveva cantilenato la voce fuori campo.
E Guglielmo Rigori aveva finalmente capito che la sua vita, vuota come tutto quel nuovo spazio intorno al suo corpo, era una maledizione priva di conforto.
Allora aveva indossato la protesi, un po’ più corta della gamba superstite, e zoppicando si era rifugiato nella preghiera della piccola chiesa del quartiere. Infine, con un sorriso ben disegnato a mascherare pensieri di morte, era andato in un’agenzia ad acquistare un biglietto per le Grotte del Senza Nome.
Solo andata, aveva precisato alla ragazza.
Lei aveva annuito di distaccata professionalità.
***
Luciano Ignorato scorge le mura che serpeggiano sulla collina del paese e si desta dal letargo di ricordi e dolore con un guizzo di attenzione.
- Cimitero di Solitudine – mormora con il dito che si appoggia al finestrino, deciso, quasi volesse oltrepassarlo per meglio indicare quanto sta scoprendo.
- Ah, ben svegliato – sibila al suo fianco la donna mummificata in tailleur grigio.
Questa volta lui le rivolge un sorriso e, quando crede di scorgere tra le palpebre gonfie un’espressione perplessa, capisce di avere ottenuto il suo scopo.
- Mi scusi, ha detto che lassù c’è un cimitero? – chiede l’uomo seduto nell’altra fila, sporgendosi un poco, in modo che il professor Ignorato ne scorga il viso acceso da un sorriso cordiale.
Per un attimo si sente riempire dallo slancio dell’insegnamento e già si ascolta mentre spiega con fervore a questi alunni stagionati la storia dei fondatori del paese e del cimitero, messi al rogo dalle milizie papaline.
Poi la bocca si riempie di amaro e annega le parole.
Proprio la passione per l’insegnamento della storia medievale lo aveva allontanato a poco a poco dai desideri della sua compagna.
Sta per smarrirsi di nuovo nella selva dei ricordi, quando lo sguardo sfiora ancora quello della donna al suo fianco.
Ha recuperato terreno ed è di nuovo acido, come un rimprovero che erode senza appello le sue disattenzioni di coppia.
- Bene – inizia allora con tono sicuro e alto, tanto che attraverso il lungo specchietto che scende obliquo sopra l’autista, nota che anche quest’ultimo distoglie l’attenzione dalla strada e lo fissa – Vi racconterò un breve aneddoto su questo posto -
La corriera emette un gemito di motore spezzato mentre attraverso la nebbia affronta l’intuizione di una curva, sussulta sulle onde della ghiaia, poi prosegue quieta, anche lei come in ascolto.
***
- Nel Concilio di Trento, svoltosi dal 1545 al 1563, si stabilì che tutti i sacerdoti curatori di anime, avrebbero dovuto trascrivere gli atti di battesimo, matrimonio e morte, pena la scomunica. Dunque fino all’unità di Italia, l’anagrafe è stata compito dei parroci e la disposizione riguardò anche il paese che stiamo attraversando, Fine Viaggio -
- Ma perché ha un nome così assurdo? – insiste Ermenegilda Conti.
Il professore nemmeno la guarda.
Con la mente sta dando l’ultima lezione alla sua compagna, quella che avrebbe voluto spiegarle con la cartina topografica spalancata sui dintorni deserti del paese, prima che venissero inondati dal sangue di lei.
- Agli inizi del diciannovesimo secolo, quando con l’editto napoleonico molti dei cimiteri vennero ristrutturati, l’apertura di alcune bare del Cimitero di Solitudine mostrò una realtà raccapricciante. Gli scheletri non erano in posizione di riposo, ma piegati su se stessi, con le ultime falangi delle dita spezzate. E sui coperchi delle bare erano scolpiti segni rigati di unghie -
- Insomma –protesta Ermenegilda, mentre prende le distanze da quelle parole scivolando verso l’altra fila.
- Vuole dire che – Guglielmo Rigori si sporge invece ancora di più verso il professore, un sorriso più ampio a disegnare nuove rughe sul volto.
- I preti erano stati troppo frettolosi a consegnare le anime a Dio. Non sapevano interpretare i veri segni della morte, e forse nemmeno se ne curavano. Avevano stabilito decessi tra uomini e donne e bambini affetti da stati catatonici come il tifo –
Per qualche attimo sul significato delle parole crolla un silenzio pesante. Qualche attimo in cui gli sguardi di questi viaggiatori si perdono smarriti oltre i finestrini, nella nebbia e su, lungo le pareti che celano il cimitero della collina.
- Allora c’era molta superstizione e scarsa conoscenza delle malattie. Tuttavia, i casi di funerali prematuri non erano così frequenti come temeva la gente – Luciano Ignorato chiude ancora gli occhi e con un lungo sospiro lascia scivolare tutto quanto ha ancora da dire – Ma sembra che il piccolo cimitero che state osservando lassù, in questo paese sconosciuto, racchiuda il triste primato di seppelliti vivi -
Come era la mia donna con me, sussurra tra gli echi vuoti del passato, mentre già svanisce nei ricordi.
Ermengilda Conti e Guglielmo Rigori rimangono sospesi a fissarlo per un po’, poi si perdono oltre i finestrini.
- É la testa delle persone che non funziona – bofonchia la donna – Bastava attendere un po’ prima di seppellire, dico io – sbuffa un alito di disapprovazione che raggiunge il viso distante del professore - Sono rigidi nelle conoscenze e nelle aperture mentali e guarda cosa combinano – lancia un’altra occhiata severa ai due ragazzi che sui sedili davanti continuano a dormire uno accanto all’altro – La rigidità mentale nella storia e nella vita ha portato solo guai – sentenzia infine con una smorfia di disgusto.
- La rigidità – ripete con voce distante Guglielmo Rigori e pensa alla protesi della sua gamba – La rigidità – dice ancora e pensa al diavolo zoppo delle Grotte Senza Nome. Poi anche lui chiude gli occhi – La rigidità è anche uno dei segni di morte sicura, vero? – chiede al silenzio.
La corriera risponde in un coro sofferto di cigolii mentre affronta un’altra curva lungo il dirupo.
***
Il predatore si sta avvicinando troppo ai nidi e anche se è lento, il suo odore pesante e il suo verso spezzato non rassicurano la colonia. Dopo un rapido scambio di segnali, i maschi adulti scendono verso il suolo, in gruppo, per tentare di fargli cambiare percorso.
***
- Ma boia - si rinnova Carmine Pellegrino e cerca di scrollarsi di dosso il racconto di quel passeggero.
Lo scruta per un’ultima volta attraverso lo specchietto e conclude che tanto a posto non deve essere se ha ripreso a dormire come se niente fosse, mentre lui si sente attraversare da un fruscio di tensione.
Ora desidera allontanarsi al più presto da quel luogo di nebbia e di morte e preme un po’ di più sull’acceleratore, la mano destra contratta sul cambio.
Quando torna a guardare davanti a se, l’ombra nera dello stormo di uccelli che si apre sul parabrezza lo congela in un’espressione di assoluto stupore.
- Ma boiaaaa – ripete ancora, la mano catturata dal tic e contratta sul cambio fino a frantumare ingranaggi usurati e falangi artrosiche.
Tlank!, protesta secca la corriera, la lunga leva del cambio ormai bloccata e rigida.
E con un sussulto incontrollato di agonia, si tuffa nel baratro.
***
Dopo il boato, le fiamme, il fumo, qualcuno dei più coraggiosi tra gli uccelli si è avvicinato al predatore morto.
Solo un rapido sbattere d’ali, uno sguardo appena incuriosito e subito si è allontanato alla ricerca di cibo o di nuovi spazi.
Il predatore ormai non è più pericoloso.
E quegli strani tronchi neri usciti dal suo corpo, hanno un odore troppo pregno di morte per essere abitati.
Anche se a saltarci sopra sembrano rigidi.

*racconto in tre atti presente nell’antologia “Città di Solitudine”.

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