domenica 11 novembre 2007

Incipit tratto dal romanzo "Quando piove" di Giovanni Sicuranza

atto primo - intorno ai primi eventi -

Piove.
A dirla, è proprio una parola breve.
Scivola veloce dalla bocca e sfuma nel distratto assenso di chi ascolta.
Ma a volte è così concreta. Pesante.
Come la giornata grigia, lenta, che si è addormentata sulla Villa.
Mi giro e la guardo, la Villa.
Per chi la conosce di fama, è una fulgida casa di riposo, immersa nel verde, a pochi chilometri dalla città, facilmente raggiungibile in auto. Soprattutto per chi, oltre all’auto, ha intenzione di parcheggiare alla Villa il proprio vecchio.
Con la differenza che mentre l’auto rimane giusto il tempo di qualche firma nei moduli di accettazione, il nonnino entra nella Villa finché morte non li separi. Morte di lui, si intende.
Ascolto gocce di pioggia confuse sulla veranda.
Per me la Villa è la facciata abbellita del traguardo di chi ha corso tutta la vita ed è rimasto senza fiato. Solo.
Ha un parco enorme, ben vestito di alberi, fiori e di un laghetto artificiale dove è addirittura possibile pescare pesci forniti ogni mese dalla cortese clemenza del Direttore.
Ed io, ora, qui, nello stagno di una veranda inzuppata di pioggia, mi sento parte di questo abito.
Vedo un’ombra gobba dipingersi veloce tra le tende che cadono immobili lungo le vetrate antistanti la veranda e svanire subito oltre le travi di legno. Chiudo gli occhi, assopendo pensieri gonfi di solitudine, poi appoggio le mani sulla balaustra bagnata, fredda. E conto mentalmente.
Uno
il gracidare secco della maniglia della porta a vetri che si abbassa
due
le porte a vetri che si aprono come una bocca famelica spinta dal vento
tre
- Ma è rincoglionito del tutto? Venga subito dentro prima che mi arrabbi più di questo temporale!
E, come da facile previsione, la melodica voce di suor Adelaide che mi invita a rientrare.
Mi volto verso di lei e non posso fare a meno di sorridere. Una cornacchia nera che agita nervosa le ali mentre il vento gioca con il suo abito funereo sullo sfondo delle luci stanche del salone. Rientro concedendomi il gusto della vittoria con passi lenti che se possibile rendono ancora più nervosa suor Adelaide. A capo chino passo sotto le forche caudine delle porte a vetri, accompagnato dallo sguardo cattivo e strabico della nostra amata suora. Le porte si chiudono alle mie spalle e il tamburo della pioggia diventa un sottofondo veloce.
- Bella mossa, bravo, complimenti! – suor Adelaide mi sbarra la strada in cameratesca posizione, mani puntate a pugno sui fianchi e petto in fuori. Mi chiedo se farà anche il saluto romano – Adesso stia fermo lì, che è fradicio dalla testa ai piedi, non vede?
- Veramente più che vedere, lo sento – mi viene fuori.
- Lo sente? Beh, lei è un incosciente! Vuole una polmonite? Non ricorda come si era ammalato il suo amico Santino poco prima di morire? Ora aspetti qui che le faccio avere un asciugamano e dei vestiti nuovi!
Le ultime parole volano nell’eco del salone mentre suor Adelaide sta già sparendo dietro una parete, verso i corridoi. Solo allora mi osservo dalla pancia in giù e vedo i miei pantaloni di tessuto acrilico e cotone beige (ma che cavolo di nome è beige?) che abbracciano stretti e fradici le gambe; le scarpe da ginnastica sono diventate una piscina al coperto per i miei piedi gelati. Poi sollevo lo sguardo e mi guardo intorno.
Il salone è ampio, arredato senza anima, al centro le tavole rotonde per il nostro cibo quotidiano, amen. Davanti a me, una statua di donna fa’ intuire un seno pieno, se non fosse per le braccia incrociate al petto come in un gesto di ripensamento. A volte le mie fantasie erotiche si spingono a chiedermi come saranno quelle tette sotto le braccia; un giorno potrei staccarle per scoprirlo, ma qualcosa mi dice che l’artista non avrebbe modellato invitanti e turgidi capezzoli per poi nasconderli in quel modo; il volto è chino e leggermente inclinato in una misteriosa tristezza che guarda lontano e che non aiuta certo l’umore degli ospiti della Villa.
A sorpresa vengo catturato dal planare silenzioso di un grande asciugamano sui capelli e sulle spalle, che mi fa’ gorgogliare in un suono strozzato.
- Non si agiti, sono solo io – mi svela compiaciuto un inserviente alto e grosso di cui non ricordo il nome, ma che è sempre meglio della visione di suor Adelaide.
Mi cingo le spalle, in un gesto istintivo di protezione e forse anche per dimostrargli che non ho nessuna intenzione di agitarmi. Lui, che avrà almeno trenta anni meno di me, comincia ad asciugare paterno i miei capelli pesanti.
Penso di essere spiritoso, esordendo con una battuta del tipo “visto che almeno i capelli ci sono ancora tutti?” e sperando che lui capisca che il paragone è da intendersi con i miei neuroni, ma la mandibola si apre silenziosa e chino il capo sopraffatto della vitalità dei suoi badili con dita.
La verità è che questa battuta autoironica forse lo farebbe sorridere per gentilezza, ma in me ha già lasciato un gusto amaro.
Mi giro verso la porta a vetri del salone, nera; nessun altro colore se non i bagliori gialli e blu del temporale, come se fuori il mondo fosse senza forma e vita.
E forse per noi ospiti della Villa è già così. Forse se tornassi fuori, mi aspetterebbe un buio gelido e senza confini.
- Certo che ci vorrebbe un phon per fare meglio e comunque deve cambiarsi – annuncia professionalmente l’inserviente e allo stesso tempo smette di usurarmi la testa con l’asciugamano. Si allontana da me di un paio di passi e mi osserva perplesso, come valutando un’opera non ben riuscita.
Forse pensa di mettermi un fiocco azzurro sui capelli, penso e un sorriso sorprende le mie labbra. Lui mi risponde allo stesso modo, meccanicamente, e continua a scuotere la testa. Ha una grossa voglia sul volto, sembra la mappa geografica dell’Africa stampata sulla regione orbitaria sinistra.
Beh, sì, anche quando mi perdo con me stesso ho espressioni che mi ricordano un altro uomo.
- Un tempo ero un medico – non so perché mi esce così, frase piena di ragnatele, che mi sorprende certo più di quanto non accada al mio ascoltatore, il quale arretra di un altro passo e aggrotta le ciglia, deformando i profili dell’Africa. O forse sono io ad essere arretrato di un passo, stupito dal rinculo dell’improvvisa deflagrazione del mio passato.
Il tutto dura lo spazio di un fulmine che tinge di giallo le pareti del salone e subito ci ripensa lasciandoci soli con la luce blu dei lampadari.
E forse accade solo nella mia fantasia, come le figure dei morti che ho visto danzare alla penombra della veranda poco prima che suor Adelaide mi fagocitasse nella Villa.
L’inserviente sorride ancora, ma a me sembra che le sue pupille si stiano restringendo, come un predatore in contemplazione della preda, anche se non ha abbandonato il tono cordiale, quasi paterno.
- Lo so che è un medico, dottor Salina.
Mi sta prendendo in giro o accenna a un piccolo inchino?
- Mi scusi – mormoro e lasciandolo fotografato al centro del salone, senza altro aggiungere, mi allontano verso i piani superiori accompagnato dal “ciaf ciaf” delle mie scarpe piene d’acqua.
***
La porta della mia stanza cigola da tre anni.
All'inizio lo facevo notare, perché quel suono mi sembrava una beffa della mia prigionia alla Villa; oggi, nel disinteresse degli inservienti, è diventato il benvenuto nel mondo silenzioso delle mie pareti.
Questa sera sembra lamentarsi con più tenacia, il suono lungo che graffia il corridoio, mentre mi rinchiudo nella camera e con gesti lenti mi libero di scarpe e pantaloni che atterrano confusi nel bagno.
Intanto sento già le cordiali imprecazioni di suor Adelaide quando domani, a colazione, mi illustrerà puntigliosamente quale maleducato-infantile-irresponsabile io sia stato a lasciare impronte d'acqua e fango dal salone alla mia stanza al primo piano. Sorrido, poteva andarle peggio se solo mi avessero alloggiato ai piani superiori, dal secondo al terzo.
Ma io ero un medico, soprattutto un medico dal conto corrente pasciuto e senza eredi, per cui mi è toccata la beneficenza di una stanza al primo piano, dove si trovano anche l'infermeria, un bar, la sala biliardo e dove mi si risparmia la lunga attesa di un ascensore silenzioso e pesante come le giornate alla Villa, o la tortura di affrontare le scalinate fino ai piani superiori.
Insomma, sono ospite in un luogo d'elite.
Mi siedo sul letto e inizio a liberarmi anche dalla felpa fradicia d’acqua, diventata blu scuro come una notte senza lampioni.
La ascolto atterrare in un tonfo umido, proprio all'ingresso del bagno, come indecisa sul da farsi.
Domani qualcuno pulirà il pavimento e laverà i miei vestiti fradici e, chissà, imprecherà contro questo vecchio maleducato, anche se non credo con la stessa veemenza di suor Adelaide. Il suo ph acido è irraggiungibile.
Nel frattempo questa notte il vecchio ascolterà il tuono e la pioggia al buio e i suoi pensieri saranno lontani. Solitari.
Dalla scrivania illuminata da tratti di lampi, l'immagine fotografata del mio cane che mi fissa con aria interrogativa da quasi venti anni.
I nostri occhi che si ritrovano, oltre la morte.
Chissà perché proprio stasera mi è uscita la frase con l'inserviente, gli chiedo di rimando, tu lo sai Blues?
Blues non lo sa o forse non gli interessa il mio dilemma esistenziale, immerso in un immutabile paesaggio di verde collinare, anche se da tempo i suoi resti mortali concimano una terra ormai dimenticata.
Mi sdraio sul letto, con il mio pigiama a strisce verticali come la caricatura della divisa di un carcerato e, mentre mi muovo, mi accorgo che questa volta l'aumento dell'umidità non ha risvegliato il dolore delle articolazioni.
Buonanotte Blues, mormoro, anche se so che per me non lo sarà, e mi giro sul fianco verso la finestra ad osservare il colore freddo dei fulmini, che esplodono ancora decisi intorno alla Villa.
***
E invece mi sono addormentato quasi subito, una parte di me lo capisce bene mentre corro nel freddo, lungo un grigio che non capisco.
Marmo sopra la mia testa, marmo ai miei lati – faccia mediale e laterale, dottore – marmo che calpesto con passi veloci e incerti.
Non ho fiato, ma corro, non ho battito, ma sento il sangue pulsare prepotente nelle arterie.
Se potessi provare paura, sarei terrorizzato nel realizzare che sono un morto che corre.
Che corre nel corridoio di un cimitero.
Marmo intorno a me. E lapidi.
Ma cavolo, questo è un sogno, vero Blues?
Niente Blues, niente suono a parte il ritmico pulsare del sangue nelle arterie, viscoso e arrugginito, diverso dal battito cardiaco.
Corro, ma il marmo non finisce e nell’oscurità intravedo il profilo delle lapidi e istantanee di defunti.
Dovrei fermarmi, non ha mica senso questa corsa che non porta a nulla, ma ecco l’imprevisto. Tutto sommato si tratta proprio di un incubo e alle mie spalle qualcuno-qualcosa mi respira addosso, in attesa di prendermi con se.
E corro e non mi volto.
Ho paura e la pulsazione vischiosa nelle mie arterie ha un singulto e gorgoglia sorpresa. Corro e corro capendo che la distanza tra me e quel qualcuno-qualcosa non aumenta e non diminuisce, che se solo esito un istante ora posso anche già essere un morto che cammina, ma preso dal mio inseguitore sarò carne da macello e basta, corro fino a quando inciampo nel nulla, nella piena tradizione di un film horror o nel peggiore dei finali di un incubo, e cado al suolo senza avvertire dolore, ma solo uno splash secco sul marmo e una mano-un artiglio prontamente mi afferra una spalla.
Chiudi gli occhi, mi intima veloce la paura, ma ai piani bassi nessuno risponde al comando e invece mi giro consapevole per un istante che il suono vischioso del mio sangue è sparito.
L’assalitore è chino sopra di me, ma non fa altro che lasciare la mano sulla mia spalla e guardarmi. Immobile. Socchiudo gli occhi per metterlo a fuoco nella oscurità ed ora sì, sento il galoppo del mio cuore impegnato in una corsa ad ostacoli.
Sono di nuovo vivo? Io forse sì, ma temo non chi mi è davanti.
"Santino"
"Buonanotte Edoardo", esordisce il mio inseguitore con un piccolo cenno del capo. La voce è sussurrata e cavernosa, ma riconosco bene l’accento toscano che ha accompagnato per due anni le nostre conversazioni intorno ai tavoli della Villa.
"Santino"
"E fin qui lo avevamo capito", ma sta sorridendo?
Senza rendermene davvero conto devo essere indietreggiato con le mani e i piedi sul marmo.
Lui esita un attimo, poi lascia la presa sulla mia spalla e si osserva la mano come se non la riconoscesse.
"Scusa, sai, ma sei tu che hai cominciato a correre, io volevo solo salutarti", gira la mano all’altezza dei suoi occhi, prima in un senso, poi in un altro e infine la lascia cadere nell’unico modo in cui immagino possa fare, a peso morto
"Morto, ecco, ma non sono mica ancora abituato; a volte facciamo fatica a capire e solo la carne che diventa putrida ricorda che non possiamo presentarci a voi. Scusa Edoardo, non volevo spaventarti".
Incredibile, ora mi sento in colpa e quasi mi vergogno della mia corsa. Non riesco a parlare, ma mi avvicino un istante a lui e nella penombra ho l’impressione di carne che si muove sul suo volto, come onde grigiastre sulla superficie di un mare di morte.
Poi realizzo, mentre Santino lentamente si alza in piedi. Larve, insetti, vermi che esplorano e si nutrono di lui.
"Vedi, tutte le notti ci troviamo un po’ più in là e in altri angoli del cimitero. Non è male nemmeno questa nuova brigata, via! Certo, sono qui da … da …", si passa la mano tra i capelli e quando la ritrae stringe una piccola forma allungata che si muove frenetica. Lui la rimette tra i capelli senza degnarla di uno sguardo.
Si può vomitare in un incubo, vero?
"Da quando sono morto, Edoardo?"
"Da … Santino …"
"Ma che piattola, a domanda rispondi … Ricordi il nostro gioco, quello della nostra brigata?", fa lui con un tono allegro che chissà perché aumenta il battito del mio cuore, "A domanda rispondi e via con argomenti provocanti, risposte irriverenti e precise a domande secche!"
"Da una settimana", lo informo solerte e il resto mi esce senza pensarci "Ma io ti ho visto anche questa sera"
Sembra esitare un istante, sembra quasi che mentre esita la sua immagine diventi un po' sfuocata. Gira velocemente la testa alle sue spalle ed io cerco di seguire il suo sguardo, ma c’è solo oscurità nera davanti a me. Si china ancora su di me, accovacciandosi, ma per fortuna almeno questa volta non mi tocca. Per evitare di metterlo a fuoco, alzo lo sguardo dove in teoria dovrebbe esserci il soffitto e lui forse si rende conto che il mio disagio è indeciso se diventare terrore o panico, perché di nuovo si alza.
"Il marmo è freddo, il marmo è grigio, il marmo è ovunque", mormora "E allora non sempre rimaniamo qui", le sue parole cadono pesanti sulla mia testa.
Un brivido lungo la schiena, sì, mi sa proprio che ora sono vivo. Io.
Lui mi volta le spalle e alza il tono della voce "Ma tu sai bene, vero Edoardo, sai bene che noi morti è meglio vederci solo in un modo. Lo sai, no?"
È un rimprovero. O sono io che lo percepisco così?
In effetti scuote la testa come deluso dal mio silenzio ed è allora, in questo gesto, che lo vedo sfumare all'interno di una lapide, un cenno del capo fuori, nell’aria cimiteriale, un altro dentro il marmo della tomba.
D'accordo, è solo un incubo, mi ricorda una voce tremula in un angolo della testa. Sarà, ma è troppo, risponde il resto dei neuroni in coro.
E urlo.
***
- No!
Chiude gli occhi anche se sa che non dovrebbe farlo. Vorrebbe anche mordersi le labbra, ma questo proprio si vieta di farlo. Troppi segni che mostrerebbero la sua debolezza. E dall'oscurità sente il tonfo secco di un pugno battuto sulla scrivania.
Segnale di pericolo, apertura degli occhi, pronta alla reazione.
- No! - le ripete l'uomo dall'altra parte della scrivania, mentre la sua pancia smisurata ha un sussulto scoordinato, che a lei sembra un accenno di danza.
E' solo la tua ansia, pensa lei veloce veloce, non c'è pericolo, è solo la tua ansia.
L'uomo ha di nuovo il pugno a mezz'aria, il grande ovale della sua pancia fermo come in attesa del prossimo colpo sulla scrivania. Invece il pugno diventa mano e plana sulla scrivania, mentre il resto del corpo si affloscia grasso sulla sedia.
Lei si guarda nervosamente intorno e lascia cadere lo sguardo sulla fotografia che ritrae il capo panciuto accanto a un ragazzo minuto dall'aria persa e malata tra le rovine di un tempio greco. Il figlio durante il tumore, già; meglio non mostrarsi troppo interessata a quella foto, non oggi, no. Allora china il capo nelle regole della gerarchia e si perde ad osservare la lenta deriva di un portapenne colore ghiaccio lungo il bordo della scrivania. Lo ha visto avvicinarsi pericolosamente all’orizzonte del baratro ad ogni pugno dell’uomo, ma per ora forse è salvo.
- Siediti - il tono dell’uomo è diventato calmo e conciliante, anche se lei sa bene che l’oceano sotto quel placido suono è un pericolo di scogli taglienti. Comunque si siede veloce su una delle due sedie dall’altro confine della scrivania, senza distogliere lo sguardo dal portapenne.
La pausa è lunga e lei non osa spezzarla, perché la sta sfruttando per ritrovare un po' di calma e sicurezza, anche se forse sarebbe meglio una pausa di qualche anno.
Poi in un angolo della sua visuale intuisce il gesto dell’uomo che appoggia i gomiti sulla scrivania e lo sente sospirare.
Chissà quali sono ora i movimenti della sua grande pancia, si sorprende a pensare, e così capisce che piano forse sta riuscendo a combattere lo sconforto della reazione di lui.
E allora si ascolta mentre si decide a parlare, anche se con parole caute.
- Professore, il quesito che mi è stato posto dal Giudice delle indagini preliminari
Lui la interrompe subito, di nuovo, con un semplice cenno della mano e lei sente il suo sguardo duro scannerizzarle il volto.
- Puoi guardarmi? – le chiede, sempre in tono conciliante, mentre in realtà le dice “guardami!”, e allora lei solleva il viso pesante e si costringe finalmente a guardarlo negli occhi.
Occhi scuri, profondi. Due buchi neri al centro di una galassia di potere.
Lui sorride compiaciuto e si appoggia allo schienale, che cigola indeciso sotto il peso della pancia.
I capelli bianchi e folti volano senza legge sul cranio appuntito. Le mani grandi e forti che tante volte lei ha visto muoversi sul lavoro con eleganza e precisione inaspettate riposano sul promontorio della pancia, che si abbassa e si alza al ritmo di un respiro che le sembra un po’ troppo veloce, nonostante l’impressione di calma che l’uomo tenta ora di comunicarle.
- Lo sai da quanto tempo sono professore in questo Istituto?
Lei scuote la testa, non lo ha mai saputo di preciso, c’è chi mormora quindici anni, chi venti.
- Sono ventitre anni, sempre qui, immerso nella realtà che cambiava, sempre qui - pausa ad effetto – E sono stato direttore per due volte di seguito quando ancora ti masturbavi mentalmente sui testi di medicina. Ed ora di nuovo. E ancora quando ci saranno le prossime elezioni – si interrompe. A lei sembra opportuno annuire subito con la testa. Ma lui non continua e questo la disorienta di nuovo.
Si sporge in avanti come per invitarlo a parlare e solo in quel gesto si rende conto che l'ampia scollatura della sua camicia è un invito rotondo e florido per ogni sguardo maschile, anche per quello di un direttore che vive per il suo lavoro e che dalla morte del figlio non si è più mostrato interessato a rapporti emotivi.
Veramente nemmeno quando aveva famiglia sembrava accorgersene, le echeggia nella mente la voce fuori luogo della segretaria, registrata in ripetuti pettegolezzi, il direttore vive solo pensando alla sua posizione e al nome dell’Istituto di Medicina Legale.
A riprova che a volte a sparlare del passato si intuisce anche il presente, lui non sta assorbendo le sue tette con lo sguardo, no, ha preso in mano dei fogli appena stampati e li sfoglia distrattamente scuotendo la testa.
- No – ripete, almeno questa volta senza ira – Queste descrizioni le devi omettere. E ne avevamo già parlato, mi sembra – l’ultima frase indossa il velo di un blando rimprovero.
Lei prende fiato.
- Direttore, mi scusi, ma i segni ci sono, anche le fotografie lo dimostrano.
Di nuovo quel gesto deciso con la mano ad interromperla.
Inutile, stupida a non capirlo ancora, non si sta svolgendo una discussione, per quanto sgradevole, si stanno semplicemente impartendo direttive senza appello.
Lui le allunga i fogli con uno sbuffo immediato quando la pancia non trova più spazio tra le sedia e la scrivania, poi si accascia di nuovo nella posizione rilassata sullo schienale.
E continua a fissarla. Non sulle tette, ma negli occhi.
Chissà come mi vede, pensa la donna irrazionalmente e si sente arrossire. Lui sembra non farci caso, ma lei sa bene che registra ogni particolare dell’ambiente in cui si muove e cerca di sfruttarlo a suo vantaggio. Questo non è solo un pettegolezzo da segreteria, ma un dato di fatto che ha avuto modo di verificare personalmente nel loro rapporto professionale.
Infatti il direttore ricomincia a parlare, sempre con tono lento e bonario, per darle l'impressione di volerla mettere a suo agio.
- Dottoressa Laghi, il Giudice ha rivolto al nostro Istituto di Medicina Legale i quesiti classici sulla morte di questo … questo tizio – continua senza chiederle il nome del tizio in questione – ovvero epoca e causa del decesso. E il caso è così lampante che non ha nemmeno richiesto un’autopsia, ma solo un esame esterno.
Questo accade anche troppo spesso, precisa lei in un sussulto di testardaggine, ma spetta a noi avvisare il Giudice se ci sono i presupposti per procedere ad un’autopsia, cosa che comunque dovremmo sempre fare, credo.
Lui non la ascolta, anche perché le parole sono solo nella mente della dottoressa.
- Precipitazione da media altezza a scopo suicidario. Causa della morte: fratture delle vertebre cervicali multiple, ben deducibili dalla motilità preternaturale del collo; inoltre scoppio della scatola cranica a più frammenti. Decesso istantaneo stabilito intorno alle ore 21 convenzionali – si interrompe e non smette di guardarla, mentre le sue mani cercano qualcosa sotto la cintura; per un attimo lei ha il timore che si stia slacciando la lampo dei pantaloni. Ma è solo un fazzoletto quello che ha preso da una tasca e che si porta alla fronte con piccoli e ripetuti gesti come ad asciugarsi il sudore.
Eppure non fa affatto caldo dopo il temporale della notte. Anzi, non ci sono mai state tante giornate di pioggia come in questo periodo a muovere l’aria.
- Sono queste le risposte alle domande del Giudice da scrivere nella perizia. Il resto non importa.
Lei tace.
- Il resto non importa – ripete il direttore e concede al fazzoletto altri balzi veloci sulla superficie rugosa della fronte.
Lei tace.
- Dottoressa Laghi, sei giovane e hai terminato la specializzazione in medicina legale da soli tre anni. Sei mesi fa’ mi hai chiesto di continuare a frequentare il nostro Istituto per svolgere attività di ricerca, che praticamente non esiste qui in Italia, e per mantenere i tuoi turni di autopsia presso la Procura. Io sono stato ben lieto di assecondarti, perché stimo la tua intelligenza e la tua professionalità. Inoltre, nonostante la crisi che c’è oggi nel nostro campo, ti ho anche trovato un posto nella Commissione Invalidi dell’A.U.S.L., in modo da venire incontro anche a questa tua inclinazione – pausa, piccola, ma bruciante - E alle tue necessità economiche.
- La ringrazio – si sente allora costretta a mormorare lei.
Sa che essere apprezzati da una personalità come il direttore Vasari, uno dei più stimati e potenti professori di medicina legale in Italia, è motivo di vanto, ma sa altrettanto bene che lui in realtà ha trovato le parole per metterla all’angolo e per farla sentire una sua emanazione.
Lui fa un cenno affermativo con il capo, accettando le parole di sottomissione.
- Ma, per l’appunto, sei giovane e ancora non hai ben compreso che il nostro mondo è fatto di fragili equilibri e di territori da non invadere. Territori che vanno ben oltre la nostra competenza professionale.
Ora è lei a sorprendersi in un gesto affermativo della testa, mentre nei suoi pensieri si vede accennare ad un sorriso amaro.
In realtà lo ha capito anche fin troppo bene. Sulla sua pelle, sui suoi soldi e sui suoi sogni.
Dopo la specializzazione era entrata come collaboratrice di studi privati medico-legali nel settore assicurativo privato. E aveva scoperto che una quota della valutazione del danno alla persona non aveva a che fare con la reale lesione, ma si gonfiava più o meno consistentemente a seconda dell’Infortunistica privata o della Compagnia Assicurativa in causa, in un sottobosco di rapporti di potere ed economici sempre in movimento, con piccoli e grandi tradimenti ed alleanze.
Un mondo che lei aveva trovato alienante, pur se gravido di promesse di carriera e denaro, anche perché richiedeva un assorbimento continuo nel lavoro, con scomparsa graduale del tempo libero e di tutti gli interessi extraprofessionali.
In sintesi, della propria personalità.
Pertanto aveva deciso che fuggire dal mondo assicurativo privato era una necessità di sopravvivenza.
E si era allontanata alla ricerca di una medicina legale che somigliasse di più a quanto aveva sognato durante la specializzazione. Autopsie, soprattutto, e assistenza ad invalidi e handicappati.
Ma splendori e miserie del mondo sono un copia e incolla nel tempo e nello spazio, come le diceva sempre suo padre da quando, a sessantasette anni, aveva deciso di passare il resto della sua breve vita a scrivere aforismi al computer. Computer poi seppellito con lui, con tutti i documenti, per sua volontà, come un defunto dell’antichità calato nella tomba con suppellettili moderne.
Il professore Vasari continua ad osservarla in silenzio dall’altro capo del globo della sua pancia.
Lei è confusa, confusa dai suoi improvvisi pensieri, confusa dall’improvviso silenzio di parole e di mimica e accenna ad alzarsi dalla sedia, tanto per capire cosa fare. Il professore sbilancia gli angoli delle labbra all’insù e lei sa che è il momento di andare.
La porta dello studio del direttore, in legno massiccio, le è sempre sembrata un esercizio crudele per le sue esigue forze e questa volta, mentre la apre, la colpisce il paragone con il peso di una pietra tombale. Forse per il pensiero improvviso al seppellimento di suo padre.
- Dottoressa Laghi – la raggiunge calma la voce del direttore.
Lei si gira subito, già pronta a scusarsi perché ancora non lo ha salutato. Ma lui non sembra affatto contrariato, immobile nella sua solita posizione con le mani adagiate sulla cima della pancia – La Villa è un luogo molto importante per i professionisti della medicina legale e per gli equilibri della nostra città. L’esame esterno su quell’ospite che si è suicidato era solo un atto dovuto.
- Sì, professore.
- Bene. Ma stabilita la causa e l’epoca di morte, ogni altro polverone sollevato su pure supposizioni non conviene e non interessa a nessuno - pausa; affondo - A nessuno.
Lei stringe le labbra perché vorrebbe obiettare che non si tratta di pure supposizioni e che anzi quanto ha osservato e documentato potrebbe anche portare a rivedere la dinamica del decesso. Ad avanzare l’ipotesi di un omicidio.
Ma rivede ancora l’espressione di disprezzo con cui l’egregio e stimato dottor Govatti, suo superiore, l’aveva ascoltata mentre spiegava di volere abbandonare il lavoro alienante del mondo assicurativo privato. Ricorda ancora il deserto che le era stato fatto intorno dopo avere varcato per l’ultima volta la soglia degli Studi medici.
Sa bene che se non fosse stato per l'intervento del professore Vasari, le porte della medicina legale per lei sarebbero ancora chiuse. Senza appello.
- Capisco, direttore.
- Ciao, dottoressa Laghi.
- Buonasera, direttore.
***
Se fosse un dipinto, il tavolo pesantemente imbandito si collocherebbe bene nell’opulenza dell’arte barocca, pensa Alfonso Vasari mentre mette a dura prova la tenuta della pancia, in affanno oltre la morsa dei pantaloni.
Il paesaggio bucolico delle colline in cui lui e gli altri due uomini stanno mangiando da circa tre ore lo porta ad essere sereno e vicino ad ogni forma d’arte, compresa quella della grigliata di carne dal sapore così amabilmente untuoso e ricco di aromi.
La difficoltà respiratoria che sembra avere già colto gli altri commensali dopo le pietanze ingurgitate, sembra ai suoi occhi deliziati una rinuncia blasfema al sapore della vita. Afferra un costino di maiale e lo accompagna fino in fondo a compiere il suo destino di cibo, con eleganza, nonostante ormai tutti abbiano abbandonato l’uso delle posate e rivestito labbra e mento di strati geologici di sugo e grasso.
D’altra parte, solo alla trattoria “L’Antro dei Cinghiali”, immersa nel verde al limitare del bosco, il professore si concede questa libertà fuori dall’etichetta.
E poi, osserva sorridendo con la mente, mica è la prima volta che lui e i suoi compagni di gozzoviglia si lasciano andare al piacere di sbranare carne senza curarsi del galateo. Certo, è in compagnia di importanti personalità, ma quello è il loro intimo territorio dove si compie un piacevole paradosso: spogliarsi dell’etichetta davanti al cibo e allo stesso tempo tessere nuove trame di equilibri e strategie nel campo professionale.
Osserva la premurosità con cui Enzo Govatti riempie continuamente di pregiato vino Cagnulati il suo bicchiere e quello del Cavaliere Giangiacomo Tosarelli.
A Vasari, il dottore Govatti, con quegli occhi socchiusi e la fronte larga, ha sempre ispirato una lombrosiana diffidenza; a tale proposito, è convinto che Cesare Lombroso, pur con i limiti e i pregiudizi della sua epoca, abbia intuito molto più sulla fisionomica di quanto non si voglia ammettere in questa decadente epoca di buonismo e maschere sociali. In effetti il caro Govatti solo due anni addietro ha cercato di prendere il posto di un suo pupillo nella Segreteria del Sindacato dei medici legali della Regione. La mossa avventata di questo principiante è trapelata in tempo nei sotterranei di alleanze e tradimenti e per poco non è costata al caro dottorino il ruolo di medico legale di fiducia nelle Infortunistiche Tosarelli. Ma Alfonso Vasari, con una mossa di cui ancora narra quando è necessario ricordare la sua abilità di stratega e vestirsi da uomo comprensivo, ha ritenuto opportuno perdonarlo e non invadere il territorio delle Infortunistiche.
Questo Govatti lo sa, lo sa bene, e da allora sono considerevolmente aumentati anche i ritmi con cui versa al professore bicchieri di vino e di quant’altro opportuno.
Vasari solleva il bicchiere accondiscendendo all’ennesimo gesto di brindisi del dottorino, che ha questo difetto tutto sommato innocuo e a tratti coinvolgente di brindare per motivi banali, quali il piacere di un’altra bevuta dopo questo alzare dei calici o, come solo poco prima, alla recente decisione di una Compagnia Assicurativa di indire colloqui di assunzione per nuovi collaboratori medico-legali. Ovviamente i nomi dei fortunati sono stati già selezionati durante il pranzo tra gli uomini di fiducia di Govatti.
Attraverso il vetro bianco e vermiglio del bicchiere, Vasari lancia una rapida occhiata al Cavaliere Tosarelli, che nella rifrazione della luce sembra la caricatura ben riuscita di un disegnatore; il naso aquilino che si allunga e si affloscia fino quasi a toccare le labbra sottili e tirate, le orecchie a punta che sembrano ancora più tese verso l’alto come nello sforzo di captare ogni suono oltre quello secco delle ossa spezzate sui piatti.
Ha oltre settanta anni, il Cavaliere Giangiacomo Tosarelli, e con quello sguardo velato di cui non si colgono mai sfumature, con i suoi lunghi silenzi aperti solo da frasi decise senza punti interrogativi, ha creato dal nulla e con segreti appoggi la più vasta e potente rete di Infortunistiche della regione, con la quale ogni Compagnia Assicurativa deve fare i conti prima e durante e dopo la valutazione di un danno alla persona.
Gli Studi Tosarelli sono simbolo di assistenza agli infortunati, così come la Villa, costruita sullo stesso terreno, è la casa di riposo d’eccellenza voluta dallo stesso Cavaliere.
Vasari stesso deve scendere a patti con lui prima di prendere una decisione, anche se questo rapporto è a volte reciproco.
Eccoci riuniti dunque, osserva Vasari, gli occhi che si spostano dal Cavaliere a Govatti e poi tornano al Cavaliere. Due leoni allo stesso banchetto di carne in compagnia di una iena che si aggira nel territorio di Tosarelli non certo per spiccata competenza professionale, non certo per intelligenza, ma solo per l’esigenza di un medico legale di fiducia a dirigere gli Studi medici.
- Alla Villa - Tosarelli ha alzato il calice, ma ha anche spostato il tema del brindisi e con il bicchiere a mezz’aria stretto nella mano ossuta fissa lo sguardo sorpreso di Govatti.
- Alla Villa – ripete accondiscendente la iena. Ma il suo tono scivola in un tremito sull’ultima parola, mentre anche il vino all’interno del suo calice ha un'ondata di sussulto.
Le mandibole dei commensali entrano in pausa all’unisono.
Govatti lancia uno sguardo sbilenco e interrogativo a Vasari e accenna ad un sorriso beota.
Vasari tace e aspetta il seguito.
Giangiacomo Tosarelli sorseggia Cagnulati nella sua annata migliore.
Un paio di mosche cercano di approfittare della pausa per immergersi nella carne che ancora avanza sui vassoi, ma una zampata nervosa della iena le allontana.
Tosarelli posa il bicchiere e fa scivolare lentamente, con gesti ripetuti, l’unghia del lungo indice sulla striscia rosa-pallido che è il suo labbro inferiore. Continua a fissare Govatti, che si agita sulla sedia e di nuovo lancia un veloce sguardo di supplica a Vasari.
Il professore osserva la scena pensando divertito che il gesto di Giangiacomo potrebbe sembrare una provocazione sensuale nei confronti del dottorino. In realtà intuisce già dove vuole arrivare il Cavaliere delle Infortunistiche e teme che il piacere di quella mangiata sia al tramonto.
Enzo Govatti capisce di non reggere ancora quello sguardo impregnato dall’improvviso silenzio e dai percorsi indecifrabili del dito sul labbro e decide di parlare, di dire qualunque cosa pur di interrompere la tensione che sta crescendo in lui.
- Gli incarichi sono un po' calati da parte delle Compagnie, ma è normale se si considera la stagione.
Tosarelli mette a riposo il dito e gli concede un sorriso stirato, ma nello sguardo fisso rimane una nebbia impenetrabile.
Govatti sospira e non appena si rende conto di farlo va in apnea per qualche secondo, poi lascia uscire il resto del disagio in un soffio pesante.
- Da parte vostra abbiamo sempre un buon numero di incarichi - si agita sulla sedia, sorrisino tremulo, occhi che corrono spaventati da Vasari e poi tornano servizievoli da Tosarelli - Per cui, ecco, va tutto bene, direi, ecco - e gli sembra un gesto opportuno alzare di nuovo il calice per un brindisi al giro di incarichi.
Ma l'immobilismo di Tosarelli e la mancanza di soccorso di Vasari gli fanno cambiare idea; ancora nuvole pesanti nell'aria elettrizzata.
Le mosche sono tornate con i rinforzi ed ora esplorano indisturbate le colline di selvaggina.
- Dottor Govatti, sa bene che alle mie Infortunistiche si rivolge un buon settanta per cento delle vittime di incidenti stradali o di infortuni di altro tipo - ricorda Tosarelli con tono annoiato – In sostanza, i miei medici legali trattano in media un centinaio di incarichi al mese. Nello stesso mese, lei riceve dalle Compagnie Assicurative l’incarico di valutare le persone già visitate nelle mie Infortunistiche. É qui che si forma il nucleo dei nostri accordi - con l'indice della mano Tosarelli inizia a disegnare un cerchio nell'aria - Infortunio, tutela del danneggiato da parte dell'Infortunistica, varie visite presso medici specialisti, infine relazione medico-legale con valutazione del danno a vantaggio del cliente - breve pausa a metà cerchio.
Poi, veloce, il dito del Cavaliere si inclina verso Govatti.
Il medico sembra avere un principio di infarto. Ha un sussulto mentre osserva con occhi dilatati e pallidi il dito ossuto, come se fosse un punteruolo puntato contro il viso.
Vasari, che continua ad osservare la scena con il distacco di chi assiste alla replica di un programma televisivo, non può fare a meno di concedere un sorriso ammirato a Tosarelli. Niente da obiettare, è un maestro anche quando ribadisce concetti ovvi per tutti loro
Il dito riprende lentamente a disegnare il cerchio.
- Poi cosa succede nel campo opposto, mio caro dottore?
Govatti conosce il seguito, ma non crede che la domanda sia un invito a proseguire. Infatti il dito continua a muoversi, spinto dalle parole del Cavaliere.
- La stessa persona visitata dai miei medici è valutata anche da un medico legale incaricato della Compagnia Assicurativa per una stima di controparte del danno - il dito si ferma senza completare il cerchio.
Tosarelli stringe le palpebre.
A Vasari sembra che con questo gesto anche le sue orecchie siano diventate più lunghe.
Un predatore pronto allo scatto, riflette.
Tuttavia in lui sta subentrando un senso di noia oltre l’ammirazione per la teatralità del Cavaliere. Riepilogare le dinamiche della valutazione del danno a Govatti è come spiegare i modi di aromatizzare la carne ai cuochi della trattoria.
La visione di insieme, intuisce all’improvviso Vasari, forse è a questo che mira Tosarelli. Solo quando si riassume la visione di insieme di un fenomeno puoi cogliere nuovi particolari. Dal tutto all'uno, non è forse questo il ragionamento deduttivo con cui il Cavaliere ha costruito il suo impero?
- Perché il cerchio si chiuda al meglio per gli interessi economici della parti chiamiamole pure avverse…
- Cioè l’Infortunistica da una parte e la Compagnia Assicurativa dall'altra - si affretta ad aggiungere Govatti, tutto di un fiato, nell’affannosa necessità di mostrare con la banalità quanto sia attento alle banalità.
- Perché questo avvenga - continua deciso il Cavaliere,mentre con occhi di ghiaccio uccide il dottorino - occorre un sistema perfetto di complicità in cui la valutazione della nostra parte è fatta previ accordi con chi valuta dalla parte opposta, cioè con lei, egregio Govatti - e con questa frase finalmente il dito disegna il cerchio completo nell'aria – Ora, la Villa è il centro in cui questo avviene senza scossoni da ormai dieci anni. Non è solo una casa di riposo, ma un organismo complesso e delicato fatto di intrecci di accordi silenziosi tra le Infortunistiche e le principali Compagnie Assicurative della nostra regione.
Enzo Govatti si affretta ad annuire. Già pensa che sarebbe ora di un nuovo brindisi per decantare l’alleanza nel mondo assicurativo, ma qualcosa che guizza nella nebbia dello sguardo del Cavaliere lo trattiene, preoccupato. Forse comincia a capire.
Tosarelli si volta all'improvviso verso Vasari.
- Maurizio Santino non si è suicidato gettandosi dal balcone della sua stanza.
Non è una domanda, ma una sentenza, per di più precisa di generalità del defunto, che nemmeno il preciso direttore dell'Istituto di medicina legale ricordava.
Eppure aveva letto la relazione della dottoressa Laghi solo la mattina prima.
Così Vasari registra distrattamente la caduta del bicchiere dalle mani di Govatti, il rosso scuro del Cagnulati migliore annata spandersi velocemente sulla tovaglia, mentre si ritrova all’improvviso chiamato in campo, impegnato ad elaborare una veloce strategia per contrastare l'attacco imprevisto del Cavaliere.
Sempre così questo bastardo, sempre imprevedibile e infimo, annaspa il direttore, in realtà non era Govatti il suo bersaglio, ma il sottoscritto.
Si ricorda di bloccare ogni mimica del viso, ogni movimento delle mani che tradiscano sorpresa e nervosismo e si lascia andare sullo schienale. Scricchiolio di protesta del legno.
- Ti riferisci a quell'ospite della Villa che è morto una settimana fa - comincia per guadagnare tempo. Ma, come previsto, il Cavaliere non parla e ora la nebbia del suo sguardo è tutta per lui - Da quello che so era molto anziano e soffriva di depressione in terapia farmacologica. Mi sembra che qualche giorno prima di morire si fosse anche preso una broncopolmonite; sai, non c'era più con la testa e lo hanno trovato nel parco il mattino dopo una notte passata sotto la pioggia con un altro sciroccato degli anziani – Vasari si schiarisce la voce, ma evita di sistemarsi meglio sulla sedia come gli suggerisce la pancia - Quindi si trattava di un soggetto depresso con scarso compenso nonostante la professionalità del medico psichiatra, che tutti conosciamo - pausa, affondo - che è un collaboratore delle tue Infortunistiche.
Giangiacomo Tosarelli gli concede un'ombra di sorriso in cui il disinteresse è la parte più chiara e feroce.
- Maurizio Santino non si è suicidato - ripete con lo stesso tono deciso di prima - L'ho letto nella prima stesura della perizia della tua allieva.
- Cazzo - la voce di Govatti è lontana e solo più tardi Vasari realizzerà che è la prima volta in venti anni di conoscenza che gli sente dire una parolaccia in presenza di Tosarelli.
Il punto è che nella sorpresa di questa rivelazione ha perso l'equilibrio del discorso. La stronzetta, pensa velocemente sotto la nebbia dello sguardo di Tosarelli, ma come si è permessa, a chi lo ha detto, non certo a questi due, con loro non hai più rapporti da quando ha abbandonato le assicurazioni private.
- Alfonso, Alfonso - sospira il Cavaliere fingendo delusione – sai, uno dei motivi per cui io sono qui, a parlare in questo modo al direttore dell'Istituto di Medicina Legale, uno dei motivi per cui il mondo assicurativo non si muove se solo teme di calpestare il mio territorio, è che io guardo oltre la professionalità e mi interesso anche della vita privata dei miei collaboratori - sguardo posato per un istante su un Govatti piccolo piccolo - dei miei avversari e di chiunque, dico chiunque, sfiori per qualsiasi motivo il mio raggio d'azione.
- Cosa sai, Giangiacomo? - sibila Vasari nervoso e preoccupato.
- La tua pupilla, la dottoressa Valentina Laghi, sembra sia molto acuta nelle autopsie e di certo ti deve molto perché altrimenti non so che fine avrebbe fatto dopo che ha abbandonato Govatti e gli altri nostri collaboratori - altra veloce occhiata all'agonizzante Govatti, che annuisce rapido - Comunque devi stare tranquillo, non è una stratega di autoconservazione, altrimenti non avrebbe mai preso l'iniziativa di lasciare il mio impero. Non avrà mai soldi e potere, ma ha capito la lezione; chi torna sui suoi passi paga un prezzo alto - Tosarelli chiude gli occhi e inspira l'aria a fondo, ma Vasari ritrova subito quello sguardo indecifrabile su di se - per cui seguirà le tue direttive di omettere una parte della perizia in cui descrive ematomi sul corpo del suicida, visto che ti ostini a definirlo tale, e che invece potrebbero insospettire un magistrato.
Vasari cerca di respirare piano, attento a non essere tradito dal promontorio della pancia. E tace.
Tosarelli affonda per un istante gli occhi nel bicchiere di vino, poi, quando li riporta in quelli del professore, sorride, anche se quello che Vasari vede è solo una fila di denti in esposizione.
- Vedi, mio caro Alfonso, la tua dottoressa ha una relazione con un avvocato giovane e ambizioso. E poiché continua ad essere una che non sa vendere la propria immagine, ha avuto la bella idea di raccontargli tutto non appena uscita dal tuo studio.
- E questo avvocato lavora per te - conclude freddo Vasari, soffocando un’esplosione di rabbia sul nome di Valentina Laghi.
- Sì, ma non giudicarla troppo male. Lei ignora questo particolare e lui si guarda bene da confessarle il nostro accordo.
Vasari si impone di sorridere, mentre adagia le mani sulla cima della pancia.
- Ora che me lo hai detto, ti sei giocato un'inconsapevole infiltrata nel mio territorio.
- Si vede che non ne ho più bisogno, non credi? Come forse non ho più bisogno di quell’avvocato. Non mi sottovalutare Vasari, non è da te, forse c'è troppo vino in giro nelle tue ampie budella.
- E quindi? - incalza l'altro, ignorando la provocazione.
- E quindi voglio sapere chi ha spinto giù dal balcone della sua stanza al secondo piano l'ospite della Villa. Non per motivi di giustizia, ovvio, ma perché con un’indagine si rischiano di compromettere i fragili equilibri che abbiamo costruito negli anni – il Cavaliere sposta occhi e sorriso da Vasari a Govatti, poi sospira, come rassegnato in presenza di due persone che faticano a comprendere la sua lingua - Non dovrò ricordarvi ancora che gli Studi medici delle mie Infortunistiche e quelli delle Compagnie Assicurative per le quali lavora Govatti sono nello stesso terreno della Villa.
Poi, finalmente, segue l’invito di Govatti. Alza il calice al cielo, gli occhi che si riflettono nel rosso del vino, ormai distanti dagli altri commensali.
Alfonso Vasari sente per la prima volta il disagio della pancia piena di cibo. Gira il capo verso Govatti, che sta guardando proprio lui. Pallido e immobile.
Se fosse una scultura, pensa, il dottorino rappresenterebbe l’essenza del panico.
***
Chissà perché il tono della giornalista è sempre sopra le righe.
Capisco quando era corrispondente in zona di guerra, magari devi farti sentire oltre gli spari, i bombardamenti, le urla, o semplicemente devi avvolgerti nella tua voce per darti coraggio. Ma anche ora che si trova a mezzo busto durante il telegiornale, le sue parole giungono fino a noi con volume alto, innaturale, che non è quello del televisore.
Forse lo fa’ per noi anziani, riniti nella sala della Villa come una placida mandria al pascolo dell’informazione televisiva. In effetti mi osservo intorno e vedo solo facce prive di espressione assorbite dallo schermo gigante e ultrapiatto che decora una parete come un quadro dinamico di autori e stili vari.
O forse lo fa’ perché ogni zona di guerra, anche se non hai visto che qualche maceria e hai solo intuito il canto della morte, ti lascia dentro qualcosa di profondo. E la voce rimane più alta, nel tentativo di tenere lontano un indimenticabile sapore di distruzione.
La osservo parlare, questa giornalista, ora firma di prestigio della cronaca e della politica; mi è sempre piaciuto il suo volto delicato, i suoi capelli lungi e biondi, tanto che fino a qualche anno prima, quando almeno potevo permettermi sporadici ed incompleti amplessi solitari, le ho dedicato diversi incontri erotici, anche se non ho mai intuito le forme del resto del suo corpo, mutilato da primi piani o deformato da divise da soldato.
E a maggior ragione trovo quel tono sopra le righe distorto nell’immagine sensuale che ho avuto di lei.
Ma sembra che sia l’unico nella sala a farci caso, gli altri la osservano come se stesse predicando il Verbo.
Con lo stesso tono, dopo un servizio di dieci minuti dieci sul campionato di calcio, la giornalista ci spiega velocemente che nella notte c’è stato l’ennesimo attentato in cui sono morti tre soldati, cinque civili e il kamikaze.
Servizio, rapide immagini verde fosforescente dalle telecamere a raggi infrarossi, lamiere fuse di auto e sagome di uomini che corrono verso un bagliore in lontananza, fine del servizio.
Tono sopra le righe della giornalista che non cambia espressione ora che ci spiega come in Parlamento sia scoppiata una rissa tra chi sostiene misure restrittive per i terroristi che vogliono distruggere la nostra libertà e chi protesta per il pericolo di leggi liberticide.
Servizio, zoomate tutte colorate di bambini in cravatta che si azzuffano all’asilo del Parlamento, particolare di capelli neri tirati con isteria da una mano tozza ma elegante nel polsino della giacca, fine del servizio.
Interviste di almeno cinque minuti cinque a politici di vari schieramenti, gonfi di impettita retorica sui valori della democrazia, della libertà, della sicurezza e del bene del Paese, e non manca chi ricorda che il nostro è uno scontro di civiltà che va combattuto senza cedimenti, che lo stesso Grande Presidente del Paese-sempre-amico-e-benefattore, a cui rinnoviamo la nostra alleanza amen, ha ricordato ancora nell’ultimo discorso che siamo sostenuti da Dio in persona. Pensa un po’.
Mi guardo ancora intorno, c’è chi si morde le labbra, chi scuote piano la testa, ma la maggior parte degli spettatori non sembra avere cambiato espressione durante la corsa dei servizi.
Sono tutti in attesa dell’ultima notizia, anche se quando arriva è masticata dalla giornalista così velocemente e senza filmato, che sembra quasi non esserci. Ieri nel cimitero vicino alla Villa hanno profanato un’altra lapide. La terza in quasi due mesi. La foto del defunto è scomparsa. La conoscevamo bene la signora malinconica ritratta in quell’immagine, perché ha diviso in questa casa di riposo gli ultimi silenzi della sua vita. Come l’uomo secco e lungo chissà come racchiuso per intero nella prima foto rubata al cimitero. La seconda foto, invece, è stata proprio quella del mio amico Maurizio Santino. Ma i nomi dei morti sono silenzio per la giornalista e la notizia è subito fagocitata della pubblicità, in un’esplosione di colori e slogan.
Mi alzo a fatica dalla poltrona, aiutandomi con le mani sui braccioli, perché oggi le ginocchia si fanno sentire, senza troppa prepotenza, ma in modo costante.
Non penso alle lapidi violate, nemmeno a quella del mio amico, ma alla giornalista compagna delle mie fantasie erotiche. Forse il motivo per cui il tuono della sua voce è così sopra le righe è molto più triste di tutto il mio filosofare da vecchio. Forse la sua voce è un tentativo di nascondere sia l’inconsistenza delle informazioni, sia la povertà di chi guida il nostro Paese.
Lascio la sala seguito dallo sguardo silenzioso di una donna sulla carrozzina parcheggiata nell’ultima fila accanto alla porta, le gambe nascoste da una coperta nonostante il caldo e l’umidità della giornata. Le rivolgo un cenno di saluto, non ricambiato.
- Vado a fare due passi fuori – bisbiglio a Lara, una delle infermiere che ci assistono durante gli svaghi collettivi. In realtà non c’è obbligo di comunicare i nostri spostamenti, ma ormai per chi si stacca dalla mandria è abitudine non scritta avvertire il cane da guardia prima di pascolare in territori non programmati nel corso della giornata. Lei mi rivolge un sorriso caldo che mi regala un flebile vento di energia. Mi piace Lara, ha un modo semplice e umile di svolgere il suo lavoro. Anche fisicamente, pur non essendo bella di viso con quel naso sproporzionato e brufoli che le colonizzano continuamente la fronte, ha curve generose che persino un uomo della mia età riesce ad apprezzare. Ma non ad inseguire.
Nella veranda mi accoglie l’aria immobile di questa giornata che già posa umidità sulla mia camicia di cotone. Ma almeno respiro una parvenza di silenzio che mi manca sempre dopo i primi minuti davanti la televisione.
Le notizie le guardiamo tutti, anche se pochi le sanno narrare, e pochi le sanno ascoltare.
Ecco che riprendo a filosofeggiare, oggi sono così, mi chiedo se non sia anche per l’incubo notturno che ancora veste le mie sensazioni con un velo di disagio. Guardo alla mia sinistra, verso gli alberi di pino distanti una trentina di metri dalla veranda, dove la sera prima, tra la pioggia, ho creduto di vedere ombre danzati di cadaveri. E tra queste Santino.
- Dottor Salina – sobbalzo alla voce dura che si infrange sulle mie spalle. Prima di girarmi del tutto so già di chi si tratta, sempre con quel suo modo di materializzarsi, improvviso e, soprattutto, non desiderato.
- Buongiorno suor Adelaide – saluto con un accenno di inchino che nelle mie intenzioni è canzonatorio e che lei deve effettivamente cogliere per quello che è, considerata l’occhiata con cui mi uccide.
- C’è ancora fango nel terreno, se lo ricordi se ha intenzione di farsi un’altra passeggiata sperduta come l’altra sera – mi ammonisce senza celare disprezzo, mentre si avvicina di un passo nero nella sua veste informe – Guardi che abbiamo passato la mattinata a pulire le sue impronte dappertutto.
- Mi scusi – mormoro recitando la parte del pentito e comunque ho forti dubbi sul quel “abbiamo passato”, visto che in tutti gli anni passati da ospite nella Villa non ho mai visto suor Adelaide intenta a lavori pratici. Lei si avvicina ancora un po’. Per un attimo sono preso dal dubbio che voglia baciarmi, invece si limita a sibilarmi addosso il suo alito acetonico.
- Alle diciassette e trenta c’è la messa nella cappella.
- Cappella? – provoco divertito. Un doppio senso banale, sufficiente a mettermi nei guai, mi sa. Ma è stato più forte di me.
Suor Adelaide sfodera lentamente la lama del suo sorriso.
- Crede di scandalizzarmi con le sua allusioni sessuali, dottore? Lei non solo è un blasfemo, ma nasconde la sua insicurezza con tipiche battute infantili. Ultimamente il suo comportamento sta creando qualche disagio tra gli ospiti della Villa e il personale – i suoi denti grigi ma perfetti nella finzione delle protesi si schiudono alla mia vista mentre le labbra si ritraggono – L’avverto, se continua così dovrò parlarne con Faccetti.
Accenno ironicamente ad un altro inchino per mostrarmi poco toccato da quella minaccia, ma in realtà crea sempre un certo disagio tra gli ospiti l’idea di un colloquio con il dottor Faccetti, distante di altezzosità e severo di decisioni, nonché direttore della Villa e niente-poco-di-meno stretto collaboratore del Cavaliere Tosarelli.
Personalmente non sottovaluto nemmeno il suo ruolo di rappresentante della Compagnia dei Celesti, o come diavolo si chiama, un’emanazione del Comitato Etico Ecclesiastico, quello che ha il compito di pontificare sul Giusto e sullo Sbagliato della nostra decadente civiltà. Figurarsi se non ha il potere di decidere chi rimane in questo luogo. Figurarsi se non lo esercita nel vagito di un secondo.
Insomma, sembra che, morte e Cavaliere Tosarelli a parte, nessuno disponga più di lui di noi ospiti. E se la Villa è una prigione, rimane pur sempre anche un comodo rifugio di sopravvivenza.
Suor Adelaide deve aver colto un lampo di smarrimento nel mio sguardo perché ora un angolo della sua bocca tremula in un sorriso soddisfatto.
- Buona giornata, dottore – mi saluta senza nascondere il tono canzonatorio dell’ultima parola, mentre entra impettita nella Villa.
Mi volto di nuovo verso gli alberi e mi incammino lentamente lungo le brevi scalinate della veranda, sotto un alito di inutilità, poi prendo il sentiero di ghiaia che serpeggia tra il verde. C’è anche un percorso cementato, più lineare e diretto verso la pineta, pensato soprattutto per chi ha difficoltà a camminare o si muove in carrozzina, ma il suono della ghiaia sotto i passi accarezza i miei pensieri solitari.
Mentre cammino vedo in lontananza uno dei quattro parcheggi esterni della Villa, il più ampio, percorso da un lento movimento di automobili. Da quel lato ci sono gli ingressi del Poliambulatorio, sempre aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19 e al sabato dalle 9 alle 13, come recitano gli avvisi all’entrata e in varie zone della città.
Li ricordo, quegli avvisi, cartelli gialli con scritte scolpite in nero, che ho sempre visto in città da quando ho iniziato la mia professione, dapprima nelle vie periferiche, poi negli angoli delle pagine di un giornale, quindi sempre più invadenti e decisi, distesi su intere pagine dei due principali quotidiani locali, nella pubblicità delle riviste, delle reti locali, dei cinema.
Poliambulatori Tosarelli, sempre al vostro fianco, uniti con voi per i vostri diritti, l’evoluzione della giustizia, una mano amica e un orecchio attento dopo un incidente stradale, eccetera eccetera. Ho sempre pensato che Tosarelli abbia fatto a livello regionale quello che McDonald ha fatto a livello mondiale e ora nessuno può crescere da queste parti senza familiarità con il suo nome.
Le ginocchia mi mandano acuti segnali di dolore che decido di non ignorare, per cui mi siedo su una panchina di marmo, all’ombra di una statua grigiastra raffigurante una Madonna con le braccia tese verso il sentiero e il palmo delle mani mostrato in avanti in un gesto di umiltà. La osservo con il solito distacco. Arti superiori in posizione neutra, mormora quella parte di me che non vuole dimenticare che sono stato un medico. É una voce alla quale non posso più dare nulla, perché so di vagare da secoli nel fallimento della mia vita. Le ordino di tacere, mentre massaggio delicatamente le ginocchia attraverso i pantaloni di flanella. Dopo poco avverto una piacevole sensazione di intorpidimento che scende fino alle caviglie e ne approfitto per guardarmi ancora intorno.
Il parcheggio è parzialmente nascosto da alti cespugli e da una statua raffigurante un enorme pesce dalla coda mutilata, sinceramente fuori luogo, anche se si trova al centro di una fontana, ma di cui dovrebbe essere chiaro l’antico simbolismo cristiano. Almeno così piace raccontare a suor Adelaide.
Riesco comunque a vedere ancora il lento incedere di nuovi arrivi e nuove partenze, di auto private, taxi e di qualche ambulanza a sirene spente. Con loro inizia il valzer dell’infortunato e cresce il giro di affari del Poliambulatorio, tra visite specialistiche e valutazioni medico legali.
La Villa è una distesa enorme. Da qui non riesco a vederne i confini, un’etnia di stili architettonici combinati tra loro in modo tutto sommato equilibrato e gradevole; ci sono ben sette ingressi, di cui due riservati a noi vecchi e al personale e tre ai Poliambulatori; gli altri due non li ho mai visti, perché il padiglione della Villa dove si trovano è chiuso agli ospiti, ma tanto è un segreto di pulcinella di cui non si dovrebbe parlare e che invece tutti conoscono, ospiti o meno. Quel padiglione affaccia sulla statale che porta in città da una parte e all’autostrada dall’altra e ha un altro indirizzo civico. Anche lì si trovano altri studi, dove lavorano medici legali delle Compagnie Assicurative. Così chi subisce un infortunio viene dapprima tutelato dalle Infortunistiche Tosarelli, poi, al momento di essere visitato da un medico legale della Compagnia Assicurativa di controparte, non gli resta che tornare alla Villa. Anche se ufficialmente si reca ad un nuovo indirizzo.
Fine del giro di valzer. Applausi.
Mi alzo e a passi lenti raggiungo la pineta, dove mi accoglie a sorpresa un tiepido vento, balsamo per l’umidità di oggi. I grilli hanno smesso di cantare, segno che la temperatura è davvero alta, ma qualche uccello tenace ha la forza di avvolgermi con le note del suo canto. Respiro a fondo e poi mi affloscio sotto il peso di un’improvvisa malinconia che ha il nome di lunghe camminate e chiacchierate con Santino.
Mi guardo ancora intorno, verde e giallo ovunque nella penombra della pineta, ma nessuna traccia apparente di presenza umana. O sovrannaturale.
- Maurizio – mormoro un po’ indeciso, un po’ sentendomi stupido.
Gli uccelli tacciono. Solo un attimo, per fortuna. Ricominciano a cantare proprio quando inizio a pensare che il loro silenzio sia il preannuncio di un’apparizione spettrale, nella migliore tradizione di un racconto gotico. Mi appoggio ad un albero e respiro piano, ma ancora mi guardo intorno furtivo, non del tutto rassicurato; un’ape danza accanto al viso per qualche secondo ed io soffio delicato nella sua direzione, fino a quando non decide di cambiare il piano di volo e si allontana verso odori più attraenti.
Niente Maurizio, niente zombi o fantasmi, concludo mentre mi distacco dall’albero e guardo di nuovo verso la Villa, dove si staglia una parte del lato est del padiglione riservato agli ospiti.
E subito crollo sullo stesso albero.
Al secondo piano, sopra la mia stanza, c’è il balcone dal quale Santino è precipitato otto giorni prima; le finestre sono aperte e per un attimo intravedo una figura bianca muoversi nell’ombra della stanza.
Che dovrebbe essere vuota.
***
Enzo Govatti si compiace di mostrare un’immagine di forza e tolleranza allo stesso tempo. Cerca sempre di vedersi attraverso gli occhi degli altri e pensa che questa prospettiva sia un aspetto importante della strategia per arrivare al potere.
Non è importante quello che sei o che sai, ma come lo vendi.
In piedi di fronte ad una finestra aperta del suo studio, attraverso le fessure della tapparella in parte serrata nel tentativo di prendere le distanze dal caldo, osserva non visto due giovani infermerie che scherzano all’ombra di un porticato a fianco di un paio di anziani immobili sulle carrozzine. Le ha classificate subito come oche facilmente conquistabili con un po’ di copertina di uomo sicuro e potente ed ora le vede con le loro divise corte e piene di promesse stese nel suo letto; con lui tra loro, ovviamente.
Si accarezza il pene attraverso il camice e i vestiti ,mentre il suo sguardo morde le forme delle infermiere, che continuano a ridere, forse scherzando proprio sulle loro avventure sessuali, ignare della sua eccitazione, che cresce ancora al pensiero di essere scoperto dal loro sguardo e di essere invitato a proseguire tra loro in modo più concreto.
All’improvviso il telefono interno si intromette con un suono acuto, fuori posto, e prosegue testardo nel reclamare la sua attenzione, nonostante lui lo abbia mandato al diavolo già al secondo squillo, deciso ad accarezzarsi il membro in erezione, sudato sulle infermiere. Loro tacciono, alzano lo sguardo verso la finestra, distratte dal richiamo del telefono e lui, per quanto sicuro di essere celato alla loro vista dalla tapparella, si ritira dietro la parete con un balzo in gola.
Seccato per la rinuncia alla propria eccitazione, forza il pene all’interno dei pantaloni e si decide a rispondere.
- Dottor Govatti – annuncia la voce nasale della segretaria di turno – sono arrivati i pazienti delle quindici e trenta.
Lui lancia un’occhiata all’orologio rotondo e asettico appeso sopra la porta e un’altra all’agenda sul computer. Impreca mentalmente.
- Anna, scusami con loro – risponde, la voce cordiale e profonda – falli attendere in sala ancora cinque minuti, finisco prima una perizia urgente – e riattacca sbuffando. Non gli piace fare aspettare i pazienti, nemmeno quando arrivano con un po’ di anticipo come in questo caso; l’immagine dell’efficienza e della cordialità è una fase importante della visita, spesso più della visita stessa. Anche per ridurre i tempi di attesa ci sono i suoi collaboratori, giovani medici legali da spremere nella promessa di onore e soldi, ai quali smistare le visite, oltre al notevole carico quotidiano di certificati da riportare nelle perizie. Ma questo è un caso delicato, si tratta di una coppia di anziani raccomandati con una nota informale da Tosarelli in persona e per i quali è stato chiesto il 6% di Danno Biologico.
Con l’unghia dell’indice della mano destra inizia a picchiettarsi nervosamente gli incisivi superiori.
Il punto è che si tratta degli esiti di un trauma distorsivo del rachide cervicale da tamponamento che con le nuove tabelle di legge vale al massimo 2%, il punto è anche che lui è il medico incaricato della Compagnia della valutazione di controparte ed ora si sente in imbarazzo per quella richiesta così alta e che non sa come assecondare.
Tic tic commenta l’unghia sul dente.
Sì, si era promesso di parlarne con Tosarelli in persona durante il pranzo, ma dopo che il bastardo se ne era uscito con la storia del suicidio, figurarsi se aveva testa per ricordarselo.
Una soluzione potrebbe essere quella di affidare la visita a Palmato, giovane e promettente collaboratore di cui finge di fidarsi ciecamente, e che tiene al guinzaglio con una retribuzione ridicola, con un impegno giornaliero minimo di dodici ore, ma con la ghiotta prospettiva di essere entrato nel giro dei medici della Villa.
Intanto lui potrebbe consultarsi telefonicamente se non con Tosarelli in persona, che dopo quel pranzo è forse meglio non sentire per un po’, almeno con un avvocato dell’Infortunistica e magari anche con il liquidatore della Compagnia assicurativa.
Una bella soluzione, sogghigna ironicamente, se non fosse che da ben tre quarti d’ora ha incaricato quel coglione di Palmato di svolgere una perquisizione informale nella stanza del suicida e che ancora lui non è tornato.
“Conosco bene la figlia di quel poveretto”, gli aveva mentito durante una pausa caffè al bar dei Poliambulatori, pausa proposta con il tono comprensivo e compiaciuto di chi sa offrire al proprio vassallo anche piccoli piaceri quotidiani, oltre allo smisurato carico di perizie, “Non puoi immaginare quanto è depressa, guarda. Mi fa una tenerezza, aveva solo suo padre al mondo e non riesce a capire come abbia potuto suicidarsi”.
“Una brutta situazione”, aveva annuito Carlo Palmato, lo sguardo impassibile.
Allora Govatti si era avvicinato, per fargli capire che diminuendo la distanza gli concedeva fiducia.
“Ovviamente le sono stati restituiti tutti gli averi del padre; ma lei sostiene che mancano delle carte importanti, la loro corrispondenza privata e non so bene cos’altro. Sai, sembra che questo Santino scrivesse versi, poesie, ecco, e che le lasciasse un po’ dappertutto. Ma non sono state trovate, nemmeno sul cadavere, capisci. Lei è davvero molto dispiaciuta e allora ho pensato che se si può fare qualcosa per aiutarla almeno un po’ … Insomma, ti sarei davvero grato se tu facessi questo per me, dato che sono pieno di lavoro urgente da sbrigare”, un secondo di parole sospese e complici.
Palmato gli aveva sorriso, incerto, come ad aspettare altro.
“Se tu potessi dare un’occhiata adesso alla sua stanza, così, velocemente, e vedere se salta fuori qualcosa, carte, documenti, insomma, qualunque cosa che io possa restituire alla figlia per darle un po’ di sollievo”.
Una storia così inverosimile e melensa che nessuno poteva crederci, Govatti lo sapeva bene. Figurarsi Palmato, che stupido non è, anche se gli manca la sua capacità di vendere immagini, anche se sa che il suo allievo non la troverà mai nemmeno in cento anni di lavoro. Ma Palmato è una creatura tirata su da lui ed è ambizioso quanto basta per non fare domande e per fingere di credere.
Basta accarezzarlo con le parole giuste.
Così aveva lasciato alla fine la frase magica, l’unica attesa dall’allievo.
“Lo sai quanto mi fido di te”
Ed ora Palmato sta perlustrando la stanza del fu Maurizio Santino.
Govatti lancia un’ultima nervosa occhiata all’orologio a parete e spera che non abbiano scoperto il suo collaboratore. La stanza non è più sotto sequestro giudiziario, ma gli seccherebbe se circolassero voci tra il personale o gli ospiti della Villa su questa insolita intrusione. Soprattutto perché la sua è un’iniziativa personale di cui non sono al corrente né Vasari, né Tosarelli. Ma importante per mostrare loro la sua efficienza.
“Se ti scoprono”, aveva aggiunto mentre tornavano agli Studi, “racconta che stai collaborando alle indagini come Consulente medico legale della Procura in appoggio alla dottoressa Laghi. Il fatto che lavori anche alla Villa non importa, anzi dovrebbe essere il tuo salvacondotto”
Govatti smette di picchiettarsi i denti e decide che le telefonate all’Infortunistica e alla Compagnia possono essere rimandate a dopo la visita. Non può fare attendere troppo i pazienti, soprattutto se raccomandati dal Cavaliere in persona.
L’immagine prima di tutto.
Solleva il telefono interno con un largo sorriso.
***
Non dovevo farlo.
Ecco, potrebbe essere lo slogan della mia vita, sempre al passato, chiaro, mica sono capace di utilizzarlo al presente o, ancora meglio, al futuro. Ho un sentiero di “non dovevo farlo” dietro le spalle, che mi ha smarrito molti anni fa e che mi ha condotto fino a questa Villa a guardare il trascorrere dei miei ultimi momenti.
Il “non dovevo farlo” che ora riempie i miei pensieri è riferito a “non dovevi raggiungere di corsa la Villa e precipitarti al secondo piano per scoprire chi frugava nella stanza di Santino per tre buoni motivi”.
Uno, perché la mia goffa corsa dalla pineta al salone e poi sulle rampe di scale hanno morso ogni articolazione dalle anche alle caviglie, che ora stanno urlando in una polifonia in do maggiore, dove do sta per dolore.
Due, perché una volta raggiunto il secondo piano si è presentata una delle mie crisi di dispnea, evento che potevo ben prevedere, dato che ne soffro da quando i miei polmoni si riempiono dell’aria della Villa. Se poi si tratti o meno di una coincidenza, è un particolare che ora non mi interessa molto.
Al momento sono sovrastato dal motivo numero tre. Appoggiato ad una parete, sono riuscito in qualche modo a raggiungere l’ingresso della stanza del fu Maurizio Santino. Ultimo errore, perché qui mi ha investito un bolide bianco in uscita e mi ha sbalzato contro uno stipite dell’ascensore.
Ora sono steso al pavimento, senza respiro e con il dolore che affonda pugnalate nella spalla sinistra, che martella sulle articolazione delle gambe – degli arti inferiori; ecco, se riesco ancora a correggermi con queste definizioni anatomiche, forse non sono ancora tutto morto.
Non ho visto chi mi ha investito, ma aveva un camice bianco, da medico, questo è sicuro, e credo proprio che si tratti della stessa persona che ho intravisto dalla pineta. Un medico che aveva qualcosa da fare nella stanza di Santino, qualcosa di non troppo limpido a giudicare dal modo in cui mi ha salutato andandosene.
Mi giro cauto verso la spalla sinistra, richiamato dall’intensità del dolore.
D’accordo, è ora di sospendere il tempo dell’autocommiserazione e delle deduzioni, quello che vedo è più urgente; a parte il dolore, quanto rimane del mio sguardo clinico nota subita il segno della “spallina” e nello stesso istante scopro che non riesco ad avvicinare il braccio al corpo.
Dottore, la diagnosi è lussazione di spalla, penso mentre stringo i denti, chiudo gli occhi e abbandono la testa sul pavimento.
Se non fosse per la dispnea, proverei a ridurre la lussazione da solo, in fondo l’ho fatto decine di volte sui pazienti, anche se in altre epoche. Ma così non se ne parla proprio.
Alternative egregio?
È vero che la “fame d’aria” si sta attenuando, ma non sei certo in grado di chiamare aiuto e a quest’ora sono tutti nel parco o nel salone due piani sotto a giocare ai bravi nonnini e ai diligenti inservienti.
Dormi
Apro gli occhi e sollevo di scatto la testa per quanto mi è dato dalla posizione sdraiata sul pavimento.
Dolore al rachide cervicale, benvenuto anche a te, figliolo.
Mi guardo cautamente intorno mentre il mio cuore ricomincia a galoppare. Alla mia destra, il lungo budello del corridoio dove riposa la doppia file delle porte chiuse, alla mia sinistra un balcone a vetrata, velato da tende su cui colano pesanti motivi floreali.
Allora guardo in avanti. L’unico pensiero che ci vorrebbe per farmi agitare ancora un po’ è proprio quello che mi sorge spontaneo: la porta della stanza del fu Santino è spalancata verso l’esterno e sembra una ferita aperta a mostrare le interiora.
Il mio sguardo entra in punta di piedi e subito scopre una parte del letto, quella dove dovrebbe esserci il cuscino, che però non c’è, e le lenzuola, che ci sono, ma avvolte in un abbraccio confuso con un cassetto rovesciato e preso da chissà dove; il comodino giace al solito posto, apparentemente in ordine, il balcone è aperto.
Nient’altro, almeno dalla mia posizione, ma abbastanza per capire che il tipo che mi ha investito è un tornado. Previsioni del tempo, annuncerebbe con brio la mia cara bionda presentatrice.
Un’altra fitta alla spalla mi costringe a chiudere ancora gli occhi, ma li riapro subito sulla stanza. In attesa.
No, questa volta nessuno bisbiglia. Nessuna presenza di Santino.
Perché la voce che ho sentito prima sembrava proprio la sua. Ma ora noto un particolare inquietante che prima mi è sfuggito. Le tende del balcone aperto ondeggiano pigre, come mosse dal vento, nonostante sia una giornata afosa; non può trattarsi nemmeno di corrente d’aria, perché il balcone del corridoio è chiuso per dare spazio all’aria condizionata.
Il cuore ricomincia a galoppare e subito cade nel baratro del panico insieme al resto del corpo.
- Aiuto! – grido con la testa verso la rampa delle scale, ma la mia voce sembra giungere dalla parte opposta del lungo corridoio e il silenzio è interrotto solo da un’altra pugnalata alla spalla lussata. Allora cerco di puntellare il gomito destro sul pavimento e di sollevarmi con il busto, ma non appena la spalla sinistra si muove, il dolore è così forte da schiacciarmi di nuovo al suolo.
E la piacevole novità è che ora il corridoio ha cominciato a girarmi intorno.
Chiudo gli occhi e questa volta non li riapro, lasciandomi andare al risucchio che mi porta da qualche parte in un mondo pietoso, senza paura e dolore.
Dormi, ritorna dolce la voce di Santino.
***
Aghi gelidi saettano dal cielo a migliaia, inclinati e precisi quando colpiscono il terreno d’erba e fango che mi circonda; non aprono ferite, ma si dissolvono al suolo in esplosioni di acqua. E anche su di me stranamente non lasciano alcun segno, se non questo freddo che mi avvolge deciso.
Sono sdraiato in un campo a pancia in giù – prono, dottore, prono - in un imbrunire di pioggia.
Sento sulle mie labbra l’umidità del terreno mentre cerco di mettere meglio a fuoco il luogo dove inspiegabilmente mi sto risvegliando. Attraverso il velo della pioggia scorgo ombre che spuntano dal terreno, quasi tutte identiche e alla stessa distanza una dall’altra, come in una parata militare.
Lapidi, lapidi ovunque.
Dunque sono in un altro incubo.
Infatti mi basta immaginare il gesto di alzarmi, con calma e con gesti studiati, perché anche nell’incubo ricordo bene che ho la spalla sinistra lussata, ed ecco che sono già in piedi, come nel montaggio a singhiozzo di un film. E un altro indizio che sto percorrendo in un incubo è che la spalla non fa male e non ha nessun segno di lussazione; la muovo cautamente verso l’alto e poi verso la schiena e il gesto è completo e senza dolore.
Ma non ho il tempo di gioire, perché subito dopo arriva una consapevolezza che mi fa barcollare sotto il peso del suo senso assoluto.
Sono morto, non sento il cuore battere, non ho bisogno di respirare e il gelo che avverto non è quello della pioggia che esplora il mio corpo, ma nasce da dentro, da ogni angolo del mio corpo.
Sono morto e sono in un cimitero. E forse questo non è un incubo, ma il proseguimento naturale di quanto è accaduto davanti alla stanza di Santino.
Un piastrone verticale di marmo che nasce dalla terra erbosa è l’appoggio provvidenziale che mi impedisce di ritrovarmi steso al suolo, ma subito ritraggo la mano e lo guardo inorridito, mentre un dubbio si insinua nella mente.
Forse questa è la tua lapide, dottore, perché se sei morto da qualche parte devono pure avere parcheggiato le tue spoglie mortali in attesa che la parola “cadavere” torni al suo significato d’origine, “caro data vermibus”.
La paura può vestirsi di curiosità di sapere, come la curiosità di sapere può essere vestita da paura, mi sorprendo a citare un detto del fu dottor Edoardo Salina, utilizzata ad effetto da chi in un tempo lontano mi chiedeva come potessi svolgere le autopsie senza esserne spaventato, e subito il mio disorientamento aumenta: in un incubo si possono formulare questi pensieri?e dopo la vita?
In ogni caso, muovendomi piano tra il fango e l’erba luccicante di pioggia mi porto davanti alla lapide. Vorrei trattenere il respiro, ma data la mia condizione credo di poter fare a meno di questo tentativo.
La lapide è marmo liscio, dipinto di grigio scuro dalla pioggia; nessuna incisione, nessuna iconografia simbolica. Nessuna foto, nessun nome.
Marmo grigio senza identità.
Questa scoperta non mi rassicura affatto, anzi, aumenta il senso di smarrimento, tanto che mi giro intorno con espressione spaventata, forse addirittura supplichevole.
Ma se sono morto non dovrebbe esserci uno spirito buono, un angelo, un caro defunto, o qualunque volontario in assistenza alle matricole del trapasso a consolarmi e guidarmi?
La pioggia che cade ininterrotta, a ritmo intenso ed inclinato da un vento che non avverto, è l’unica forma di movimento di questo posto.
Se qualche spirito lassù o laggiù vuole ricordarmi in questo modo che la mia vita terrena ha fatto acqua da tutte le parti, d’accordo, ho capito il messaggio, ora possiamo cambiare scenografia, por favor?
Niente da fare, lo spiritoso o è sordo o non conosce il detto “lo scherzo è bello finché dura poco”.
Mi trascino ad un’altra lapide e scopro che anche questa è solo marmo liscio e grigio.
Il mio sguardo vaga nel campo scuro e bagnato che mi circonda; lapidi tutte uguali nella forma e nella dimensione, lapidi che nascono dalla terra bagnata come denti a più file di un predatore.
Ed io mi sento indifeso e incapace di agire, mentre i miei occhi, forse opachi di morte, cercano sperduti e supplicanti una forma umana.
Così la vedo, l’ombra nera e confusa di qualcuno seduto sopra una lapide, in fondo all’orizzonte.
Forse avvicinarmi è un pessimo errore, il primo della mia vita ultraterrena, e magari qui il primo è anche l’ultimo concesso, ma il bisogno di sapere e scoprire altre forme oltre quelle che mi circondano ora è più forte della paura.
Chiunque sia quell’ombra, non sembra accorgersi di me e rimane immobile, il capo chino tra le braccia incrociate sulle gambe. La pioggia che cade intensa e veloce non mi permette di cogliere i particolari, nemmeno ora che sono a pochi passi dall’ombra, ma qui mi fermo, con i sensi all’erta e pronto alla fuga, perché somiglierà anche una forma umana, ma date le circostanze, non è detto che sia necessariamente una forma socievole – non necessariamente una forma non affamata, precisa la voce più ironica dei miei pensieri, evocando storie di zombi e vampiri vari.
Mentre rifletto sul modo migliore per stabilire un contatto con quell’ombra, il viso grigio tra il grigiore del luogo si solleva dalle braccia e si gira verso di me. L’ombra non parla, ma ora ne intuisco almeno il contorno sfumato del volto. Faccio per avvicinarmi ancora, solo pochi passi, ma l’ombra mi ferma con un gesto improvviso e deciso della mano.
“Buono lì, Edoardo, mica ti è concesso di vedermi quando e come ti aggrada”, l’accento toscano di Santino, così pieno di vita, stride con il grigiore e la morte in cui risuona.
“Perché no, anch’io sono…”, mormoro senza riuscire a finire la frase.
Lui scuote la testa d’ombra e per un attimo, solo per un attimo, mi sembra di vederlo sorridere.
“Macchè morto. È una delle tue solite biscarate”, sbuffa.
Mi guardo ancora intorno, sempre più smarrito. Le lapidi, la pioggia, il senso di freddo e umidità, la paura che mi stringe lo stomaco. È tutto così reale.
“Senti, mi sa che ti hanno conciato male, ma non al punto di essere davvero qui. Però bisogna che tu quando ti ripigli parli con qualcuno”, mi ammonisce l’ombra in tono divertito, “Insomma, mica possiamo sempre incontrarci così”
Annuisco in un gesto sembra surreale. Sto ancora conversando con il mio compagno di senilità alla Villa, solo che è morto. Vorrei farglielo notare e forse in questa situazione assurda riuscirei a riderci sopra con lui, ma l’ombra mi precede.
“Te l’ho già detto, è un casino appena morti, a volte c’è confusione tra i piani dove si dovrebbe rimanere”, poi si interrompe, un attimo. Come pensieroso.
“Ma mi sembra che anche voi state combinando un bel casino su di me”, conclude in tono lontano, come se stesse commentando una faccenda che non lo riguarda più.
“Che vuoi dire, Santino?”
Lui non risponde, osserva davanti a sé, in silenzio e immobile, verso altre lapidi ed altra pioggia.
Socchiudo gli occhi, vorrei cogliere i particolari della sua figura, o forse no, perché li riapro subito.
L’ombra gira ancora il viso verso di me.
Un istante, lungo come la vita di un ago di pioggia che dal cielo si schianta al suolo, poi a torna a guardare davanti.
“Vorresti vedermi davvero per quello che sono, Edoardo? Ma non è questo il modo, te l’ho già detto. Questa è la scappatoia che ti crei perché non vuoi sconvolgerti”
Sospiro di ombra. Dove si scioglie ogni forza di volontà che mi è rimasta.
Inizio ad indietreggiare, ed è già molto, perché in realtà vorrei proprio voltarmi, dare le spalle a questa oscurità, e correre, correre via, ovunque, purché lontano dall’ombra.
Indietreggio e non mi curo di dove finiscano i miei passi.
L’ombra si Santino si volta, ancora, verso di me. Ma non accenna ad alcun gesto per fermarmi.
“Non è la strada giusta, Edoardo, e tu lo sai bene. Se vuoi vedermi davvero, conosci il modo, perché è nel tuo passato”
“No!”, urlo in silenzio,”Non conosco niente!”
“Ci vuole solo coraggio”, sembra rispondermi Santino. La voce è ancora la sua, ma ora echeggia da ogni segreto del cimitero.
Di certo è l’ultima frase che sento prima di inciampare e cadere al suolo. Dove il buio mi attende.
[... continua ...]

Cronologia delle lesioni - terza e ultima parte

LA CRONOLOGIA DELLE LESIONI TRAUMATICHE - terza ed ultima parte -

a cura del dott. Giovanni Sicuranza, medico legale

1. Riassunto.
2. Premessa.
3. Differenziazione tra lesioni vitali e post-mortali.
3.1. Le dimensioni del problema.
3.2. Uno sguardo al passato; la “reazione vitale sistemica”.
3.3. Il metodo istologico.
3.4. I metodi istochimico ed immunoistochimico. Cenni.
3.5. Il metodo biochimico. Cenni.
4. La microscopia elettronica a scansione.
4.1. Elementi fondamentali di microscopia elettronica a scansione.
4.2. La microscopia elettronica a scansione ESEM.
4.3. La microscopia a scansione elettronica nella ricerca dei caratteri di vitalità delle lesioni.
5. Conclusioni.


[….]


3.3. I metodi istochimico ed immunoistochimico. Cenni.

L'esame istochimico è basato sulla dimostrazione di reazioni rese visibili con opportune applicazioni di test chimici sulle sezioni di tessuto da analizzare e sul presupposto che le modificazioni morfologiche sono precedute da fenomeni funzionali, per lo più correlati all'azione degli enzimi[1].
E' quindi intuitivo come l'attività enzimatica dei tessuti cutanei oggetto di lesività traumatica subisca alcune variazioni significative e dimostrabili molto più precocemente di quanto sarebbe possibile con l'analisi morfologica, ossia applicando il metodo enzimo-istochimico.
Per meglio comprendere l'importanza di questo metodo, si consideri che la propensione alla guarigione delle ferite è basata proprio sulle funzioni enzimatiche cellulari e tissutali, tanto da potersi sostenere che "non c'è vita senza enzimi"17.
La metodica, con variazioni dettate dall'esperienza e/o dal materiale disponibile, è di solito la seguente:
a) la zona lesa è tagliata, contestualmente al tessuto sano circostante, per circa 1.5 cm. per lato;
b) metà del tessuto viene fissata per una notte in formalina 10% a + 4° C per la dimostrazione delle attività esterasica e fosfatasica e per le alterazioni istologiche;
c) l'altra metà è immediatamente congelata con isopentano e ghiaccio secco ed utilizzata per evidenziare istochimicamente le adenosintrifosfatasi e le aminopeptidasi17;20.

Tale metodica si basa sull'osservazione di alcuni prodotti formatisi in seguito all'attività enzimatica su specifici substrati, prodotti che, una volta aggiunte determinate sostanze, formano depositi insolubili proprio là dove quest'ultima è presente; quando necessario, tali depositi possono essere resi visibili con l'uso di adeguate sostanze chimiche. In pratica, schematizzando, l'aumento dell'attività enzimatica è dimostrato da un'intensificazione del colore, mentre la riduzione dell'attività enzimatica è svelata da una diminuzione del colore.
In funzione all'attività enzimatica, dunque, la ferita vitale può essere suddivisa in due zone21;22:
a) una zona centrale, in corrispondenza dell'immediata vicinanza del bordo della ferita, superficiale, di 200-500µ di spessore, in cui si osserva una diminuzione dell'attività enzimatica, espressione di necrosi imminente; poiché nessuna simile diminuzione di attività enzimatica si osserva nelle ferite provocate dopo la morte, i fenomeni regressivi di tale zona possono essere definiti reazione vitale negativa20;
b) una zona periferica, circostante la precedente, dello spessore di 100-300µ, in cui l'attività enzimatica risulta aumentata, in relazione, tra l'altro, a meccanismi di adattamento difensivo delle cellule connettivali come risposta enzimatica al trauma. In analogia a quanto sopra esposto, tale aumento si può definire reazione vitale positiva, poiché nessun aumento simile è ravvisabile nelle lesioni dopo la morte20;22.

Quindi, l'evoluzione della reazione vitale positiva permette una ricostruzione soddisfacente della cronologia delle lesioni traumatiche provocate prima della morte, purché queste si verifichino almeno un'ora prima 17;18; inoltre, tale ricostruzione risulta in genere possibile anche a distanza di parecchi giorni dal decesso.

Si tenga tuttavia sempre a mente che quando si indaga su materiale biologico, umano nella fattispecie, la determinazione cronologica subisce eccezioni.
Come già accennato in precedenza riguardo alla guarigione delle ferite, alcuni fattori, quali la senilità avanzata, la cachessia, la coesistenza di traumatismi multipli e gravi, possono rallentare l'attività enzimatica10;18, mentre nessuna influenza avrebbero l'emorragia e le fratture craniche24; opinioni contrastanti si hanno sul ruolo della bassa temperatura ambientale circostante: infatti, secondo alcuni Autori18, questa rallenterebbe l'attività enzimatica, mentre secondo altri non avrebbe alcun ruolo di rilievo24.


I metodi dell'istochimica enzimatica rappresentano una valida guida nell'attribuzione cronologica approssimativa delle lesioni traumatiche, rivelando i cambiamenti vitali che si verificano sulle ferite cutanee inferte anche un'ora soltanto prima della morte e quindi restringendo il periodo di latenza dell'istologia "classica".
Tali metodi sono in continua evoluzione, attraverso lo studio e la sperimentazione dell'attività di ulteriori sostanze enzimatiche[2].
La metodica immunoistochimuca è utilizzata per ricercare sostanze specifiche nelle substrutture cellulari.
In genere si marca l'anticorpo ricercatore (il “segugio” che percorrerà il “sentiero” della ferita) con l'utilizzo di una sostanza opaca agli elettroni (come la ferritina, la diaminobenzidina, oppure lo iodio radioattivo), per visualizzare l'antigene specifico (la “preda” presente nelle ferita) dando luogo ad un complesso antigene-anticorpo; occorre tenere presente alcuni accorgimenti tecnici, che in parte, come la fissazione, sono generalmente validi anche per gli altri metodi; senza dilungarsi in particolari complessi, e che esulerebbero dallo scopo della trattazione, in modo molto succinto si ricorda che tali accorgimenti riguardano:
a) Fissazione: una fissazione con formalina tamponata al 10% per 24h, consente di ottenere risultati ottimali, a fronte di costi estremamente contenuti.
b) Sistemi di smascheramento antigenico: tipo e tempi di smascheramento condizionano in modo significativo il risultato finale.
c) Anticorpi primari: l’utilizzo di un anticorpo rispetto ad un altro può influenzare il risultato finale, infatti purezza e concentrazione del prodotto usato sono elementi di fondamentale importanza.
d) Sistemi di rilevazione: anche la scelta di questo tipo di sistema può influenzare notevolmente il risultato finale.
Poniamo ad esempio che l’antigene-preda da ricercare nella ferita sia il collagene, una proteina fibrosa che prende parte alla costituzione di pelle, tendini e ossa, ed è suddivisibile, a secondo della struttura, in diversi numeri romani.
Gli studi immunoistochimici concernenti il collagene di tipo IV, uniti a quelli del collagene di tipo VII, hanno permesso l’acquisizione di nuovi elementi utili alla datazione delle ferite; infatti, i frammenti della membrana basale sono individuabili a partire dal 4° giorno e sono costantemente osservabili tra il 13° e il 22° giorno circa, dopo il quale si osserva la completa restitutio ad integrum della membrana basale, che comunque si può già evidenziare a partire dall’8° giorno.


3.4. Il metodo biochimico.

I metodi istochimico ed immunoistochimico, pur raccorciando il periodo di latenza di attribuzione cronologica delle lesioni vitali, lascia aperto un interrogativo fondamentale: come scoprire e datare le ferite inferte da un'ora prima del decesso fino al limine vitae?
L'applicazione del metodo biochimico nella patologia forense ha contribuito a rispondere a tale domanda.
Infatti, poiché nelle prime fasi della risposta infiammatoria acuta compaiono l'istamina (sostanza presente in alcuni tessuti che provoca dilatazione dei capillari; in particolare, a livello microscopico, è contenuta nei granulociti basofili e nelle mastcellule) e la serotonina (sostanza presente nelle piastrine, anch’essa in grado di provocare dilatazione dei vasi), ne consegue che la ricerca di queste due amine vasoattive, la cui presenza rappresenta dunque segno certo di vitalità, costituisce un metodo efficace per la diagnosi cronologica delle ferite traumatiche.
Prima Fazekas, nel 196527, poi Berg28, Raekallio e Makinen29, nel 1966, hanno descritto un aumento dell'istamina libera nei solchi degli impiccati, a differenza della sospensione di cadavere.
Nelle ferite avvenute precedentemente alla morte è stato osservato un incremento del contenuto di istamina libera del 50% rispetto al tessuto indenne circostante nei primi 20-30 minuti dopo che si è determinata la lesione. L'aumento della serotonina è più precoce, osservandosi già dopo i primi 10 minuti, con un secondo periodo che va dai 40 minuti alle 2 ore, e molto più sensibile, essendo pari al 100%. Alcuni Autori30 hanno descritto le variazioni delle due amine nelle ferite inferte nell’ultima ora prima della morte, così schematizzabili:
a) 0-5 minuti: lieve aumento o decremento dell’istamina ed aumento della serotonina;
b) 5-15 minuti: aumento dell’istamina superiore all’aumento della serotonina;
c) 15-60 minuti: aumento della serotonina superiore all’aumento dell’istamina.

Sono utilizzati molti altri markers, in una ricerca in continua evoluzione, ma, per non appesantire il nostro argomento, ci fermiamo qui.

Ed entriamo in un mondo tridimensionale.


4. Il Microscopio Elettronico a Scansione (SEM)

4.1 Elementi fondamentali di microscopia elettronica a scansione.

Il microscopio elettronico a scansione è diventato un importantissimo strumento di indagine per la medicina legale e la ricerca in generale. Il S.E.M. è entrato nel mondo dell'indagine forense da un tempo che possiamo considerare relativamente breve, ma la enorme versatilità di questo sistema, peraltro universalmente riconosciuta, ha fatto si che questo strumento, soprattutto quando abbinato ad un sistema di microanalisi chimica elementare, assumesse immediatamente una posizione di rilievo e di crescente sviluppo.
I SEM godono di considerevoli vantaggi rispetto agli altri microscopi in molte importanti misure di prestazioni. Le più importanti sono:
a) la risoluzione;
b) la profondità di campo;
c) particolari di diversa altezza sulla superficie del campione rimangono a fuoco;
d) la microanalisi (capacità di analizzare la composizione del campione);
e) l'osservazione non distruttiva (i campioni possono essere recuperati con modesti artefatti di fissazione e metallizzazione)49.
Tutti i SEM consistono in una colonna elettronica che crea un fascio di elettroni, in una camera dove il fascio di elettroni incontra il campione, in sensori che scansionano una varietà di segnali che risultano dall’interazione fascio-campione, in un sistema di visualizzazione che costruisce un'immagine del segnale.
Un emettitore di elettroni alla sommità della colonna genera il fascio di elettroni. Al suo interno un campo elettrostatico dirige gli elettroni emessi da una regione molto piccola (filamento) sulla superficie di un elettrodo attraverso un piccolo punto chiamato crossover. Quindi l'emettitore accelera gli elettroni della colonna verso il campione con energie che variano tipicamente da poche centinaia a decine di migliaia di elettronvolt.
Ci sono molti tipi di emettitori: tungsteno, La B6 (lanthanum hexaboride) e emissione di campo. Nonostante i diversi tipi di materiali impiegabili per la costruzione degli elettrodi l'obiettivo è generare un fascio diretto di elettroni che sia stabile, con una corrente sufficiente e con il più piccolo diametro possibile.
Gli elettroni emergono dall’emettitore come un fascio divergente, mentre una serie di lenti magnetiche e di aperture nella colonna riconverge e focalizza il fascio.
Gli elettroni secondari emessi dal campione sono raccolti per scansione dell'intera superficie, in modo da poter ricostruire l'intera superficie di emissione50.
4.2. La microscopia elettronica a scansione ESEM

Il SEM iniziò ad apparire commercialmente nella metà degli anni '60. Per il fatto che dava vantaggi rispetto agli altri microscopi, divenne velocemente uno strumento indispensabile in un ampia gamma di applicazioni scientifiche. Sebbene l'industria del SEM perfezionasse la tecnologia con continui miglioramenti di prestazioni e praticità, lo strumento rimase fondamentalmente invariato per circa venti anni. In questo periodo le limitazioni principali, nella tecnica generale di analitica e di immagine, furono le restrizioni che si imposero sui campioni, richiedendosi un ambiente a vuoto "spinto"; il campione doveva quindi essere pulito, asciutto e condurre elettricamente. L’enorme quantità di tecniche sviluppate per la preparazione dei campioni per il SEM è un riconoscimento alla bravura e alla tenacia dei microscopisti nonostante la limitazione del vuoto "spinto".
Verso la metà degli anni '80 si sviluppò l’ESEM, o SEM ad ambiente variabile per la sua principale e vantaggiosa caratteristica di permettere al microscopista di variare l’ambiente del campione nella pressione, nella temperatura e nella composizione dei gas51.

4.3. La microscopia a scansione elettronica nella ricerca dei caratteri di vitalità delle lesioni.

I settori di impiego della microscopia elettronica sono molteplici; infatti questo tipo di tecnologia può trovare applicazione in quasi tutti i campi delle investigazioni scientifiche, nella balistica, nella chimica, nella biologia, persino nella grafica.
Si può quindi considerare questo strumento come di supporto per quasi tutti i settori delle scienze forensi; in particolare le aree di applicazione possono essere così suddivise:
1) patologia e traumatologia medico legale;
2) balistica;
3) identificazione personale;
4) sopralluogo;
5) tossicologia ed ematologia forensi.
Nuove frontiere vengono allargate nello studio della diagnosi differenziale fra lesione inferta su un tessuto vivente o non vivente L'osservazione microscopica, nel documentare gli aspetti figurativi di una reazione vitale, si serve di reazioni colorative per aumentare la precisione d'indagine; tali reazioni consistono ad esempio nell'amplificazione delle aree di fibrina rispetto al tessuto circostante e delle zone a più alto contenuto in ferro (elemento peculiare del pigmento emoglobinico), ma mal si adattano alla diagnosi di particolari condizioni fisico-chimiche del tessuto (fissazione, aspetti degenerativi). Al contrario la microscopia a scansione elettronica offre il vantaggio di acquisire dati importanti anche da tessuti in non perfette condizioni.
Tali possibilità permettono l'applicazione di questa indagine strumentale non solo alle lesioni da azione tagliente, ma anche ai traumatismi contusivi, alle ustioni ed alle elettrocuzioni (traumatismi da elettricità professionale e domestica).

Nello studio dei microtraumi l'impiego della microscopia a scansione elettronica e della microanalisi, in quanto indagine non distruttiva, permette di iniziare lo studio e l’osservazione di un reperto già nei primi stadi del processo identificativo senza escludere la possibilità di ulteriori indagini con metodiche diverse. La microscopia S.E.M. è importante come supporto alle fasi iniziali della ricerca identificativa e per la caratterizzazione dell’agente lesivo e delle sue modalità d’azione.
La possibilità poi di prelevare il segnale SEM in forma digitale continua permette di allestire nastri VHS anche a scopo didattico; in più, la documentazione può essere facilmente scritta in formato grafico per PC, con l'ulteriore vantaggio di poter eseguire anche a distanza di tempo elaborazioni elettroniche di immagine. L'analisi di immagine in fase differita può essere accompagnata anche da tecniche di digitalizzazione a falsi colori utili non solo sul piano dell'estetica della presentazione dell'immagine, ma anche per la possibilità di aumentare i contrasti e la significatività per l'occhio umano di particolari interessanti e non marginali.
Quanto alle possibilità offerte per l'azione penale è da affiancare al criterio di ripetibilità sopra accennato la possibilità di eseguire, sempre in forma ripetibile, analisi chimiche inorganiche della superficie del campione raccolto, tramite raccolta di elettroni secondari (backscatter) o di fluorescenza X (microanalisi): ciò è di evidente interesse soprattutto per l’indagine balistica ma anche per quella criminalistica.


5. Conclusioni.

Nella medicina legale è molto importante stabilire se una lesione traumatica sia intravitale, e in questo caso detrminarne l’età rispetto all’evento morte, o postmortale, in quanto tale problematica è carica di implicazioni rilevanti sia sul piano giuridico, sia su quello della ricerca.
Purtroppo l’esatta determinazione dell’età di una lesione rappresenta ancora un ipotetico desiderio, poiché, nonostante i metodi attualmente a disposizione e quelli in continua fase di sperimentazione, si può arrivare solo ad una stima approssimativa, tanto più imprecisa quanto più tempo è trascorso dall’epoca del ferimento.
In sintesi, le lesioni collocabili da quattro o più ore dalla morte possono essere riconosciute istologicamente, quelle datate più di un'ora prima dal decesso possono essere caratterizzate con l'istochimica e la immunoistochimica, mentre le ferite insorte entro un’ora dalla morte possono essere datate ricorrendo alla biochimica.
In teoria, comunque, tutti questi metodi, seguendo le varie fasi dell’infiammazione e della riparazione tissutale da diverse, ma integrabili “prospettive”, permettono di abbracciare completamente l’età della lesione, andando dal più ampio al più ristretto margine di tempo.
Tuttavia, nella pratica, solo l’esame istologico, con lo studio delle varie fasi dell'infiammazione nelle sue componenti cellulari, rimane assolutamente preferibile, rappresentando una procedura basilare in ogni caso di indagine peritale che miri a stabilire la cronologia di una lesione: richiede relativamente breve tempo per la preparazione e la visualizzazione del materiale e, aspetto di non secondaria importanza, non necessita di attrezzature di complessa esecuzione ed interpretazione, non sempre alla portata di chi non sia un tecnico specialista e comunque di chi non abbia una lunga ed acquisita esperienza settoriale.
Infatti, pur non sminuendo o negando la validità degli altri metodi, che peraltro non sempre hanno portato a risultati univoci, è tuttavia importante considerare l’aspetto pratico del problema: stabilire la cronologia delle lesioni traumatiche, nella routine dell’indagine forense, richiede metodi alla portata del professionista, validi, specifici, di non complessa e/o lunga esecuzione, di basso costo e standardizzabili[3].
Inoltre, perché un metodo di indagine sia trasferibile agli scopi pratici, tali problematiche riguardano anche la ricerca dei markers: dovranno certamente essere selezionati quelli con il più breve intervallo di latenza, ma anche con differenze quantitative e/o qualitative statisticamente significative tra intra vitam e post mortem, nonché con una buona e duratura stabilità post mortem.
Quindi si può affermare che il metodo istologico, con l'evidenziazione di markers delle varie fasi infiammatorie, sia non solo preferibile, ma anche indispensabile; ovviamente particolare attenzione andrà posta nel raccogliere campioni puri, non contaminati, che sovvertirebbero i risultati e la validità metodica; bisognerà inoltre premunirsi di avere sempre campioni di controllo, prelevandoli dalla cute indenne circostante, a causa di differenze anatomotopografiche e biologiche individuali.
Occorre altresì ricordare che le reazioni vitali possono essere falsate da artifizi di tecnica autoptica, ad esempio per contaminazione del tagliente, o istologica, oppure da fenomeni trasformativi (vedi la fase putrefattivi).
Bisognerà anche prestare particolare attenzione nel riconoscere quei singolari aspetti di reazioni solo apparentemente vitali causati da manovre rianimatorie.
Si consideri ad esempio come la ventilazione meccanica possa imitare una reazione vitale fondamentale, cioè la dilatazione alveolare conseguente all'inizio della respirazione, oltre a quadri di enfisema bolloso o interstiziale58; oppure come il massaggio cardiaco esterno (M.C.E.), quando si verificano fratture costali, possa dar luogo ad embolie adipose postmortali, con infiltrazione di frustoli o di singoli elementi di midollo emopoietico nei focolai di fratture costali59, ciò può portare a dubbi o errori istocronologici, a causa della ricca presenza di elementi nucleati nel sangue midollare, che può simulare una reattività tissutale per notevole presenza di leucociti ed istiociti. In genere, il M.C.E. può dare luogo a bizzarrie microemboliche, come nei casi di embolizzazione retrograda di frustoli di midollo osseo nelle vene cardiache58.
E' dunque chiaro come il perito debba sempre tenere conto delle manovre rianimatore, conoscendone la tecnica, al fine di potere distinguere le reazioni da queste provocate da quelle vitali.
Altro aspetto da considerare sempre accuratamente è la dinamica lesiva, che, soprattutto quando causata da gravi traumatismi, può manifestare aspetti di pseudovitalità; si pensi ad esempio al caso di un motociclista investito e sormontato da un autoarticolato, con fratture cranio-facciali e toraciche, e lacerazioni multiorganiche, compresa un'importante lacerazione encefalica associata alla lacerazione della dura madre (una delle membrane che proteggono l’encefalo), in cui l'esame istologico riveli la presenza di tessuto cerebrale in un vasellino proveniente dalla regione epatica, cioè da fegato!58. Oltre all'ipotesi di embolia tissutale cerebrale a carattere vitale, bisognerebbe pensare anche ad una contaminazione dovuta alla procidenza endotoracica dei visceri adominali, che in seguito alla violenta e forte pressione sono proiettati in alto, oppure ad un trasporto passivo, dal basso all’alto, lungo il sistema venoso.
Questa precisazione è necessaria al fine di evidenziare l'importanza di conoscere anche le possibili dinamiche delle alterazioni pseudovitali, alle quali va assegnato il loro significato particolare, differenziandole dalle reazioni vitali, per non incorrere in grossolani errori di cronologia dell’evento morte e di diagnosi di causa della morte.
Non meno importante è una tecnica di prelievo mirata e ben eseguita, così come particolare cura dovrà essere prestata nel trasporto e nella conservazione del materiale organico prelevato; in tale senso, le indicazioni pratiche sono descritte in modo dettagliato nei testi dedicati alle tecniche istologiche e all’istopatologia forense, ma è ovvio che soprattutto l’esperienza sul campo renderà il professionista in grado di eseguire esaustivamente il proprio lavoro.
Infine, affinché l’opera del perito sia completa, sarà indispensabile che il metodo istologico venga preceduto dall’attenta osservazione macroscopica delle lesioni ed integrato dal sopralluogo, meglio se immediato, nonché dall’acquisizione della documentazione, da un’accurata disamina degli atti, da eventuali interrogatori di testi e da approfondite ricerche bibliografiche che aiutino a comprendere le varie problematiche del caso di specie; anche la documentazione fotografica, possibilmente unita a tecniche di visualizzazione computerizzata, è da ritenersi necessaria.
Quando adeguatamente integrato dalle suddette procedure, il metodo istologico sarà sufficiente in molti casi a determinare la cronologia delle lesioni, preferibilmente adoperando più colorazioni in modo da avere un quadro più ampio e dettagliato delle varie tipologie cellulari presenti.
In atri casi, soprattutto nel sospetto di lesioni in limine vitae, in caso di più lesioni susseguitesi in un tempo molto ristretto, o per rispondere confacentemente a specifici quesiti giudiziari, tale metodo andrà completato da ulteriori metodiche di ricerca, come quella immunoistochimica o biochimica, o servendosi, quando possibile, delle alte potenzialità della microscopia a scansione elettronica.
A tale proposito, sarebbe auspicabile la creazione di Centri specializzati, validamente attrezzati (ad es. con apparecchiature ESEM) e in grado di coprire territorialmente le esigenze d’indagine e di ricerca.
In tali casi, che esulano generalmente dalla comune pratica medico-forense, sarà opportuno affidarsi all’aiuto di uno specialista in grado di allestire ed interpretare correttamente i vari markers adeguatamente selezionati.
Malgrado gli indubbi progressi sperimentali, come evidenziato anche dal presente lavoro, emerge ancora la necessità di perfezionare una serie di metodi in grado di individuare e gestire markers specifici, di breve latenza e stabili, al fine di individuare nel modo più preciso possibile le lesioni intra vitam, in limine vitae e post mortem.
Nel frattempo, è auspicabile che nella routine medico-legale l’indagine istologica integri in ogni caso l’osservazione macroscopica, sensibilizzando al contempo l’Autorità Giudiziaria sull’indubbia utilità di effettuare sempre tale metodica, da affiancare, in casi specifici e particolari, a metodi di indagine più precisi, ma necessariamente più complessi e costosi.
Differenziare cronologicamente le lesioni traumatiche rimane dunque una questione ancora aperta, che tuttavia, lungi da giustificare un atteggiamento rinunciatario, dovrà al contrario spingere l’attività medico-forense a farsi carico di una ricerca necessariamente impostata su scala interdisciplinare.

Giovanni Sicuranza, medico legale


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[1] Si tratta per l'appunto di proteine aventi la proprietà di catalizzare le reazioni biologiche.
[2] Per ulteriori dettagli relativi ai markers si veda il paragrafo 3.6.
[3] A tale proposito, si ricorda che standardizzazione significa garanzia di riproducibilità dei risultati, sia intralaboratorio che interlaboratorio: un dato risultato, cioè, deve essere sia ripetibile nel tempo all’interno del laboratorio, anche se eseguito da personale tecnico diverso, sia confrontabile con quello ottenuto in altri laboratori.