mercoledì 27 giugno 2007

scorci

scorci - homo interrogans -

Adagiati sulla penombra della collina
romanzi di lapidi
narrano silenzi gonfi di parole.

Vestono copertine di marmo
tra rughe di compleanni incise
sulla vita e sulla morte.

Le pagine hanno il colore
segreto delle ossa e dei liquami
e il suono secco dei ricordi appassiti.

Troppo fragili sono le mani
del vento per sfogliare
i loro capitoli rigidi di nebbia.

Troppo deboli gli occhi
del sole per leggerne
lo stile affondato di putredine.

È tempo anche per te di allontanarti,
visitatore, di tornare agli orgasmi
e ai livori dei tuoi respiri crepuscolari.

Noi rimaniamo qui, in attesa, fin quando

saremo anche i tuoi epici scrittori.
I vermi della terra grondante ispirazione.

venerdì 22 giugno 2007

il guerriero

il guerriero*
di homo interrogans (Giovanni Sicuranza)

Sotto l’ombra del pugno sollevato, ha occhi plasmati da indifferenza.
E colpisce, la mano serrata nella negazione assoluta di ogni parola, colpisce, il riverbero del sangue adagiato sul trionfo dell’unica ragione della sua esistenza.
E nel silenzio che sorge quando infine si ferma, rimane solo il deserto di quello sguardo lungo di indifferenza.
Intorno, aria immobile di vittoria è sparsa su un campo di corpi sconfitti.
Ora che anche l’ultimo nemico giace sotto la lapide della battaglia, il guerriero inizia a muoversi su se stesso, senza nemmeno concedersi il dubbio di barcollare.
Occhi di ghiaccio fendono i cadaveri dei suoi nemici ed hanno lo stesso alito di nulla con cui ogni volta sfida la morte.
È un gioco, solo un gioco per lui, in fondo anche noioso, perché contempla sempre la stessa speranza, per trasformarla in regola. Almeno fino a quando sarà possibile.
Uccidere. Senza essere ucciso.
***
- Per oggi basta, Achille -
Il bambino finge di non avere sentito.
Lei annuisce. Anche prima di entrare nella sua stanza soffusa di alcool e siringhe, già sapeva che avrebbe dovuto ripetersi per raggiungere l’attenzione di lui, vagabondo in un angolo dove la vittoria ha un senso.
Achille è seduto nel letto, sparso tra soldati immobili in un lenzuolo ora così simile ad un pesante sudario da spingere il fiato della madre ad esitare sulle labbra prima di diventare nuova parola.
- Ti stanchi - riesce infine ad aggiungere mentre adagia le mani sulle sue spalle, inclinate di dolore e pianti – Finirai il gioco domani -
Allora il piccolo si affloscia, senza protestare, senza nemmeno il sussurro di un gemito, così, come un sacco pieno di niente che si è improvvisamente ricordato della legge di gravità.
La donna ha un sussulto perché in quel gesto vede la morte del figlio, svuotato dalla leucemia. Fotogrammi che si aggiungono a fotogrammi, in una lenta caduta grigia più tenace di ogni cura, più evanescente della nebbia che scivola su Fine Viaggio.
E respira in singhiozzi, a chiedere aria in una marea nera di angosce, perché l’aspetto più alienante di questi fotogrammi è che quando arrivano le danno anche sollievo.
Sollievo per il termine delle lunghe sofferenze in attesa del lutto. Per un sipario finalmente calato su una tragedia senza intervallo.
- Mamma, li togli tu i soldatini? – sussurra il piccolo Achille, steso nel letto a pancia in giù, già affannoso nel livido respiro della morte.
Gli occhi aperti in quelli della madre mostrano vetrine infrante di sogni.
Lei non risponde, non annuisce, cerca solo di muoversi in gesti automatici.
Veloce raccolta dei soldatini
(dei cadaveri)
caduta in massa nella scatola
(nella tomba)
e occultamento del tutto nell’armadio
(nel cimitero)
E perde la presa, in un tonfo lungo, fasciato di ricordi.
La scatola si inclina indecisa in un angolo del mobile, poi, sfinita, gira su se stessa e precipita sul pavimento, dove la sua bocca si spalanca per vomitare corpi disordinati di soldatini.
La donna la guarda con grandi occhi lontani.
È una delle scatole rosse e gialle regalate dal maestro Amedeo Lontano ai suoi alunni. Doveva servire a raccogliere le foglie cadute, quelle che un tempo le facevano tanto paura, perché morte. Poi il maestro aveva raccontato una storia in cui la paura era scivolata tra pieghe della vita e anche lei, come tutti gli altri, aveva accettato quel dono.
Pochi giorni dopo, quasi tutte le scatole erano sfumate tra macerie e piccoli cadaveri nel terremoto che aveva spezzato Fine Viaggio.
Lei, la bambina più terrorizzata dalla morte, era stata l’unica sopravvissuta del crollo della scuola elementare. Grigia tra la polvere, l’avevano trovata con una scatola rossa e gialla ben stretta in mano.
Da allora non se ne era più separata, ma la scatola era rimasta vuota di foglie appassite.
Fino a quando non l’aveva riempita con i giochi del figlio.
- Tutto bene, mamma? – scivola fragile Achille in tutto lo spazio silenzioso del suo passato, presente e futuro.
La donna si gira con il sorriso indossato da quei giorni, forse un po’ più logoro, ma ancora convincente.
- Mi è solo caduta la scatola. Si vede che i tuoi soldatini si sono mossi. Tranquillo, piccolo – conclude più per accompagnare se stessa verso questo nuovo lutto che per rassicurare il figlio.
Achille ricambia con un sorriso pieno di smagliature.
- Ma dai mamma, i soldatini non si muovono più. Sono tutti morti – un gorgoglio salta sul suo respiro e lo costringe a interrompersi. Solo un attimo, però, perché il piccolo guerriero non ha ancora perso la forza di un ultimo giorno di vita.
- Loro sono come quelle cose brutte che camminano nel mio corpo –
Alza il braccio, piano, in uno sforzo sorretto da un gemito nella luce che sussurra dalla penombra del tramonto, fino a mostrare la mano chiusa su un pupazzo, più grande degli altri.
– Per questo Guerriero li stermina ogni giorno - soffia in un pallore di respiro.
Lei rattoppa veloce nuovi squarci che si aprono nel sorriso e gli porta un bacio con un gesto della mano, sperando che il figlio non ne scorga il tremore.
Solo quando si volta ancora un’ultima volta verso di lui, mentre già esce dalla stanza, si accorge che il soldato dipinto di sangue sembra osservarla, colmo di indifferenza tra gli occhi di vetro.
Ne scorge anche il braccio sollevato.
E il pugno. Serrato, come quello del figlio.
A stringere il nulla.

* racconto inserito nell’antologia “Città di Solitudine” di homo interrogans, lucifera, sandrolorena.

martedì 19 giugno 2007

una poesia, addirittura


Altra Casa Editrice superbamente e graditamente "folle".
La mia poesia "a un figlio" è infatti presente nella raccolta "Poesie da Neteditor", AA.VV., Giulio Perrone Editore.
Per informazioni varie e soprattutto eventuali rimando al link:
http://www.giulioperroneditore.it/collane/lantologica/poesie_da_neteditor_aa_vv

sabato 16 giugno 2007

tra le "penombre" di un mio racconto

Un'altra Casa Editrice è risultata graditamente folle, al punto di pubblicare anche "penombre", un mio racconto, nell'antologia noir "Il delitto si tinge di verde" .

Di prossima uscita.

Per gli interessati, rimando al link:
http://www.zaffoni.it/criminal.htm

venerdì 15 giugno 2007

il violinista

il violinista*
di homo interrogans

Il capriccio graffia le pareti dell’uomo fino a gettarsi nelle sue profondità, riempiendole di note lontane. Lui continua, continua a sottostare all’emozione che libera il suo deserto e suona, silenzio pieno di accordi di violino, davanti ad un pubblico di nulla.
Le dita di una mano che camminano sulla tastiera, corrono, si fermano, tornano indietro e ricominciano; quelle dell’altra mano che si arrampicano sull’archetto, lo solleticano, lo ghermiscono e concedono solo lampi di pausa prima di un nuovo inizio.
L’uomo è un pendolo libero nello spazio che si muove con le note.
Il capo reclinato sulla mentoniera, verso i salti dell’archetto, gli occhi chiusi nell’immagine di una donna mai conosciuta e di una figlia mai nata, seduti. In ascolto.
E all’improvviso, con un singulto di note spezzate, il violino smette di eseguire il Capriccio lento in sol minore di Niccolò Paganini e si affloscia trascinato al suolo dalla caduta del braccio.
Il maestro Camillo Fadore, professore di musica in pensione, apre gli occhi, piano, come gli accade sempre in questi casi. Davanti a lui, una porta incrostata di bianco è chiusa su una parete spoglia, dove solo la grafia del gatto randagio del palazzo ha lasciato tracce di vita.
La musica riempie l’animo, Camillo Fadore, non le case.
L’uomo striscia i piedi verso la cucina, museo incustodito di reperti archeologici mai classificati: stoviglie colonizzate da residui di cibo, vite spente in simbiosi tenace, sparse in un caos immobile che concretizza i suoi pensieri di solitudine.
Il maestro Camillo Fadore ignora i cadaveri di piatti e bicchieri che reclamano almeno una degna sepoltura e versa il caffé ormai freddo in una tazzina superstite.
Un solo istante, un pigolio di desiderio che supplica da qualche parte nella sua mente. Si ferma, la tazzina che sfiora le labbra. Chiude gli occhi.
***
- Amore – sussurra delicato nella fragile penombra della stanza, chinandosi come un orco sulla preda ancora addormentata nel letto – Ti ho portato il caffé – aggiunge sfiorando la donna con un bacio che scivola dalla guancia fino al collo, libero dai lunghi capelli ramati. Lei mormora nel dormiveglia, come una bambina da coccolare, si gira con un gemito invitante verso di lui, e scopre ancora di più la delicatezza del collo. Lui le sorride e l’azzanna fino in fondo, oltre la pelle, lacerando i muscoli, stritolando la cartilagine in un tripudio di sangue.
***
- Eh – commenta riaprendo gli occhi, con un sospiro di soddisfazione e si lascia riempire dal gusto amaro del caffé.
Senza muoversi, si perde oltre la finestra, lo sguardo che sale sulla collina e infine, giunto in cima, si riposa tra i contorni grigi di silenzio che svelano le mura del cimitero. Allora alza la tazzina nel gesto di un brindisi e accenna ad un assolo di sorriso.
- A te, Cimitero di Solitudine -
Il cimitero risponde al saluto soffiando verso di lui nuove fantasie di morte.
***
- Esco, papà – esclama la piccola zampettando sulle scale. Lui si sente raggiungere da un punto esclamativo, solitario, ma deciso.
Depone il violino nella custodia, vellutata di viola e spalancata come una bara in attesa, e si avvicina alla figlia.
- Mi aspettavo un punto interrogativo – dice, cercando toni allegri tra le note.
La figlia ciondola indecisa tra la porta e lui.
- E dai. Sono in ritardo – sbuffa in un vapore di incomprensioni.
- Hai ragione – annuisce lui, colpito da questa rivelazione – Vieni qui solo un attimo, a dare un bacio al tuo papà –
La piccola si illumina di immenso e si getta tra le braccia spalancate del predatore, senza vederne i denti affilati.
- Ti voglio tanto bene, papà – soffia poco prima del suo ultimo respiro. Poi si spegne al suolo, con aria finalmente interrogativa, il coltello da cucina affondato nella nuca.
***
Un rumore inaspettato fa calare il sipario troppo in fretta, tanto che il maestro Camillo Fadore torna alla realtà con un singhiozzo.
Si affaccia alla porta della cucina proprio mentre il rumore si ripete. Qualcuno sta rovistando tra i cassetti dell’armadio.
Il maestro sospira e mesto si trasporta verso la stanza da letto.
Credeva di essere davvero solo in casa, almeno oggi, invece.
- Ciao –
- Sorpreso di trovarmi qui? – sbotta l’altro con occhi canzonatori.
- No, non proprio. Ma speravo di essere lasciato in pace –
- Lasciato alle tue fantasie di morte, vorrai dire. Ma, tranquillo, vado via subito. Volevo solo salutarti prima della partenza –
- Magari ci rivediamo –
- Magari no –
Uno spiffero d’aria spinge la porta della cucina in un tonfo di chiusura. I due uomini si voltano verso il suono, secco e assoluto come uno sparo, poi tornano a guardarsi.
- Hai lasciato le finestre aperte – commenta l’altro senza interesse.
- Volevo respirare un po’ –
- La nebbia di Fine Viaggio? –
- La speranza di Cimitero di Solitudine –
- Allora hai deciso –
- Mi conosci da così tanto tempo. Non hai bisogno di stupirti –
Gli occhi dei due uomini non smettono di fissarsi nell’esumazione di ricordi imputriditi.
- Hai iniziato a suonare per riempire la tua solitudine. E il violino stride di vita. È per questo che hai voluto anche insegnarlo -
- Portavo la vita, l’unica che conosco –
- Ma poi anche il violino taceva e non ti rimaneva mai nulla in mano –
- Forse sì, forse sarebbe accaduto se avessi incontrato una donna appassionata dalla mia musica. Forse le note sarebbero rimaste negli accordi del suo sguardo ammirato, nel ritmo dei suoi respiri sospesi. Ed io mi sarei sentito vivo, ancora –
- E come lei, immaginavi tutta la famiglia –
- Ho sempre desiderato una figlia, lo sai –
I due uomini annuiscono, in una complicità che li ha uniti senza ritorno.
- Soprattutto da quando hai ucciso quella bambina, la tua prima allieva –
- Non aveva amore dopo le mie note. Lasciava spegnersi la musica e diventava assente, persa nei giochi, negli appuntamenti con le amiche. Così, ogni volta, mi lasciava solo. Il violino ed io. E lei che se ne andava –
- Ed hai iniziato ad odiarla. Fino ad odiare anche la tua famiglia inesistente –
- Sì –
- Fino ad ucciderli nella fantasia ogni giorno –
- Sì –
- Come hai ucciso altri allievi nella realtà –
- Sì –
- Ed ora –
- Ora non mi rimane altro che il livore della mia solitudine. Del mio silenzio. Niente più note prive di ascolto. Niente più assenze di ammirazione –
Il viso del maestro Camillo Fadore è accarezzato da lacrime sottili e discrete che luccicano di speranza attraverso lo specchio dell’armadio.
Anche la sua immagine riflessa piange, proprio come lui, e continua a parlargli
- Forse ora ti senti meglio. Il veleno che hai messo nel caffé dovrebbe già fare effetto-
- Sì – annuisce il violinista e con lui l’immagine riflessa, in una complicità indissolubile fino alla morte – Ora è tempo di salutarci, sento che le forze mi abbandonano –
- Stammi bene, Camillo –
E i due uomini, uno davanti allo specchio, uno all’interno, chiudono insieme gli occhi.
***
Miao, gatto vagabondo di Fine Viaggio, è improvvisamente distolto dal suo meticoloso leccare di zampe. Il tonfo del corpo che cade al suolo lo spaventa e lo spinge ad abbandonare in tutta fretta il comodo giaciglio creato tra le cornici prive di foto che ha sparso sul pavimento. Con un balzo attraversa la finestra della stanza e atterra nel balcone sottostante. Qui, con cura, continua ancora un po’ la sua toilette.
Poi, finalmente tranquillo, ondeggia tra le piante incolte di Carmen e della sua amica professoressa.

*racconto inserito nell’antologia “Città di Solitudine”.

parola

parola
di Giovanni Sicuranza

Una sola parola, ripetuta in rapida successione.
Piena. Assoluta.
La sento arrivare fino al mio stomaco, riempirlo così tanto che ogni volta il diaframma si blocca.
Quando ricomincio a respirare, la parola torna.
Non riesco a trovare il tempo per capire, qui, piegato sulle mie paure, chino sul suolo scivoloso di feci.
Nevicano escrementi dai pipistrelli appesi sopra la mia testa. Ma non voglio protestare, rischierei di svegliarli tutti, centinaia, migliaia, e di essere travolto dalle loro ali ubriache di cecità.
Ed ora basta, silenzio, la parola torna, mi rotola dentro.
Il diaframma si inarca di paura. Poi tace.
***
- Lascia perdere, lo abbiamo perso -
- Perché? –
- Perché è morto, direi –
- Intendo, perché mai lo avrà fatto –
- Lascia perdere, ho detto, e vai a casa. Il tuo turno è finito tre ore fa –
- Lo conoscevo –
- Non troppo, evidentemente –
- Era un vicino di casa gentile –
- Anche quando attirava in casa i bambini –
- Li ha mangiati –
- Tutti tranne l’ultimo; è stato un mito a spaccargli il cranio con quella statua di pipistrello. Lo so, come medico non devo fare distinzioni, ma come donna lascia che ti dica che sono sollevata nel vederlo qui, con la testa gonfia e rossa di sangue come un cocomero. Caspita, ho tre figli piccoli, io –
- Conosco bene quella statua di pipistrello, nera e glaciale, affacciata alla sua finestra. La puliva tutti i giorni –
- Fosse solo quello. Hai sentito, no? Tutti i giorni beveva sangue dai bambini rapiti, fino a consumarli. Poi si nutriva dei loro corpi -
- Hai notato come le sue condizioni sono precipitate proprio mentre urlavo all’infermiera di prendere le sacche? –
- Per me è solo un segno di giustizia. Ha tolto il sangue fino ad uccidere ed è morto alla parola “sangue” –
- Mi sa che ho bisogno di un bagno caldo –
- Spegni tutto dai, ti accompagno a casa –
***
Mi piace questo nuovo silenzio.
Mi riempie di nulla e nel nulla ho tutto lo spazio per muovermi.
La vita giovane dona sangue in un denso inno di forza.
Anche quando è colonizzato da virus.
Anzi, nonostante sia un biologo, adesso so che il sangue infetto è sorprendente.
Ma credo che in qualche modo i pipistrelli lo intuissero già da tempo. Lambiscono sangue e riproducono virus in una simbiosi secolare che non si è mai interrotta. E' il segreto della loro rinascita, ogni crepuscolo.
Rosso virale di resurrezione.
Dopo avere bevuto tutto il sangue infetto da quel bambino, ho scoperto che nel passaggio tra lui e me il virus era mutato.
Fino a bloccare la mia morte.
Ho ascoltato le parole dei rianimatori, scontate, senza la forza del sangue.
Ma la donna ha annunciato di avere tre figli.
Ora, lasciate che i bambini vengano a me.
Sono il mio nuovo mondo.
Il mio avvento.

carpe diem

carpe diem di Giovanni Sicuranza

In qualche vicolo dei pensieri, di quelli stretti e bui, Valentina sa che il portone si chiuderà del tutto solo con l’aiuto di una spinta.
Ma la luce che cerca è oltre la soglia, nella rugiada di un desiderio sospirato da settimane. Per questo con un balzo è già fuori.
E la strada ora non è più nella mente, ma sotto i suoi occhi.
Non è più piccola e scura.
È un rivolo di cemento che sguscia dal palazzo di periferia, fino a diventare piena luminosa di vetrine che irrompe verso il centro della città.
Le bolle di umidità che cadono sul corpo sono spezzate da una pennellata sottile di vento.
Valentina potrebbe anche annusare la promessa di temporale che scivola dalle colline, se solo ne avesse il tempo e la voglia.
Ma è già diventata passi affamati sulla strada, spalle indifferenti al lento arrancare del portone sul palazzo, occhi brucianti di attesa oltre le lenti nere degli occhiali all’ultimo grido.
“Baa-laa-rex”, esulta dentro un sorriso che si spalma sul viso abbronzato.
È l’ultimo grido, appunto, quello che lacera i ritmi della città dalle gole dei televisori.
Una figata, la pubblicità dei suoi occhiali da sole “Balarex”.
Con l’urlo catodico che le riempie il cuore, Valentina affretta passi e desideri.
La città sbadiglia luci dalle finestre, raccolta attorno ai sospiri di un vento distratto, mentre il tramonto la bagna in un ultimo sputo.
La strada è già anteprima del deserto che diventerà tra poco, alla chiusura dei negozi, nel richiamo dei telequiz, e per Valentina è invito a camminare veloce, ancora più veloce, sull’asfalto, tempestarlo di passi, quasi frantumarlo, tanto i suoi piedi sono protetti dalle suole imbottite e fosforescenti delle scarpe “Rimbal”.
Una figata anche la loro pubblicità.
“Riiimm-ball” urla il suo unico pensiero nel silenzio affannato della città. E a Valentina sembra che echeggi davvero tra le case, come il verso l’eroina che salta da una discoteca all’altra nel cielo dei pixel azzurrini di ogni televisore prima, dopo e forse anche durante i telegiornali.
Ancora poco, scopre in un doppio salto orgasmico del cuore, esumando l’ultimo modello di orologio “Contemp” dalla manica del maglione viola appagante.
Per un attimo, solo il singhiozzo di attimo, Valentina si distrae nello splendore del suo polso ricamato dal cinturino rosa dell’orologio “che si avvolge intorno a chi lo merita”, come declama la pubblicità ad ogni angolo di interruzione di tele-quiz e tele-show.
Nemmeno un passo più avanti, tutto il suo respiro è di nuovo attesa fremente del desiderio prossimo a realizzarsi.
È lì, dietro l’angolo, e già dall’indomani sarà il segno del suo potere tra le amiche.
Lo capiranno tutte, perché lo insegnano le riviste lette in classe tra i distratti bla bla di insegnanti monocordi, lo annuncia la televisione, lo sottolineano persino i grandi manifesti che viaggiano appesi alle fiancate degli autobus.
A scuola, Valentina sarà la prima ad averlo, e lo indosserà con la stessa eleganza alta tre metri di quelle modelle che ciondolano sulla patina liscia delle copertine e degli schermi.
Accelera ancora, e forse si metterebbe anche a volare, perché tanto i suoi eroi manga lo fanno sempre, quando all’improvviso gli occhi urtano due gambe gettate in una pozza scura del marciapiede.
Il naso si ritrae in se stesso quando intuisce un odore assolutamente non in programma.
- Scusi, signorina – farfuglia il proprietario di quelle zampe che hanno rischiato di farla inciampare.
A Valentina sembra che anche il suo alito sia palude di urina.
Si scosta veloce, trattenendo il respiro per non sprecarlo sul barbone accatastato sul marciapiede, proprio a pochi passi dal suo desiderio.
Se potesse chiuderebbe dentro di sé anche tutti i suoi preziosi monili, invece fa un salto oltre l’angolo atterrando sul morbido delle suole, mentre il gorgogliare del mostro chiede aiuto.
Valentina non capisce cosa succede a quel cencio puzzolente di urina e abbandono e comunque non ha importanza.
Nonostante lo sgradevole imprevisto, già sorride.
Eccolo lì, in vetrina, il suo desiderio, ancora illuminato dalle ultime luci della giornata.
Lo osserva cosparsa di adorazione e non c’è lamento che possa riguardarla.
La città decide che è ora di afflosciarsi su se stessa, perché tanto del temporale non importa nulla a nessuno.
***
- È fantastico! – trilla l’amica roteando occhi e mani intorno al casco.
Valentina scende piano dal motorino, nel prologo dell’ammirazione di tutta la classe.
- È proprio l’ultimo modello, quello con le ali disegnate dal mitico Andie J! – sospira l’amica in un incremento di salivazione che innaffia l’umidità del parcheggio.
- Già – soffia Valentina senza aggiungere altro, perché altro è tutto e tutto è nel casco comprato ieri, mentre un barbone moriva al suo fianco.
Lo ha scoperto questa mattina, ascoltando distrattamente il telegiornale tra un riflesso e l’altro dello specchio, persa nell'immagine tronfia del suo acquisto.
Poi, con un’occhiata all’orologio “Contemp”, saltando sulle scarpe “Rimbal”, è corsa al motorino, un “Mor-dens” rosso urlante teso allo scatto. Premurosa di silenziosa attenzione, ha adagiato il casco nel portapacchi ed è sfrecciata verso lo stupore e l’invidia delle compagne di scuola.
Ora, finalmente arrivata, mentre la campanella sbuffa l’inizio delle lezioni, Valentina indossa il casco.
Dedica uno sguardo lontano all’ovale di ammirazione incastonato nel volto dell’amica e si incammina lenta lungo le scale con il desiderio di tutti i coetanei, e forse del mondo, sulla sua testa. Maestosa di vittoria.

lunedì 11 giugno 2007

altra recensione di "maschere"

A cura di Annamaria Trevale su Progetto Babele.
Il link:
http://www.progettobabele.it/rec_libri/MOSTRARECENSIONE.php?id=2679

belladonna

bella donna
racconto di Giovanni Sicuranza

- Non sta prendendo troppo caffé?
La tazza si ferma a pochi istanti dalle labbra, indecisa. Ma l’aroma continua ad arrampicarsi fino al naso, su volute di fumo, e porta con sé la risposta.
La donna sorride appena, chiude gli occhi e beve un sorso.
- Mai abbastanza – risponde riaprendo gli occhi, la tazza avvolta dalle mani all’altezza delle labbra. Guarda l’uomo anziano seduto di fronte a lei.
Sono ad un tavolo da quasi mezz’ora, nella penombra di un bar in chiusura, e lui ancora non le ha svelato nulla. Non ha nemmeno iniziato a bere il the che ha ordinato e che ormai, a giudicare dall’assenza di fumo, deve essere un’agonia di liquido scuro.
Si limita a fissarla, o a sviare l’argomento con sciocche domande sulle sue abitudini.
Ma ancora non risponde a quelle di lei. Buffo, visto che tra loro, la donna è la giornalista e l’uomo l’intervistato.
- È solo che troppo caffé fa salire la pressione – si giustifica l’uomo con un’alzata di spalle – Lo so perché il dottore me li ha vietati – risata breve, nervosa, che spezza il tono sommesso delle parole - Veramente mi ha vietato ogni svago, fumo, alcool, persino sesso. Ma per questo ormai ho poche ambizioni – poi il tono torna quel mormorio monotono ed inconcludente che sta innervosendo la donna – Lo dicevo solo per i suoi occhi, signora.
- I miei occhi? – la tazza di caffé ha un sussulto di sorpresa.
- Ha occhi molto belli, che dovrebbe valorizzare – l’uomo si sporge verso lei, lei arretra sullo schienale della sedia – Invece tutto quel caffé le rimpicciolisce le pupille.
- Ma pensa – sbuffa lei, le parole che fendono la scia di fumo del caffé e la fanno ondeggiare.
Quindi poggia la tazza sul tavolo e si china a sua volta verso l’uomo. Lui rimane fermo, gli occhi nei suoi.
- Signor Dalaiti – sussurra imitandone il tono – Se continua a divagare, tra poco qui sarà così buio che non riusciremo nemmeno a vederci in faccia. Altro che occhi.
Le labbra di lui diventano sorriso, e lo fanno in un modo così debole che lei legge solo amarezza.
- È venuta per una storia che sanno già tutti. Di cosa dovrei parlare ancora?
Lei si guarda intorno, veloce, da una parta, dall’altra.
Nessuno oltre loro. Solo il barista è una presenza svelata alle sue spalle dal suono di bicchieri e acqua corrente.
Si chiede se sia stato un bene incontrare quest’uomo nel bar dove passa gran parte della giornata da sette anni. Ha pensato che era il luogo per proporgli un’intervista, ma ora teme che nemmeno nel suo ambiente abituale si sente del tutto a suo agio.
- Mi aveva promesso – inizia.
Lui alza una mano.
- Dottoressa – e si ferma, le sopracciglia che si alzano, perplesse.
- Tirana – le ricorda lei, veloce – Sofia Tirana.
- Non se la prenda, dottoressa Sofia Tirana. Manterrò la promessa – Dalaiti si volta verso la vetrata, lo sguardo che vaga tra le movenze assopite del piccolo paese - È che sono passati tanti anni ed ora tutto mi cade di nuovo addosso.
- Beh – fa’ lei, le mani che prendono la tazza e la sollevano. Gli occhi cadono nel caffé ancora fumante, poi salgono a cercare il volto dell’uomo. La tazza torna sul tavolo – Senta, adesso le tecniche sono diverse, più sofisticate, e c’è chi vorrebbe riaprire il caso.
Dalaiti annuisce.
- Certo, certo. Ci sono quegli esperti ora – la mano si agita nell’aria – come si chiamano.
- Botanici forensi.
- Ecco, quelli, e voi giornalisti tornate subito da me – la mano si abbandona sul tavolo con un tonfo di protesta.
Lo sguardo di Sofia coglie il sussultare del caffé e rimane a vagare in quel liquido nero, mentre le parole dell’uomo giungono lontane.
- Avevamo preso la casa da pochi giorni, cosa ne potevo sapere dello scheletro.
La giornalista annuisce, gli occhi ancora nel buio del caffé.
- Gli inquirenti sospettavano che sua moglie si fosse suicidata. Ma durante le ricerche hanno trovato uno scheletro. Allora hanno pensato che lei potesse averla, ecco, sì, uccisa.
Torna a guardare l’uomo. Che tace, che ha occhi come fessure, ora, e le labbra serrate, deformate in una smorfia.
- È vero – si affretta ad aggiungere Sofia – Hanno trovato uno scheletro e sua moglie era scomparsa da due giorni.
- E noi eravamo in quella casa da una sola settimana – ribadisce lui, duro.
- Però – la donna sospira, in un gesto veloce afferra di nuovo la tazza e beve un sorso – Però, senta.
Ancora la mano dell’uomo sale ad interromperla.
È grande, questa mano, Sofia se ne rende contro solo ora, nei riflessi del tramonto che filtra dai vetri e accentua i profili.
È grande come un badile.
- So già cosa vuole dirmi. Mia moglie è scomparsa da allora.
- E il terreno sopra il cadavere era stato smosso da poco.
- Errore, mia cara – l’uomo chiude gli occhi – Tutto il terreno era stato appena smosso. Era per via della passione di Guendalina.
- La passione di? – echeggia lei, mentre si affanna a cercare nella mente l’informazione che le manca. Non trova nessuna passione in quello che sa della donna, solo un lungo mistero grigio.
Eppure si è preparata bene sul caso Dalaiti.
***
Sette anni prima di questo incontro.
Sono nuovi del paese, i coniugi Dalaiti. Si sono trasferiti da pochi giorni, dopo che la figlia, l’unica figlia, è morta.
La madre era entrata presto nella sua camera, per svegliarla, perché quella mattina cominciava la gita con il suo fidanzato, ma subito aveva capito che la figlia non stava dormendo. Gli occhi sbarrati sul nulla, la bocca piena di schiuma rosata. Edema polmonare acuto, aveva accertato il medico necroscopo, e da allora casa Dalaiti era precipitata in un silenzio gravido di dolore.
Fino a quando i coniugi Dalaiti avevano smesso di vagare in quel cimitero di ricordi e si erano decisi per il trasloco. E per ricominciare a vivere hanno scelto una piccola villa di paese al confine con la campagna.
Un tentativo durato una sola settimana.
L’ottavo giorno, durante una giornata umida d’estate, un agitato signor Eugenio Dalaiti denuncia la scomparsa della moglie.
La signora Guendalina Dalaiti è andata a dormire la sera prima, alle ventidue e trenta, come sempre. Prima ha anche salutato alcuni boscaioli che tornavano ai focolari. Lo ha fatto dalla veranda con un cenno della mano, ampio, allegro, come puntualizzeranno in seguito gli uomini.
E la mattina dopo, senza premesse, senza biglietti, senza un che, è svanita.
Il marito lo scopre al risveglio, mentre l’alba si adagia nella parte del letto che lei ha scelto. Anche lui adagia la mano sulle lenzuola, a seguire i raggi di soli. E le sente vuote. Fredde.
L’uomo è disperato, teme il suicidio. E subito iniziano le ricerche.
Al primo sopralluogo, i Carabinieri scoprono che dal giardino dei Dalaiti, pieno di erbe lunghe e verdi, proviene un odore strano. Non è odore di morte, ma è comunque sgradevole. Intenso. Ma non solo. Il terreno è stato smosso da poco. Ovunque.
Subito sono disposti gli scavi. Mentre nessun angolo è risparmiato dalla furia delle ruspe, uno scheletro emerge dai silenzi della terra.
La situazione si complica.
Eugenio Dalaiti ha ucciso sua moglie e ne occultato il cadavere?
Impossibile. Guendalina è svanita. Ma da pochi giorni.
Quello scheletro sembra essere lì da anni. E i coniugi Dalaiti hanno acquistato la villa dopo il decesso del vecchio proprietario, il mite edicolante Pierpaolo Antonio Sfoglia, tra l’altro affetto da una forma di asma così grave da costringerlo al guinzaglio di una bombola ad ossigeno. Nessuno riesce ad immaginarlo mentre scava una fossa e seppellisce un corpo.
Ma intanto Guendalina Dalaiti non si trova. E quello scheletro parla poco.
Però ciò che dice potrebbe incastrare il marito affranto. Il bacino è largo come quello di una donna, le facce articolari sono consumate come quelle di una persona non più giovane. Insomma, ad immaginare le ossa di Guendalina Daliti al momento della scomparsa, è proprio così che dovrebbero essere.
Solo che quello scheletro non ha tracce di organi molli, né di scalfitture che porterebbero ad ipotizzare l’asportazione forzata della carne. Anzi, ad esaminarlo bene non ha proprio nessun segno di lesione.
Guendalina Dalaiti è scomparsa da pochi giorni, ma il segreto che cela il suo giardino è quello di una donna anziana morta da anni e senza traumi.
Sette anni dopo, il mistero è rimasto ancora un punto interrogativo senza soluzione.
Solo il signor Eugenio Dalaiti sembra rassegnato e, solitario, trascorre le ferite della sua vita tra la casa e il bar. Ogni tanto giornalisti come Sofia Tirana, in cerca di notizie in un luogo dove le vicende più appetitose riguardano la squadra di calcio, tornano da lui.
Che non sembra mai sorpreso, e se ne sta lì, ad ascoltare domande, in penombra, in silenzio, come un fiore appassito che non aspetta più nulla, nemmeno l’acqua, nemmeno.
***
- La passione di sua moglie era per i fiori! - si illumina Sofia.
No, dice l’uomo anziano seduto di fronte a lei.
- No?
Eugenio Dalaiti sospira sopra anni di sospetti che tornano a trovarlo periodicamente, unici conoscenti rimasti dopo la perdita della figlia e della moglie.
- Erbe, mia cara dottoressa, mia moglie aveva la passione delle erbe.
- Ah – inizia Sofia e sorride – Dovevo ricordarmelo – poi spalanca gli occhi sul viso afflosciato dell’uomo - Ecco perché vogliono riaprire il caso e fare analizzare lo scheletro dai botanici. Cercano tracce di erbe.
- Possono trovarne, vero? – chiede lui, con apparente distacco.
Ma Sofia ha un sussulto. Intuisce che è una domanda importante, la prima vera informazione che l’uomo cerca da quando si sono presentati.
- Certo – si affretta a spiegare - Anche le erbe possono dare indizi di un omicidio – Sofia si morde un labbro – Cioè, di una morte, volevo dire.
L’uomo abbassa lo sguardo e in quel gesto Sofia capisce qualcos’altro. Eugenio Dalaiti le ha posto la domanda con rassegnazione.
Allora, forse senza nemmeno deciderlo razionalmente, allunga una mano su quella dell’uomo.
- Cosa è successo a sua moglie? – sussurra.
Un silenzio lungo, che si innalza sopra i suoni del barista, sopra il ronzio delle luci al neon.
- L’ha uccisa lei, signor Dalaiti?
L’uomo non risponde. Non subito. Prende la tazza di the e si decide a bere un sorso, lungo. Poi, come nel timore di rompere la porcellana, lento la ripone sul tavolo.
E quando finalmente solleva gli occhi, Sofia Tirana entra in un abisso di dolore.
***
- Vado io! – esclama la donna in uno slancio gioioso e già corre verso la porta.
Il marito rimane immobile, stupito, seduto sul divano dove stavano discutendo del loro futuro fino a un istante prima del suono del campanello. Il tono di lei, il suo rapido scatto gli hanno mostrato di nuovo una donna che credeva non esistesse più, non dalla morte della loro figlia, almeno. Per questo se ne sta ancora lì, con il riflesso di un sorriso rivolto alle tende chiuse del balcone.
- Entri pure, venga, non si preoccupi della terra, sa abbiamo appena dato una sistemata a tutto il giardino – sente la raffica di parole della moglie esplodere dall’atrio – Eugenio, Eugenio, per favore.
- Arrivo – fa’ lui e si alza, il sorriso che è già diventato un ricordo lontano.
L’uomo sull’atrio è così magro che per un attimo Eugenio è sicuro di vederlo spezzarsi sotto il peso del contenitore che sta trasportando. La moglie, invece, deve essersi già frammentata in qualche spazio sub-atomico, perché continua a sentirne la voce, ma non riesce a vederla.
- Guendalina? – chiede con parole pesanti di timore.
- Uff –l’estraneo scivola sulla parete, il sacco abbandonato proprio sull’uscio – Buongiorno signore.
- Guenda … Buongiorno a lei – risponde Eugenio e si decide ad avvicinarsi – Sta bene?
L’altro ha gli occhi chiusi sotto una cascata di sudore, sibila come in un attacco di asma, ma annuisce.
- Signore, mi scusi, signore, sto bene, ma se, per favore – e indica il sacco senza aprire gli occhi.
- Guendalina? – ripete ottuso Eugenio.
L’altro appoggia il capo sulla parete con un tonfo sordo.
- Sta bene? – chiede ancora Eugenio, certo che quello sia rumore di ossa, aspettando l’uscita del sangue dalla nuca dell’uomo.
Silenzio.
- Guendalina?
E allora l’uomo apre gli occhi e fissa Eugenio con un’espressione obliqua tra il compatimento e la perplessità.
- Signore, è sicuro, lei, di stare bene?
- Come, scusi?
- Nel senso, sa, le chiedevo solo se mi dava una mano a sistemare il sacco in casa – un lungo sospiro – Ce ne sono a decine sul camion e io sono solo.
- Ma certo, però, ecco.
- Sua moglie è corsa in giardino – e con queste parole l’uomo chiude di nuovo gli occhi, e si passa una mano sulla fronte.
Per Eugenio a questo punto può anche accasciarsi al suolo in una scia di sudore sulla parete. Scavalca il sacco e si precipita sulla veranda.
Sua moglie è proprio in giardino, che zampetta sulla terra smossa, attenta a non finire in una delle tante buche che hanno scavato durante la mattina e il giorno prima pure.
Eugenio apre la bocca in un ovale pieno di incredulità.
Eccola la sua Guendalina, una sessantenne depressa, una semina di artrosi in tutto il corpo, eccola che salta come una bambina.
Rimane così, a guardarla, trattenendo anche il respiro per non rompere quel momento folle e stupendo. Fino a quando anche lei lo vede e si ferma.
- Eugenio, sono arrivate! – urla, le braccia che si lanciano al cielo.
Lui solleva una mano sopra la testa, in modo che la moglie possa vedere bene, e alza il pollice. Lei gli risponde battendo le mani.
- Beh, devono proprio valere molto queste erbacce per sua moglie – annaspa una voce alle sue spalle.
Eugenio si volta, duro.
- Non sono erbacce.
L’altro annuisce, senza scomporsi.
- Per me, basta che mi date una mano e mi pagate.
- Eugenio!
L’uomo si gira ancora verso la moglie.
Lei gli manda un bacio con la mano. Lui annuisce, appena, anche se sa che il suo gesto non può essere visto.
- Senta – si rivolge poi all’altro uomo, che ancora non trova un ritmo naturale di respiro – Entri dentro che le offro un bicchiere di acqua e la pago. Per le erbe non si preoccupi, ci aiuta solo a scaricarle dal camion e poi è libero di andare.
Prima di entrare dedica un’altra occhiata alla sua donna, che ha ripreso a danzare nel giardino.
Decide che questo dovrà essere il ricordo di sua moglie, quello che porterà sempre con sé.
***
La tazza è sul tavolino, avvolta dai loro sguardi. Tutto intorno, la stanza è solo un sussurrio di particolari che ondeggiano pigri alla fiamma di una candela.
- Nostra figlia aveva ragione. Il sapore è gradevole.
- Ne verso ancora, allora.
- Aspetta.
Guendalina allunga una mano sul braccio del marito.
- Accendi le altre candele, prima.
- Sicura? Credevo volessi fare tutto all’ombra – esita Eugenio, l’infuso già inclinato verso la tazza.
In realtà l’idea di un’unica candela ad illuminare questa lunga sera che scende sulla vita è stata proprio sua.
- Non tirarti indietro, Eugenio – la mano si stringe ancora di più sul braccio e lo costringe a posare l’infuso sul tavolo – So che preferisci non vedere la mia trasformazione, ma è la stessa che aveva nostra figlia.
Eugenio sospira. Inutile aggiungere che proprio quella trasformazione ha ucciso la figlia.
Lo sanno bene, è il loro segreto. E a questo se ne sta aggiungendo un altro, forse ancora più terribile.
Si alza e si sposta sulle altre candele, accendendole una ad una con un lungo fiammifero da forno. Quando ha terminato, rimane ad osservare i bagliori rossi che si rincorrono frenetici sulla parete.
- Girati, Eugenio – lo invita Guendalina alle sue spalle.
- Guendalina, io.
- Guardami, Eugenio, guarda il mio viso.
E l’uomo si gira. Si gira verso la moglie che sta già cambiando. Si gira sul suo viso che ha lo stesso colore rosso delle fiamme, sui suoi occhi che sono pupille enormi, dilatate di blu.
- Sei come lei – sospira, senza riuscire a muovere un solo passo.
Guendalina sembra sorridere, anche se è solo un’intuizione sui muscoli del viso che si stanno paralizzando.
- Nostra figlia prendeva sempre la bella donna. A dosi minime. E davvero sembrava bella, ricordi? Gli occhi che diventavano un verde enorme, immenso, il viso luccicante. Era proprio un fiore.
- Ma quel giorno ha sbagliato dosaggio – mormora Eugenio, improvvisamente smarrito in se stesso – Voleva fare colpo sul suo nuovo fidanzato e – china il capo, i capelli disegnati dalle luci delle candele, cespugli di erba infuocata su uno sfondo nero.
- Versane ancora, mio amore – lo invita Guendalina allungando una mano tremante verso di lui – È il nostro ultimo patto, lo sai. Il nostro ultimo segreto.
- Il mio ultimo segreto – corregge lui, chiedendosi dove sta trovando la forza per parlare ancora.
- E lo manterrai per sempre, lo hai giurato.
- Sì – la rassicura Eugenio, ascoltando la sua voce come se fosse quelle di un altro.
E mentre prende il contenitore dell’infuso per riempire ancora la tazza della moglie, gli sembra che anche i suoi gesti siano diventati quelli di un altro.
Continua ad estraniarsi, a pensare ad un altro, mentre sua moglie beve e trema, beve e inizia a delirare di prati gialli e rossi, beve e si addormenta.
Allora lui inizia a cantare una filastrocca, e lo fa con una voce che non è sua, non può essere sua, perché anche se va avanti, tutto quanto accade è solo un incubo. Canta alla danza delle fiamme, canta mentre la sera diventa notte.
E ancora canta mentre Guendalina muore.
***
Sofia ha un sussulto. Allarga le braccia e lancia uno sguardo verso l’alto mentre la tazza di caffé si accascia sul tavolo.
- Non si preoccupi – sente la voce di Dalaiti – è solo lo sfrigolio di un insetto contro il neon.
- Già – ammette lei, afflosciandosi sulla sedia e sentendo il volto che diventa fiamma. Osserva la tazzina reclinata su un fianco, un rivolo di caffé che esce sul tavolo.
Come sangue nero dalla bocca, pensa, e subito distoglie lo sguardo.
Eugenio Dalaiti la sta fissando con una strana espressione. Intensa. Attenta.
- Per fortuna avevo già bevuto quasi tutto – si giustifica lei, sentendosi ancora di più in imbarazzo.
- Mi perdoni se la guardo così – dice lui, mentre solleva la sua tazza – Ma ha il suo viso ha lo stesso colore di chi prende bella donna in dose eccessiva – beve un altro sorso senza smettere di fissare Sofia, poi inizia a ridere – Buffo, no? Basta arrossire un po’ e si ottiene l’effetto dell’erba.
- Ma la belladonna ha anche altri effetti – ribadisce lei, dura, riprendendo il controllo di se stessa – Mortali, direi.
Lui annuisce.
- Mi faccia capire, allora. Vostra figlia usava la belladonna come estetico?
Lui annuisce ancora e beve un altro sorso.
- Insomma, mi spieghi meglio, ne ho sentito parlare, ma …
- In realtà il suo nome scientifico è Atropa belladonna – Eugenio ora guarda fisso oltre la giornalista, nel nulla - Atropa perché nella mitologia greca è la Parca che taglia il filo della vita. Belladonna perché nel rinascimento le dame usavano l’erba per dare colorito al viso e lucentezza agli occhi.
Sofia annuisce. Appoggia i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani.
- Sì, questo lo sapevo. Una combinazione di nomi che ricorda l’impiego cosmetico, ma anche gli effetti letali. Ma credevo che non si facesse più uso di questa erba proprio per la sua pericolosità.
Gli occhi di Eugenio tornano rapidi su Sofia.
- Oh, no, ha ancora molti impieghi, fitoterapici, omeopatici, farmacologici, insomma, inutile farle qui tutto l’elenco per cui …
- E sua figlia era un’omeopata.
Una traccia di sorriso compare tra le rughe di Eugenio.
- Vedo che è informata. Sì, mia figlia conosceva l’uso della belladonna, procurarla è semplice, così come coltivarla del resto. Ma aveva anche un’ossessione. Gli occhi. Belli, di un verde intenso, ma che si perdevano tra le sopracciglia folte e il pallore del viso – l’uomo scuote la testa – Almeno così diceva lei – e beve un altro sorso.
- Per questo prendeva la belladonna.
- Sì, al giusto dosaggio. Sapeva che in realtà il suo effetto estetico è dovuto a dilatazione pupillare e paralisi dell’accomodazione e che basta andare un po’ più in là per rischiare anche la morte. Però quella sera voleva davvero essere splendida perché la mattina dopo sarebbe partita con il suo nuovo fidanzato, era il loro primo viaggio e, e così, lei, lei.
Le parole si afflosciano con il viso di Eugenio.
Sofia Tirana lo vede chinare lo sguardo sul tavolo e ancora ha il desiderio di fargli sentire la sua presenza, prendergli una mano, abbracciarlo, perché ha già intuito tutto. E anche lei inizia ad avvertire un peso che le riempie il respiro. Ma Eugenio è più rapido del suo pensiero, solleva ancora lo sguardo sul suo e parla, anche se le sue parole ora hanno un ritmo diverso, più lento, come trascinate a forza nell’aria.
- Guendalina non si è più ripresa. Mai più. Aveva un unico pensiero. Raggiungere la figlia e credeva che per arrivare a lei il modo migliore fosse condividerne la morte. Lo ripeteva tutti i giorni, tutti quei maledetti giorni, fino a quando – un lungo sospiro, un altro sorso della bevanda – Ho dovuto giurarlo, perché non era più mia moglie, ma una sofferenza che respirava solo per morire. Così l’ho aiutata a morire e poi – Eugenio guarda oltre la vetrata, le luci delle auto che tagliano il buio, quelle dei lampioni come lune distanti – C’è una filastrocca inglese che riassume molto bene gli effetti della belladonna, sa?
Sofia si morde un labbro e si sporge verso l’uomo.
- Non capisco, però, quello scheletro.
Eugenio si volta in modo così repentino, gli occhi dilatati su di lei, che Sofia si ritrae di nuovo fino a quando lo schienale non smette di cedere al suo peso.
- Le ho raccontato tutto perché ormai i botanici forensi, o come diavolo si chiamano, analizzeranno il terreno e le ossa e capiranno tutto – poi, con un nuovo sospiro, sembra scaricare la tensione – Mia cara, vede, avevamo riempito il giardino di belladonna. Quell’erba era dappertutto, lo era anche durante i sopralluoghi ed è rimasta ancora lì. È tenace, la belladonna. Solo che allora nessuno ha collegato l’erba a mia moglie – Eugenio scrolla le spalle – Probabilmente non sapevano nemmeno cos’è la belladonna. Ne sentivano solo l’odore sgradevole dei peli ghiandolari, ma non sanno che accelera il metabolismo. E noi ne avevamo sparsa così tanta intorno, proprio in previsione di quanto Guendalina voleva.
- Quindi, mi sta dicendo che lo scheletro è proprio di sua moglie.
Eugenio Dalaiti ha un altro accenno di sorriso, poi beve, ma questa volta fino in fondo.
- Ah – sospira infine e la tazza si frantuma sul pavimento.
- Ma cosa – Sofia lo vede accasciarsi sulla sedia, fa’ per alzarsi, ma lui la blocca con un cenno della mano. E quando solleva il volto su di lei, rosso e con gli occhi dilatati, Sofia Tirana capisce.
- Mi lasci, la prego, mi lasci andare, io – ansima l’uomo – Così raggiungo mia moglie e, io, mia figlia, la prego. La belladonna ha accelerato la decomposizione di Guenda, Guendalina e l’ha trasformata velocemente in scheletro.
Sofia si è guardata alle spalle, ma nel locale non c’è nemmeno il barista, forse uscito per qualche impegno, chissà, ma
- Chiamo un’ambulanza – decide, annaspando nella borsa alla ricerca del cellulare.
- No, no, per favore, tanto – un altro sospiro, breve – Ha la sua storia, in anteprima. Ci pensi. E mi lascia andare con il mio segreto.
- Non posso – geme Sofia, le lacrime le velano la vista – Non posso – e intanto la mano si ferma nella borsetta – Non posso – e pensa all’articolo che scriverà questa notte stessa, sulla morte a cui sta assistendo.
- È bella la filastrocca che cantavo a Guendalina, io – sussurra Eugenio, gli occhi che si chiudono – io – il capo che si reclina sul mento – Se la ricordi nell’articolo.
- Mio Dio – piange Sofia, le mani sulla bocca.
- Caldo come una lepre, cieco come un pipistrello, rosso come una barbabietola, matto come una gallina, secco come un osso.
Sofia Tirana rimane così, immobile, ad ascoltare la cantilena, ripetuta in uno stento di parole sempre più fragile.
Fino a quando non entra nella morte di Eugenio Dalaiti.

complice fugace

complice fugace
di Giovanni Sicuranza

Mi chiamo Sorpresa

Con fruscii di sapori
danzo sul tuo corpo
confuso di rapimento

e con odori di desiderio
riapro le tue labbra
a nuove trasgressioni

Mi chiamo Sorpresa

Tra forme di
pluviale femminilità
celo un nerbo
di ricordo virile

e mi indosso ogni volta
su un corpo nuovo
eretto di uomo
umido di donna

Mi chiamo Sorpresa

Nella mia attesa sei
marito o moglie di
vento calato
su lenzuola di silenzi

e quando infine arrivo
veloce ti privi
di maschere e vestiti
su eccitazioni negate

Mi chiamo Sorpresa

e dopo il tuo orgasmo
divento
silenziosa solitudine

cavallette sul selciato

ritratto da un ultimo bicchiere - prefazione - *
di homo interrogans

Le luci che
navigano
nel tuo
bicchiere

sono acque
di una palude
pesante

affannata
di piaceri caduti

limacciosa
di sensi di colpa

Lascialo cadere

ora

e poi
ascoltalo

quel bicchiere

È rabbia
di anni che
scheggia
il pavimento

Gemito
di liquido perso
da lontane
ferite

È tela
lacerata
che beve
il tuo pensiero

Prognosi di nulla
sul rigor
di un desiderio
canuto

Io sono
il tuo medico

anche stasera

Non ho farmaci
che guariscano
il tempo

nemmeno ne conosco

Ma ho un saluto
da darti

l’addio
che mi chiedi

Lascialo cadere

ora

quel bicchiere

con le sue luci
pesanti
di alcol

spegni il suo
pianto
questa sera

Chiudi la porta
sulla palude
del suo liquido
pastoso

E usciamo

Usciamo dove
la vita è
terapia di
brevi baci
segreti

Dove in luci
nascenti di alba
tra farmaci di
ultimo sonno

tu possa
vivere ancora

solo
un minuto

prima del gelo

pieno di te

cavallette sul selciato*
di
homo interrogans

Le cavallette piangono sul selciato.
Il dottor Santino si sorprende sempre in questa illusione estiva quando percorre con passo incerto il sentiero che dalla strada provinciale porta all’ingresso del cimitero. Nei brevi tratti rettilinei in salita, nelle curve ampie di serpente assonnato, ascolta il lento cri-cri della ghiaia sotto i passi, che alle sue orecchie diventa il lamento di cavallette nascoste intorno alla meta.
Anche in questa giornata di livido inverno.
***
È triste, il dottor Santino, di una tristezza lontana, che quasi non lo riguarda più, tanto è entrata a far parte di lui negli anni di percorsi intorno al cimitero del paese e al dolore della gente.
La morte è diventata dialogo e psicanalisi, è irruzione di domande improvvise in cui cerca di muoversi come meglio può. Con passi lenti e zoppicanti, di ghiaia e cavallette sparse nella mente.
Nel cammino sull’ultima ghiaia, durante la curva che si apre sullo spiazzo del cimitero, il dottor Santino si ferma. Dissolve le cavallette e con lo sguardo si arrampica sui muri che cingono le lapidi in una barriera effimera tra la vita e la morte.
Il suo orologio da taschino tentenna prima di allineare le lancette sulle ore del primo mattino, poi si spegne in uno slancio di vibrazioni che il medico accoglie come una serena agonia tecnologica. Seppellisce il pensiero del suo orologio nella fossa comune delle cavallette e socchiude lo sguardo miope per focalizzare l’albero di faggio ricurvo sull’ingresso del cimitero, unico custode di un luogo lasciato all’incuria.
Un tempo, prima dell’editto di Napoleone, questo cimitero era occasione di vita. Tra le sue lapidi si danzava e si mercanteggiava e la morte era evento naturale in cui calarsi nei ritmi del giorno.
Il dottor Santino scorge la figura nera, di ombra umana, appoggiata sul tronco ricurvo dell’albero e si chiede chi dei due stia sorreggendo l’altro. Intorno a quel dipinto, due uomini diafani in divisa da carabiniere si muovono a scatti, quasi avvolti da timore o confusione. O come fedeli sull’altare della morte.
Sospira, profondo, pieno, pesante, e in questo modo crede di trovare la spinta per raggiungere la scena, ma il pianto della cavallette lo stupisce precedendo i suoi passi. Si volta verso il suono e scopre un viso familiare.
- L’ho sorpresa, dottore? – chiosa il Procuratore Magistri Elena, classe 1969, con un tono in bilico tra ironia e scuse di circostanza.
Il dottor Santino si ascolta sorridere.
- Un po’, credevo di essere solo da queste parti -
- Cercavo tracce –
- Prego? –
Il Procuratore Magistri Elena allarga le braccia classe 1969 come per mostrare il suo territorio, poi con occhi vivaci attraversa gli occhiali da miope del medico.
- Sembra una morte naturale, tranquillo, routine per lei – si ferma spalancando pupille e annessi ciliari e muscolari circostanti e si morde le labbra, nel sospetto di parole troppo slanciate – Intendevo, nulla di particolarmente insolito, mica mi riferivo alla sua professionalità -
Altro sorriso clonato da parte del dottor Santino.
- Vogliamo andare? -
Il medico annuisce, anche se sente le gambe che tentano di cedere, di piegarsi e trascinarlo sulla ghiaia.
Il Procuratore Magistri si sta già avvicinando al dipinto scuro di albero e figura umana appoggiata e lui la segue, in silenzio.
Le cavallette piangono verso il cimitero con nuova intensità.
- Le spiegavo, davvero, sembra un caso di morte naturale, insomma, le chiederò l’autopsia, però, perché -
La donna si ferma, bruscamente, senza segnali, e il dottor Santino si ritrova il naso appoggiato al suo giubbotto imbottito di mistero. Lei sembra non farci caso, gli occhi di nuovo in penetrazione nelle sue lenti da miope.
- Insomma, niente segni di lesività esterna, ma, concorderà con me, è un tantino insolito venire a morire sotto il faggio del cimitero la notte di capodanno -
Santino concorda con un cenno dovuto.
Le gambe insistono per un crollo totale, lui decide di ignorarle. O almeno di provare a farlo.
La donna inclina leggermente il capo e i capelli classe 2005, freschi di tintura, si adagiano sulla spalla come salici dorati. Lui li osserva in un fugace rapimento, perdendo il senso della domanda.
- Come? -
- Appunto – il tono del Procuratore Magistri è ora fermo, professionalmente sospettoso – Le ho chiesto se si sente bene, mi sembra pallido, distratto –
Il dottor Santino arrampica un dito sulla montatura nera degli occhiali e senza necessità la fa scivolare sul naso.
- È capodanno – si scusa.
Il Procuratore sembra accettare la deposizione.
- Beh, sì – svela denti bianchi sotto le labbra piene – Notte da bagordi, eh? Mi perdoni, sa, ma non la vedo molto a tirare tardi -
Se sapesse, vorrebbe risponderle Santino, ma quando si accorge che a questo pensiero le gambe stanno per trarre rinnovato motivo di crollo totale, si urla un no e si limita a stringersi nelle spalle con aria complice.
Così per il Procuratore il caso è chiuso.
- Vogliamo andare? – ripete e la scena si completa come da protocollo con nuovi passi verso la scena di morte.
***
La donna è appoggiata con la schiena sul vigoroso tronco di faggio.
Il capo, reclinato, è velato da lunghi capelli neri, stopposi, quasi incartapecoriti, ma che sussurrano ancora di un passato splendore.
Le mani sono appoggiate sul terreno, distese, come a sincerarsi della realtà della terra, nuova simbiosi per il corpo defunto. Dita lunghe, fasciate dal rigor della morte. Bianche fino alle unghie, dove il nero è colore predominante e frastagliato nei segni di morsi nervosi e solitari.
Uno dei due carabinieri, guanti indossati, si china troppo velocemente, con ansia, su quel corpo dormiente di assoluta immobilità e fa per scoprire il viso dai capelli.
- Aspetti – lo ferma il dottor Santino, con tono stanco.
Sei occhi lo intercettano all’unisono e si appoggiano sul suo viso con aria stupita. Santino sente il peso della perplessità interrogativa del Procuratore e dei due carabinieri e di nuovo le gambe gli suggeriscono di cedere.
- Voglio solo dare un’occhiata generale al – corpo, cadavere, è così che deve dire, si ricorda.
- Si sa chi è? – chiede invece, lo sguardo che segue smarrito la salita del tronco, fino alla sua ricurva caduta verso il suolo.
L’altro carabiniere cita da taccuino
- Maddalena Lucina, classe 1973, vedova -
Il dottore annuisce.
Si accovaccia accanto al cadavere in gesto professionale, in realtà concedendo una vittoria parziale alle gambe, e finalmente scosta i capelli dal viso.
- Era bella – sussurra il carabiniere al suo fianco.
- È bella – aggiorna il dottore con parole che si perdono nel cielo pesante d’inverno.
Il Procuratore Magistri Elena, classe 1969, ben attrezzata, si avvicina e cerca una scappatoia per non perdere il suo primato di bellezza oltre la vita e la morte.
- Beh, sarà stata anche bella, ma qui ci risulta una lunga storia di depressione ed alcolismo -
Le lenti miope del dottore si sollevano sui suoi occhi vivaci e lasciano una domanda nell’aria. Il Procuratore rimbalza lo sguardo interrogativo sul carabiniere armato di taccuino. Questi ha un fulmine di smarrimento sul viso, poi comprende.
- Siamo già risaliti al suo indirizzo e i colleghi di pattuglia ci hanno detto di avere trovato le cartelle cliniche di vari ricoveri in merito ai problemissuindicati - recita appiccicando le ultime parole.
Il dottor Santino annuisce, poi si volta ancora sul viso della donna.
Il pallore nevoso della morte le ha portato via il colore rosso del vino e quello grigio della depressione. L’ha lavata del suo passato, ma le cartelle cliniche sono rimaste, lapidi indiscrete e già fuori luogo.
Santino chiude gli occhi e ricorda.
Una mano scivola silenziosa nell’ampia tasca del suo cappotto e tra slalom di cappucci di biro smarrite, briciole di pane ignorato, raggiunge il fruscio della carta.
Gli occhi si aprono e vestono la lunga parete del cimitero di sguardi spenti e nostalgici.
- Dottore? – lo esorta il Procuratore Magistri, avvicinando passi al suo volto.
- Se tutto fosse stato come un tempo, chissà – parla lui senza voltarsi – Avete notato come la morte è allontanata e murata? Non c’è vita sociale qui intorno. Fateci caso, avete mai visto, che ne so, negozi accanto ad un cimitero? A parte quelli di fiori, intendo, mai un edicola colorata, mai un pub chiassoso, mai attraenti esposizioni di vestiti e scarpe e stereo –
- E vorrei anche vedere – sbotta il carabiniere al suo fianco.
Santino sospira, ancora pesante, profondo. Sospira con tutto il suo corpo, poi, lento, si muove e fa un gesto che sorprende il Procuratore Magistri, classe 1969, e i due carabinieri, qualunque classe si portino dietro.
Si siede al suolo, sulla terra, appoggiato all’albero, accanto al cadavere della donna. Spalla contro spalla.
- Dottore? – ripete il Procuratore, mentre gli occhi dei carabinieri corrono a lei in confusa attesa di ordini.
Santino ha ancora lo sguardo sulla parete del cimitero.
- Allontaniamo la morte in ogni modo e, per compensare, cerchiamo avidamente notizie di quella altrui, purché lontana e possibilmente televisiva -
- Dottore – altri due passi del Procuratore, questa volta più decisi – Credo stia inquinando la scena – la voce è ancora incerta.
- Ma così la nostra debolezza e la nostra paura aumentano. Tanto la morte ci viene a trovare sempre, immancabilmente, all’improvviso, spegne i nostri cari o noi stessi. Non ci sono gesti scaramantici o mura per sconfiggerla –
- Ecco, dottore – il Procuratore Magistri esita ancora; dalla sua classe 1969, per la prima volta non sa come muoversi sulla scena di un sopralluogo – Appunto, mi scusi, devo esortarla, le prove –
Finalmente il dottor Santino la guarda. Finalmente, dietro le lenti da miope, gli occhi sono presenti. In una tonalità intensa, così intensa da essere forse il motivo che spinge il Procuratore Magistri ad arretrare di qualche passo.
I carabinieri la imitano diligentemente.
- Non si preoccupi. Conosco bene la scena e posso permettermi di inquinare le prove – la mano riemerge dalla tasca esumando il foglio seppellito.
- Lo prenda, è una prova –
Il carabiniere più vicino si allunga, ma il dottore ritrae la mano.
- Lasci a me – capisce la donna e prende il foglio accartocciato – Di cosa si tratta? – chiede mentre ne sta già svelando le parole scritte.
Santino chiude ancora gli occhi.
Attende e ascolta il silenzio.
- Non capisco – mormora lei dopo minuti senza tempo. In realtà il tono soffuso della sua voce già tradisce il timore della comprensione.
- Ho scritto quei versi di getto, questa notte, qui, accanto a Maddalena morente. Li ha letti, no? Li ho intitolati “ritratto da un ultimo bicchiere” –
Silenzio. Silenzio sulle parole, intorno alle parole. Silenzio sulla scena di morte. Silenzio sulla vita.
La donna fissa Santino con stupore immobile e vede un uomo infagottato e pesante, adagiato accanto al cadavere di una donna. I carabinieri si avvicinano, cauti, cercano di sbirciare nel foglio, ma il Procuratore li precede porgendolo all’agente più anziano di grado.
- Lo registri immediatamente come prova –
Adesso la scena è ancora sua, capisce il Procuratore Magistri, ma non lo pensa con sicurezza, anzi. Sente Elena, la parte di lei senza vestiti, che vorrebbe urlare, scappare, negare.
- Perché? - riesce invece a chiedere dalla sua professionalità.
Santino è solo voce narrante da un pupazzo di carne piegata. Le sue parole cadono piano nell’aria e lasciano tracce di resa.
- Amo Maddalena, anche ora, qui. La morte del marito ha aperto una ferita senza cicatrici sul suo animo depresso. L’alcool l’ha avvolta e le ha dato un’oasi pesante, una palude, in cui comunque ha tentato di esserci – reclina leggermente il capo a sfiorare la spalla cadente della donna morta - Io sono arrivato dopo, il medico di famiglia innamorato, e le ho fatto l’unico regalo che mi ha chiesto-
Elena ha ricominciato a serrare le labbra con i denti, forse per non piangere, forse per non respirare la verità che riempie l’aria di inverno e di morte.
- Sì, è stato un capodanno intenso. Siamo usciti, l’ho accompagnata fin qui, dove giaceva già la sua vita, e le ho dato i farmaci. In overdose –
L’uomo annuisce con testa pesante, poi apre di nuovo gli occhi e in una carezza li posa sul volto del cadavere.
- L’ho ascoltata morire di vita finalmente sua. E intanto scrivevo la nostra poesia -
- Dottore –
- Lo so, un attimo solo, poi vi seguo. Un attimo solo –
Trascorre davvero un attimo, un attimo solo, prima che i carabinieri aiutino il dottore ad alzarsi.
E in quell’attimo, che è di assoluto silenzio, Santino le sente ancora. Per la prima volta senza passi.
Cavallette piangenti sul selciato.

* poesia e racconto presenti nell’antologia “Città di Solitudine”.

recensione di "Città di Solitudine" a cura dei collaboratori di DANAE Libri

SCHEDA DI VALUTAZIONE

inviata dalla dott.ssa PIERA ROSSOTTI
Selezione del Catalogo di DANAE
Responsabile della Lettura Incrociata

Il Rifugio degli Esordienti

Titolo: Città di solitudine
Autore:
Homo interrogans;
Sandrolorena; Chatto ergo sum

Genere: Antologia di prosa e poesia
pp.260

(SCHEDA PER L’EDITORE)

Inquadramento dell’opera
Città di Solitudine è un libro di 26 racconti, scritto a tre mani, che si richiama, per luoghi personaggi ed atmosfere, ad “Antologia si Spoon River”, ma con una originale scelta di alternanza tra prosa e poesia che impreziosisce i vari racconti e, grazie al carattere spesso proemiale delle poesie, genera nel lettore uno stato di attesa e curiosità che accentua il piacere della lettura.
I racconti, che hanno la particolarità di concludersi tutti con la morte del protagonista o di un personaggio vicino ad esso, affrontano temi come la morte, la drammaticità del caso, e sondano gli aspetti più cupi e imprevedibili della psiche e dell’animo umano. In rapporto a tali elementi essi si svolgono tutti in un’ atmosfera lugubre e spettrale (una perenne nebbia di morte, un burrone che ha mietuto tante vittime, la costante presenza di un cimitero che sovrasta la collina come un perenne monito alla vita e alla sua caducità), dove, in altrettanto piena sintonia, si inseriscono vicende e personaggi segnati spesso da una follia e bizzarria, di richiami a volte pirandelliani, che lascia il lettore a bocca aperta; un mondo dominato da agghiaccianti scherzi della sorte, da omicidi e suicidi; un mondo in cui ci si può trovare a parlare con uno spettro dalle complete sembianze umane, dove l’uomo si abbassa senza proteste a far le veci di un cane, dove la fame spinge al cannibalismo; dove in definitiva ogni più impensabile follia e stranezza, pur lasciando il lettore sbalordito, sa trovare una sua piena giustificazione, e ciò grazie anche alla particolare struttura dell’opera, caratterizzata da una cornice e da una singolare e ambientazione, che la rende più di un semplice libro di racconti.
La cornice è costituita dal primo e dall’ultimo racconto, che vedono come protagonisti rispettivamente il custode del cimitero e suo nipote. Il custode, che assume maggiore risalto, si presenta come il narratore delle successive 24 bizzarre e folli storie; mentre suo nipote, che prende il suo posto e chiude il testo, appare come elemento di continuazione di quel dolore, di quella follia e di quella misteriosa conoscenza dei segreti della gente che ha guidato suo zio nella narrazione.
La singolare ambientazione dei racconti, invece, è costituita da Fine viaggio e Cimitero di Solitudine: luoghi lugubri, misteriosi, con un tragico passato; luoghi quasi fuori dal mondo, e specchio o sorgente di quella follia e dolore che anima i loro abitanti. La lettura infatti mostra una forte relazione tra il cupo ambiente di vita e l’oscura e spesso deviata psiche degli abitanti del luogo, e ciò costituisce non solo un elemento di collegamento tra i diversi racconti, ma anche un motivo di curiosità ed interesse nel lettore.
La cornice e la comune ambientazione contribuiscono, in definitiva, a stringere dei forti legami tra i vari racconti, facendo sì che il lettore non salti tra storie tutte diverse e slegate tra loro, come nei comuni libri di racconti, ma venga introdotto in un vero e proprio microcosmo, che presenta sì segni di modernità, ma vaghi e limitati, perché non sono in grado vincere la nebbia, il dolore e la follia che imperano. In questo microcosmo, in questo strano mondo nel mondo, paiono dominare leggi fisiche e psicologiche particolari: la morte, la solitudine, il dolore, gli scherzi della sorte e quanto di più impensabile possa accadere sono parte integrante di quelle leggi, e l’unica reazione possibile e quasi naturale ad esse, perciò giustificata, sembra proprio quella follia che lascia il lettore senza parole.

Sinossi
Nel 919 d.C. un gruppo di liberi homines, che non accetta il dominio temporale del nuovo Stato Pontificio, trafuga dalla chiesa vescovile di Novaria il primo manoscritto dell’Editto di Costantinopoli e inizia un esodo che si conclude con la fondazione di un paese, chiamato Fine Viaggio, in cui tutti sperano di vivere in pace, sicuri che, tenendo in ostaggio quel documento, nessuno avrebbe fatto loro del male. Sulla collina sopra il paese costruiscono, invece, non una fortezza, ma un cimitero, chiamato da loro Cimitero di Solitudine. Dopo circa un anno di pace gli abitanti di Fine Viaggio vengono scomunicati, e le truppe papali entrano nel paese e torturano, bruciano sui roghi e li seppelliscono vivi nel loro cimitero.
Secoli dopo, nei tempi moderni, Fine Viaggio, con la perenne nebbia che l’ avvolge ( formata secondo la leggenda dai resti degli antichi fondatori massacrati ) e Cimitero di Solitudine sono i luoghi in cui si consumano le drammatiche storie narrate, che vedono come protagonisti i discendenti di quegli sventurati pellegrini.
L’opera si apre con un’ atmosfera lugubre e notturna: il misterioso custode del cimitero nell’ ultima notte della sua agonia si adagia accanto alla lapide del prete del paese, suo padre, e inizia a raccontare le tragiche e poco note vicende degli abitanti di Fine Viaggio. Da qui si dipartono i vari racconti in cui si alternano assassini, suicidi, follie, fantasmi, segreti inconfessati e tremendi scherzi della sorte, finché al termine, il custode, con un tremendo carico di dolore alle spalle, decide di prendere il suo vero posto nel cimitero, come a riprendere o a riaprire un ciclo di dolore e follia mai conclusosi.

Stile
La narrazione ha un buon ritmo, a cui contribuiscono sia gli sconcertati eventi descritti e i continui colpi di scena, che lasciano il lettore a bocca aperta, sia l’ ottimo stile, che, nel sapiente e ricercato uso lessicale e sintattico (mai però difficile o noioso ), si accorda perfettamente con l’ andamento narrativo e con le cupe atmosfere in cui gli eventi si svolgono.
Gli autori sanno alternare bene parti descrittive a quelle di introspezione psicologica, accompagnando il lettore nella psiche dei personaggi (spesso prima degli eventi che mostreranno la loro insania), ma senza svelargliela del tutto, creando così uno stato di attesa e curiosità che accentua la sorpresa, l’interesse per la lettura e il suo piacere.
L’impostazione è drammatica e lascia il lettore in un costante stato di tensione, soprattutto dopo che la lettura dei primi racconti gli ha svelato di trovarsi dinanzi ad un mondo diverso da quello comune, dove morte e follia sono quasi normalità. Alle vicende più crude si alternano inoltre momenti di amara ironia ed altri che spingono alla riflessione sull’esistenza, donando varie sfaccettature al testo ed arricchendolo.

Potenzialità
Città di Solitudine è un testo che – nonostante qualche punto su cui intervenire con operazioni di editing – risulta sin da subito efficace, intenso, in grado di offrire una lettura godibile ed emozionante. Per via delle sue tematiche (poco discusse, ma strettamente legate alla natura e all’ esistenza umana) e della crudezza e drammaticità delle storie narrate si rivolge ad un pubblico maturo, sia colto che meno, per lo più appassionato ai generi horror, thriller, psicologico o ad una letteratura alternativa che mostri gli aspetti più oscuri dell’ esistenza, ne offra inconsueti spunti di riflessione, e non annoi.



(scheda per l’autore)


Autore:
Homo interrogans;
Sandrolorena; Chatto ergo sum

Titolo: Città di solitudine
Genere: Antologia di prosa e poesia
pp.260


Inquadramento dell’opera
La storia della letteratura è disseminata di poesie, racconti e romanzi che trattano il tema della morte; Città di solitudine si pone nel solco di questa tradizione letteraria prendendo a modello l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Sulla scia del celebre poeta americano gli autori si propongono di descrivere la vita umana raccontando le vicende degli abitanti di un piccolo paese di provincia: ogni episodio racconta infatti la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di paese.
La storia è narrata dal custode del cimitero (gravemente malato) che “senza sapere né leggere né scrivere”, come dichiara più volte egli stesso, decide di trascorrere la sua ultima notte raccontando le vite degli abitanti “di fine viaggio”. La prima poesia intitolata Il Custode ci porta in un vero e proprio cimitero, situato sulla cima di una collina in un piccolo paese. In ognuna delle poesie e degli episodi i morti che popolano il cimitero parlano di sé e ci raccontano attraverso i propri ricordi la loro vita, i loro rimpianti e le loro sofferenze dipingendo la vita quotidiana di un intero paese.

Contenuto
La narrazione è perfettamente inserita in una realtà ben precisa, quella di un cimitero di un piccolo paese di provincia. Le descrizioni dei posti, i riferimenti artistici e le descrizioni dei personaggi riescono a essere sufficientemente amalgamati con le vicende, denotando una grande capacità persuasoria e creativa degli autori. L’ambientazione è pertanto funzionale al tipo di storia raccontata ed è descritta in maniera dettagliata e accurata (si vedano ad es. le descrizioni a pp. 10-11 o ancora a pp. 27-28 ecc.).
La descrizione di alcuni avvenimenti è ricca di suspense generando nel lettore una grande curiosità nel procedere nella lettura senza mai appesantire né rallentare il ritmo (si veda ad es. Lo scrivano).
Gli spunti offerti dalla narrazione sono numerosi e vengono sempre colti e ben approfonditi dando vita ad un tessuto narrativo complesso e ricco di problematiche. Si troveranno quindi diversi episodi, dalla violenza sessuale sulle donne, agli orrori della guerra, a storie d’amore mai consumate; le scene hanno sempre un carattere fortemente reale in quanto descritte in modo approfondito.

Modalità di scrittura
La modalità di scrittura è ben strutturata con una solidità stilistica, rendendo la lettura estremamente scorrevole e piacevole, anche se talvolta si riscontra un arbitrario passaggio dei tempi verbali. Le descrizioni degli ambienti e dei personaggi sono estremamente precise nonostante la brevità delle frasi, sempre ben articolate e contraddistinte dall’uso di termini ricercati e mai sciatti; nei periodi più articolati le frasi rivelano una giusta disposizione. Vi sono, però, molte imprecisioni ortografico-grammaticali, lessicali nonché espressivo-stilistiche e numerosi errori di battitura. In alcuni punti del testo si riscontra, invece, una mancata demarcazione nel passaggio dal discorso diretto a quello indiretto, e questo costituisce un motivo di disorientamento. Spesso, infatti, non si capisce lo stacco tra le battute di dialogo dei personaggi e il ritorno al discorso indiretto (si veda ad es. p. 33; a p. 253 si riscontrano imprecisioni nell’uso del virgolettato e dei trattini per demarcare il discorso diretto).
Le descrizioni degli ambienti e dei personaggi sono ben approfondite e mai casuali così come le tematiche trattate. Nonostante nel testo si intreccino varie storie, gli episodi narrati sono giustamente collocati permettendo al lettore di seguire bene la vicenda e di appassionarsi ad ognuna di esse.
Il lirismo, a volte, lascia il posto a note più vibranti e possenti, ed è qui che lo stile si fa più impetuoso, incalzante, passando da una certa aggettivazione ad un’altra.
Il racconto procede in uno stile posato e limpido, a sprazzi vivacizzato da brani di intensa drammaticità, che inducono il lettore ad una forte partecipazione emotiva: si vedano le descrizioni delle vite di due giovani stuprate (Due amiche: la professoressa e La fornaia); le lettere d’amore dal fronte nello Scrivano (pp.51-57) e il racconto finale della breve storia d’amore del custode e di Angelica (pp.254-258).

Personaggi
I personaggi sono ben delineati e sufficientemente caratterizzati: si tratta di una galleria variegata di tipi che coprono molte categorie e mestieri umani. Nel testo troviamo la prostituta, la professoressa, l’edicolante, il libraio, la fornaia, la bambina, lo scrivano, il cieco accompagnato dal suo fedelissimo cane, il violinista… insomma il paese intero. Alcune descrizioni sono estremamente dettagliate: si veda ad esempio la descrizione a p. 5 del custode: “Le rughe segnano territori confusi nella geografie del viso […] Ondeggia sulla gamba destra, un po’ più corta dell’altra dopo l’intervento chirurgico”.
Attraverso le poesie e il racconto in prosa gli autori riassumono le vite intere dei personaggi che svelano i legami d’amore e di odio che avevano nella loro vita.

Stile
Per quanto riguarda lo stile dell’opera sia la poesia che la prosa sono scorrevoli e lineari, prive di ridondanze baroccheggianti che rischierebbero di rendere pesante la lettura.
Il ritmo narrativo non è mai piatto e gli scrittori creano immagini dalla grande forza visiva, dando vita a metafore e similitudini originali e ben strutturate (si vedano ad es. p. 40 “Il vento corre alle scarpe dell’uomo, si arrampica su, fino alle caviglie, e lì giunto si adagia per lambirle di brividi”; p. 255 “Angelica annuisce, in un soffio di odori che sussurrano alla mia sessualità assopita su piaceri di solitudine lunghi mesi. Pieni di lacrime”; p. 30 “L’uomo cieco sorride senza colori”; p. 38 “Gli ultimi raggi di un sole trionfante sulla collina del cimitero, quaggiù a valle cominciano a morire nella lotta impari con la nebbia”). Nonostante la capacità di mantenere omogenea la trattazione dei contenuti, tuttavia qualche periodo necessita di una leggera revisione per quanto riguarda certe ripetizioni lessicali e una certa costruzione del periodo poco efficace ( si veda ad es. il periodo a p. 56: “Penso dunque che la comunicazione che annunciava la morte un po’ di Arturo Medesimi, riconosciuto solamente attraverso la piastrina, come si seppe in seguito, poiché dilaniato da una granata, non sia stata vera […] O lo zio Arturo è veramente morto divenuto il sedicente capitano Luigi Fiori ha. Ecco […] ).

Il lessico
Gli autori attingono ad un ampio e variegato bagaglio culturale, che gli permette di muoversi liberamente passando dalla prosa alla poesia con estrema facilità. Sul piano lessicale, l’uso di certi aggettivi e la loro combinazione è originale e ha un grande potere immaginifico, rendendo la lettura scorrevole e mai scontata e noiosa. La vicenda narrata risulta appassionata e la variegata galleria di personaggi seduce il lettore coinvolgendolo in un’avventura che diventa lo spunto per una riflessione stimolante sulla condizione umana.
Città di solitudine è un testo che – nonostante qualche lieve distrazione espressiva e qualche punto in cui intervenire con operazioni di editing – risulta fin dalle prime pagine intenso, efficace e in grado di offrire una lettura piacevole e godibile, permettendo di scandagliare l’animo umano. Per suddetti motivi e per il diffuso interesse che le tematiche ricoprono, il testo può contare su un pubblico maturo quanto più giovane, che può tanto penetrare a fondo i risvolti dell’uomo, della società in cui vive e delle vicende che si trova a vivere, così come godersi una lettura appassionata ed emozionante.
Per suddetti motivi il testo è proponibile alle case editrici.

domenica 10 giugno 2007

Cimitero della Lontananza

Cimitero della Lontananza*
di Giovanni Sicuranza

A volte le sere di Fine Viaggio sono così alte nel cielo che a scrutarle non bastano nemmeno gli occhiali spessi della libraia.
Lei ha occhi consumati di parole nelle penombre solitarie della libreria e quando chiude il portone, sempre ultima, non alza più lo sguardo al cielo.
Con passi dispersi tra la nebbia, torna a casa, la borsa che racchiude gesta di epoche romantiche, la mente che freme di desideri di lettura.
Da anni nessuno la aspetta, nessuno le parla, tanto che forse il suo nome è rimasto tra gli scaffali polverosi della libreria.
E a lei sta bene così.
Immersa nelle pagine di volumi assopiti, riempie i silenzi del declino della sua vita.
Ma questa sera è diversa dalle altre.
Intanto, i suoi occhi sfiorano le nubi grigie che sussurrano promesse di pioggia. E i suoi passi sono echi sparsi tra la nebbia che non scivolano alla casa, ma su, oltre il paese, verso la collina di Cimitero di Solitudine.
Infine, motivo più importante che trascina gli altri, questa sera nella sua borsa non ci sono epopee di Omero o di Ariosto. Ma piume, becco e artigli.
Immobili di morte.
***
Nel 1806 l’editto napoleonico di Saint-Cloud dispone che i cimiteri siano posti al di fuori dei centri abitati. Quando la legge giunge a Fine Viaggio, Cimitero di Solitudine è già una realtà secolare sulla collina. Paradossalmente, tra i suoi abitanti l’idea della morte è ancora un fenomeno naturale da vivere in comune, tra lunghe file di salme che si susseguono nel tempo, accompagnate dalla collettività.
Mentre negli altri luoghi la morte è relegata in un ghetto di timori e di silenzi, a Fine Viaggio le mura della nebbia chiudono ancora gli abitanti in un sentire corale di vita e trapasso.
Cimitero di Solitudine è leggenda che sovrasta la nebbia, è sentore dei padri fondatori, le cui ceneri vestono il paese oltre i secoli.
E la sua collina ha ancora angoli remoti da conquistare.
Per questo, dopo l’editto, a qualcuno viene l’idea di seppellire in gloria comune anche gli animali domestici.
Immediatamente, nella sua lunga mano temporale, lo Stato Pontificio tenta di opporsi al seppellimento di questi corpi senza anima, ma le insistenze di Fine Viaggio vengono inaspettatamente sottolineate dai rappresentanti di Prussia, che in questa folle idea scorgono una beffa all’editto napoleonico. Nel 1824 si giunge al compromesso: le salme degli animali sono seppellite in un recesso della collina, privo di recinzione, lontano dalla terra benedetta, lontano dai corpi umani.
Nasce così Cimitero della Lontananza, che, nel corso degli anni, lascia alla terra resti e ricordi di cani, gatti, pesci, istrici, pappagalli, persino di una scimmia.
Fino a quando, agli inizi del XX secolo, il Cavaliere Giuseppe Lontano, forse spinto dalla morte dei suoi cani da caccia, forse dalla singolarità tra il nome del cimitero e il suo cognome, acquista il terreno e ne dispone la recinzione.
Intanto, anche a Fine Viaggio la morte è diventata una tragedia individuale e, a Cimitero della Lontananza, gli animali sono seppelliti nel silenzio di ogni solitario dolore.
***
La libraia ascolta l’umidità della sera riempire di dolore le articolazioni e ne osserva la caduta con colori malati di muffa nelle parole incise sulle lapidi.
“Hai ancora tutto il mio tempo”, promette il marmo mentre cela i resti di un gatto.
“Salta ancora con me”, echeggia al suo fianco l’incisione per un rospo.
Sogni e promesse che giacciono nel Cimitero della Lontananza, tra mura solcate di edera come rughe verdi in un tempo sospeso.
Gli occhi della donna cercano, anche se sanno già dove trovare. Il suo respiro è lieve dispersione di malinconia al cielo. E si allunga in un sorriso dolente quando giunge alle sue lapidi.
- Ciao Giotto – mormora in un lento inginocchiarsi alla terra.
L’erba secca intorno si spezza sotto il suo peso con un lamento rapito dalla nebbia.
La donna alza per un istante gli occhi sfuocati verso la sommità della collina, come ad accertarsi che a Cimitero di Solitudine il custode non abbia avvertito la sua presenza. Un timore inutile, perché la riservatezza del guardiano è più salda delle recinzioni dei due cimiteri. Si sa che vive per Cimitero di Solitudine, tra i segreti degli uomini, e che non gli interessa camminare tra i lutti degli animali.
Ma questa sera la libraia vuole essere sicura che nessuno sappia di lei.
Con le ginocchia morse dalla terra, attende che il silenzio diventi suono senza pause, poi si sporge verso la tomba di Giotto e la osserva, intensa oltre la miopia dello sguardo, mentre le mani si serrano sul manico della borsa reclinata all’erba.
- Sono con te – annuncia.
Poi stride le ginocchia sul suolo e si avvicina alla lapide a fianco.
- E con te – aggiunge in un soffio di dolore.
Lì, dopo il cane Giotto, nell’ultima tomba ai confini di Cimitero della Lontananza ci sono i resti mortali di Libero. Sono stati abbandonati a ridosso della recinzione e proprio sopra di loro si intuisce l’ingresso del cimitero degli uomini, quasi a volere sottolineare la singolarità di questa sepoltura.
La libraia socchiude piano la borsa.
- Da questa notte avrai un altro amico – le mani sfiorano piume fredde – Penso che in fondo anche Giotto sia contento – le dita si schiudono sulla rigidità degli artigli – Non credi? -
La domanda sfuma nei battiti della morte.
Libero, unico uomo seppellito nel cimitero degli animali, la accoglie in silenzio.
Intanto, la sera scivola nella notte a riempire i ricordi della donna in una cascata di grigi e neri.
***
Fine Viaggio è colorata e suona di giocosità come mai è accaduto in tutta la sua storia. Persino la nebbia sembra intimorita dal suo respiro festoso e ne lambisce appena i confini. L’attesa dei bambini è intensa, tramandata nei secoli di padre in figlio attraverso i teatri di strada, i palcoscenici ambulanti dei vicoli, fino a coinvolgere anche i desideri inconfessabili degli adulti.
Il circo è arrivato in paese già da tre giorni, ma la gente fa’ ancora la fila per il biglietto, in un vociare di vita tra i ricordi degli uomini e le domande dei bambini.
Giungono da ogni dove, sui sentieri e sulla polvere, chi a piedi, chi in bicicletta, alcuni persino in auto, perché il circo e le sue fantastiche atmosfere gonfiano i desideri di curiosità. È l’occasione per sfidare senza rischi orsi, leoni, tigri, per volare senza cadute con i trapezisti, per ridere leggeri sulle goffe malinconie dei clown.
E il Circo Pretino è il più grande che si sia mai visto da queste parti.
Anche Don Livio, il parroco del paese, è incuriosito dall’avvenimento, per quanto non nasconda i suoi timori per il degrado che accompagna inevitabilmente ogni ambiente di spettacolo.
- Mi piacerebbe proprio sapere perché lo avete chiamato così – brontola mentre allunga l’obolo per partecipare all’avvenimento della serata.
La donna alla cassa gronda lardo e fard sotto una parrucca rossa come il peccato e lo scruta attraverso due fessure divertite. In un gesto veloce nonostante la mole, provvede a fagocitare i soldi e ad allungare un biglietto verde. Come l’invidia.
- Non sarà mica uno sberleffo verso i preti – insiste duro Don Livio. Alle sue spalle, celato dalla folla, qualcuno ride.
- Ma no – sbuffa il donnone sopra il vociare del pubblico – Il Circo Petrino è un omaggio a Giancarlo Petrini. Il fondatore del circo moderno – aggiunge con un sospiro di ovvietà sullo sguardo ottuso del prete.
Don Livio tira le labbra da un lato, per svelare tutta la sua disapprovazione.
- Moderno è il peccato con un nome diverso -
Con presa salda, si impossessa del biglietto ed esce lesto dalla fila, testa e spalle fiere verso il cielo, trascurando la prominenza del ventre e la flaccidità del sedere che lo spingono al suolo.
La donna alla cassa scuote adipe e parrucca, poi, scura in volto, tende rotoli di dita su altro denaro.
***
La prima sera la libraia è seduta accanto al prete, che le illustra il messaggio apocalittico della fine del mondo sulla corruzione dei costumi.
Ballerine in ombrelli trasparenti di gonne svolazzanti, giocano sulle punte dei piedi in sincronia con il passo allegro di un violino.
Don Livio è un censore senza sosta che si sporge oltre la fila per assaporare ogni acrobazia sensuale e peccaminosa di quei corpi lucidi di sudore e di riflettori.
La libraia approfitta della sua disattenzione per guadagnare ancora qualche centimetro di distanza sulla panca, verso il vociare stridulo dei bambini del sindaco. Dei due mali, tra la nenia del prete e le loro grida, sceglie quest’ultimo. Del resto, ha già dissolto l’attenzione dai leggeri disegni d’aria delle ballerine, così come l’ha disgustata lo spettacolo d’apertura del ruggire impotente del leone, così come l’hanno assopita i tristi surrealismi dei clown.
Si toglie gli occhiali, poi li rimette, quasi a credere che la visione cambi, ma non le ballerine sono ancora in evoluzione, il prete è ancora in scandalizzata contemplazione e tutto Fine Viaggio è desiderio assorbito dal circo.
Rimpiange di non avere dato ascolto al suo, di desiderio, di non essere rimasta tra i libri, a cavalcare con il sorriso amaro tra i mulini di Don Quijote, a navigare tra le tempeste di sventura e passione di Odisseo. Vede appena le espressioni sublimi di fascino dei bambini al suo fianco e si chiede perché mai è arrivata fin qui, in un tendone dove si vendono illusioni.
Un fremito improvviso soffia nel suo corpo. Nella domanda ha appena sentito la risposta.
Legge pagine su pagine di illusioni romantiche per riempire una vita vuota. E nel circo ha intuito la scoperta di sogni amplificati in uno spettacolo di coralità.
Il pensiero sta ancora scendendo perplesso nella sua mente, quando lo spettacolo cambia.
E cambia anche la sua vita.
***
Il mondo sotto il telone è attesa sospesa di sguardi e respiri.
La musica, il vociare, le risate, gli applausi, tutto è assorbito negli occhi spalancati.
La fune è un bisbiglio fragile che unisce le estremità del circo, in un lento ondeggiare verso il pubblico. Le sue spire avvolgono tenaci due pali, come nel disperato bisogno di un appiglio per non precipitare al suolo.
Negli angoli degli occhiali, la libraia scorge Don Livio annullato di parole nella bocca spalancata, i bambini del sindaco in un abbraccio di conforto sulle sue spalle.
In alto, ad oltre venti metri di altezza, la sagoma dell’uomo si sporge da un palo ed inizia ad avanzare, passo dopo passo, le braccia spalancate in un’uniformità di colore nero che lo rende simile ad una “T”. O a un Cristo, si stupisce a pensare la libraia, lo sguardo che guizza ancora sul prete per tornare immediatamente sull’acrobata.
I piedi flessi sulla tensione della corda, il trapezista si muove come privo di consistenza, un passo, un’attesa del brontolio della corda, e poi un altro passo.
Il pubblico ne segue le lente movenze consapevole della mancanza del telone sotto il suo corpo, in un rapimento di tensione, stupore, incredulità.
Perché non c’è solo la sfida precaria al vuoto.
Su un braccio disteso alla ricerca dell’equilibrio, ricoperto da quella che sembra una doccia di cuoio, c’è un uccello, immobile nonostante le oscillazioni della corda e dell’uomo.
- Che cos’è? – domanda uno dei bambini.
- Zitto – lo ammonisce in un brusco sussurro il sindaco, forse temendo che lo spostamento d’aria provocato dalla domanda possa infrangere il precario equilibrio di quella insolita coppia.
La libraia non riesce a staccare occhi e occhiali dal loro lento avanzare. La leggera eleganza dell’uomo, la tenace immobilità del rapace. Sì, lei ha compreso che si tratta di falco: nonostante la miopia e la distanza, ne riconosce il becco adunco, il capo grande, il corpo robusto. Non per niente è la lettrice più avida e assidua di Fine Viaggio.
Si chiede se non è il caso di rispondere al bambino, a bassa voce, ovvio, perché la coreografia sembra davvero troppo fragile, quando il trapezista, ormai giunto a metà percorso, si ferma, privandola di ogni scelta.
La corda si agita, indecisa se liberarsi di quei due intrusi, la gente inspira all’unisono, indecisa se guardare o urlare.
Il trapezista sembra tranquillo, il falco rimane scolpito nell’aria.
E quando la corda si assesta nel nuovo equilibrio, l’uomo si volta di scatto verso il compagno.
- Eh, pellegrino! – esplodono le sue parole e subito le ali del rapace si stendono in tutta la loro carica di predatore.
Il falco prende il volo, ancora più alto del trapezista, fino a sfiorare la sommità del telone, poi inizia a scendere verso il pubblico in cerchi sempre più piccoli.
- Aiuto – urla qualcuno tra lo stupore.
– Mamma – implorano voci di adulto.
- Misericordia divina – recita a mezza voce Don Livio.
Il trapezista ricomincia solitario la lenta conquista verso l’altro palo, ma ora tutta l’attenzione è sulle evoluzioni del suo compagno. A pochi metri dalla corda, nel centro del circo, il falco spezza gli ampi cerchi esplorativi e diventa picchiata verso il suolo.
Anche se non punta contro loro, gli spettatori indietreggiano istintivamente con la schiena, alcuni si urtano, altri urlano.
Il falco scava l’aria, il becco fisso alla terra battuta, gli artigli protesi in avanti, con tutta l’intenzione di perforare la crosta terrestre e passare dall’altra parte del mondo. E a pochi centimetri dal suolo il suo corpo scatta di nuovo in alto, veloce, in un risucchio che trascina con se il respiro di ogni spettatore.
Un secondo dopo è di nuovo sul braccio proteso del trapezista, sulla pedana dell’altro palo.
Immobilità. Silenzio.
Nel secondo successivo, il circo è scosso da un applauso così fragoroso e lungo da riempire la sera di Fine Viaggio come solo la nebbia sa fare.
***
La libraia ha rifiutato l’offerta di Don Livio di essere accompagnata a casa ed ora, mentre le giunge il vociare della gente che abbandona il circo, ascolta i suoi passi aggirarsi confusi e curiosi tra la zona dedicata agli animali.
Tutti i versi che si attendeva dal telone che copre le gabbie, il ruggito, il barrire, lo squittire, sono solo un ricordo assorbito dalla nebbia. Nemmeno qui le è dato scoprire lo stridio acuto del falco, unico motivo per cui si sta attardando tra la solitudine del circo a luci spente.
Si ferma, rendendosi conto solo adesso che si è spinta troppo in là, sola, in un luogo buio e pieno di animali predatori, per quanto rinchiusi.
Stupida, si rimprovera, tutto per sentire il verso di un uccello che hai letto nei poemi romantici. Questa è la realtà
Lo sguardo sfiora timoroso le ombre delle gabbie e cade nel grigio disteso tra le sue gambe.
E la realtà è nebbia
Aggiunge per darsi la spinta a tornare indietro.
Finalmente si volta verso la strada.
E urla.
***
L’animale è uno scricciolo di ossa, coda e pelo arruffato che le salta intorno con sorprendente energia. Al posto delle zampe sembra avere molle scattanti, al posto degli occhi due perle nere di gioia.
Alla libraia basta un secondo sguardo per riprendersi dalla spavento e, per quanto prigioniera dei suoi balzi in cerchi festosi, la tensione si scioglie nella spontaneità di un sorriso.
- Ciao. E tu da dove spunti? -
wof, le spiega il cane in un ansimare rapito alla frenesia dei salti.
- Ma vuoi tenermi qui? – continua la libraia in un tono che deve piacere al cane, perché i suoi balzi diventano più alti, fino quasi a raggiungere le spalle della donna.
- Ma come fai? – lo segue lei con un’iniziale senso di sbandamento – Guarda che se non ti fermi, mi fai venire le vertigini e tu stramazzi –
wof wof, la rassicura il cane con i suoi occhi grandi.
- Basta, basta – protesta la libraia senza riuscire ad arrabbiarsi davvero – Mi fai girare la testa -
- Giotto, qui! – una voce lacera la notte, la nebbia e la danza.
Improvvisamente calmo, il cane trottella verso la figura che ha parlato.
La libraia socchiude gli occhi nel tentativo di scrutare il buoi, con un nuovo senso di angoscia che soffia nel petto.
- Tranquilla, signora – la voce avanza e diventa uomo – Giotto è un giocherellone – un altro passo e la libraia intuisce una sagoma familiare in quella persona vestita di nero - Non farebbe del male nemmeno al mio falco, il che è tutto dire, visto che lui lo becca ogni volta che può -
L’uomo ora è a pochi passi da lei, l’espressione stanca, ma cordiale.
- Il trapezista – mormora incredula la libraia, ancora rapita dalla spettacolo a cui ha assistito.
Lui annuisce e allarga il sorriso.
- Il suo numero, insomma, guardi, non ho parole -
- Nemmeno io, se è per questo. Lo faccio senza ragionarci sopra, altrimenti mi metterei in malattia –
- Cosa? – esita lei, colta di sorpresa, e l’istante dopo ride, appena, una mano davanti alla bocca.
- Mi scusi – si affretta ad aggiungere, la bocca ancora celata dalla mano.
L’uomo la osserva con un’espressione esageratamente corrucciata.
- E di cosa? Non si trattenga, anzi – la voce diventa un sussurro – Si comporti facendo onore al mio nome -
- Risolo? – scherza lei sentendosi subito fuori luogo.
Ma l’uomo la sorprende in una risata più ampia e forte della sua.
- No, signora. Mi chiamo Libero -
- Oh – soffia la libraia senza aggiungere altro.
Lui rimane un istante in silenzio, forse in attesa del suo nome, poi si guarda intorno e con una mano indica l’ombra di una gabbia.
- Cosa fa’ da queste parti? -
Lei abbassa gli occhi, si sente arrossire e ringrazia la notte.
- Io – esita ancora, prima di guardare di nuovo il volto di Libero e stupirsi per la prima volta della sua bellezza – Le sembrerà ridicolo ma cercavo proprio il suo falco. Ho letto tanto di lui e mi sarebbe solo piaciuto sentirne il verso – si affretta ad aggiungere per tranquillizzare il suo interlocutore.
Libero oltrepassa con gli occhi le gabbie, la nebbia e ogni presenza.
- Pellegrino è sempre silenzioso - mormora. Poi lo sguardo ritrova quello della donna – L’ho chiamato così non solo perché è un falco pellegrino, sa, ma perché penso abbia lo stesso istinto vagabondo che è racchiuso nel mio nome -
wof, irrompe Giotto, immobile ai suoi piedi.
- Certo – aggiunge Libero appoggiando una mano sul suo capo – E’ anche il tuo istinto -
Giotto ringrazia con un ampio scodinzolare di coda, poi torna ad abbassare lo sguardo tra le zampe.
La libraia lo guarda con un sussurro di tenerezza.
- Ha gli occhi tristi, ora -
- Giotto è triste – le fa’ eco Libero – Tutti gli animali qui sono tristi, anche Pellegrino –
Con uno slancio di cui è la prima a stupirsi, lei gli getta addosso uno sguardo duro.
- Parla di vagabondi e libertà. Con che diritto se accetta che questi animali vivano in gabbia? -
Libero non sembra sbilanciato dall’attacco.
La guarda con un silenzio celato di malinconie che confonde la donna e la spinge a chinare il capo.
- Mi scusi – mormora.
L’uomo non risponde. Muove un passo, un altro.
La donna non indietreggia. Nemmeno quando sente il suo alito sul collo.
- Se vuole scoprire cosa c’è dietro la sua indignazione, se accetta di fidarsi – spiega piano lui – Lì c’è il mio carrozzone. Le offro da bere e le racconto un sogno -
La libraia ha uno scatto. Si allontana con lo sguardo dall’uomo e ancora si lascia sorprende dalla bellezza e da quel velo di malinconia mentre ne esplora il viso.
È uno sconosciuto, solitario incontro in un luogo di ombre e nebbia, e le sta proponendo di entrare nel suo territorio.
La donna esita, sa che è nelle condizioni di emergenza per non accettare, anzi, per allontanarsi da lì in fretta, ma c’è un imprevisto che la trattiene.
Libero è l’uomo dei desideri del circo.
Libero conosce il falco, l’animale dei suoi poemi.
Infine, Libero ha il fascino della tristezza disegnata sul volto di un bell’uomo.
- D’accordo – dice in fretta, per non darsi il tempo di rendersi conto di quanto sta accadendo.
L’uomo annuisce, le porge un braccio e insieme si incamminano verso le dimore su ruote dei vagabondi del circo.
Solo Giotto si attarda un istante, il naso che freme e interroga odori.
Ha appena avvertito una presenza alle loro spalle, ma ora, nel buio, non scorge movimenti.
E poi, è troppo incuriosito dalla nuova figura che si muove a fianco del suo capo-branco, per cui dimentica subito la ricerca ed inizia a trottare festoso incontro alla coppia.
***
La musica è come il vagito del mare che cresce, avanza e si spezza nel fragore della sabbia.
La donna chiude gli occhi e si lascia andare alle note in sottofondo, mentre le mani dell’uomo ne conoscono la pelle del collo, le labbra ne assaporano il gusto dei seni e il corpo si inarca di desiderio nell’incontro con i fremiti tra le sue gambe.
Libero ha l’odore del vento quando sale dalla collina e spazza via la nebbia di Fine Viaggio, ha il sapore delle pagine quando innalzano le gesta dell’uomo a lirismo.
In un gemito che sovrasta la musica stringe le gambe intorno a lui e lo ascolta penetrarla.
La musica si alza in un crescendo di sensualità di archi e strumenti a fiato, scandita dal rullare ritmato delle percussioni, potente, intenso, come i movimenti dell’uomo dentro lei.
Sente l’eccitazione crescere con le note e la mente liberarsi su questi accordi che in un lieve mormorio hanno accompagnato anche le prime parole di Libero, poco prima, entrati nel suo carrozzone.
***
- Vengo da molto lontano, mia bella signora - l’aveva sfiorata con la voce, seduto sul ricordo di un divano, mentre le offriva senza cerimonie una bottiglia di birra fresca – Mio padre era un famoso addestratore di falconidi, falchi pellegrini brookei, in particolare, gli abili cacciatori che tutti conoscono -
Lei aveva taciuto, gli occhi curiosi nei suoi, la bottiglia di birra abbandonata tra le mani,
Giotto sembrava trovarla comoda, perché la aveva scelta come guanciale per il suo riposo ed ora accompagnava musica e parole con un ronfare immenso per la sua esile figura.
- Li ho sempre ammirati, i falchi. Tutta la loro struttura è un progetto di efficienza. Sono imbattibili nel cielo – Libero aveva alzato lo sguardo, oltre la barriera del soffitto – Hanno una velocità media di ottanta, cento chilometri orari. Ma quando colpiscono -
Si era interrotto perso in qualche spazio nell’aria, poi era sceso sulla donna con occhi che bruciavano.
Lei aveva sospirato, senza nemmeno sapere di farlo.
Lui con un gesto rapido era scivolato al suo fianco.
Giotto aveva annotato il cambiamento con un pigro aprire di palpebra ed era tornato nel suo mondo.
- Quello che lei cerca non è il verso del falco, non il suo richiamo stridulo. Pellegrino pesa seicento grammi e quando scende in picchiata raggiunge la velocità di trecento chilometri l’ora -
- Tremendo – si era lasciata sfuggire la donna, che conosceva il falco solo nei disegni sul braccio dei cavalieri.
- Quello che lei deve sentire del falco, mia cara signora, è il fischio che nasce dalle ali mentre si tuffa sulla preda. Un fendente nell’aria –
Poi, lieve, si era chinato su di lei, e le loro labbra si erano conosciute.
***
Pellegrino saltella goffo da un ramo al suolo. Giotto lo osserva distante, dietro le gambe di Libero.
Il falco si ferma, il capo grande reclinato come in ascolto delle nuove presenze, gli occhi che sembrano fissare il cane, senza timore, anzi, con sfida.
- Ecco, così non sembra nemmeno lui, vero? – chiede Libero, una mano in quella della libraia, l’altra appoggiata alla recinzione.
- Non capisco ancora perché – risponde lei, assorbita dall’impotenza del rapace – Come puoi permettere che Pellegrino rimanga in questo stato – conclude infine con una nota di fastidio che scende fino alla mano e la libera dalla presa di lui.
L’uomo sembra non averla ascoltata.
Non cerca di nuovo il contatto fisico, la fronte appoggiata alla gabbia, gli occhi che si muovono tra le illusioni dei rami morti al suo interno.
E quando parla, è come se si rivolgesse al falco.
- La mia ammirazione per loro era così grande che da bambino sognavo di volare. Scoperto che non potevo farlo, sono diventato un trapezista che sfida il cielo –annuisce in gesti lenti che provengono da pensieri stanchi - In fondo, la vita stessa è un continuo equilibrio –
Si volta verso la libraia e ancora una volta lei si sente immergere dalla sua malinconica bellezza senza scampo.
- Quando mio padre è morto, ho lasciato tutti i falchi alla Guardia Forestale. Ma Pellegrino no. Era troppo piccolo, allora, ed io cercavo un compagno. Ce ne siamo andati in giro, saltimbanchi sperduti tra paesi, fino a quando il proprietario del Circo Petrino non ci ha notato – lo sguardo cerca ancora quello del falco, immobile nel capo reclinato, gli artigli che affondano nel terreno - Il circo permette al pubblico di sognare, di essere fuori dalle regole senza rischi, ma per noi non è così. Per noi è gabbia. Solo gabbia che annulla il mio nome e il suo –
wof, ricorda paziente Giotto.
Libero annuisce di nuovo.
- Si, Giotto, anche per te è una prigione – aggiunge mentre lo accarezza tra le orecchie e riceve in cambio mugolii di soddisfazione – Giotto è un’altra attrazione. Balla, salta, anche attraverso il fuoco – la mano si ferma – Anche lui è la vostra illusione -
- Ho sempre pensato al circo come ad un luogo distante. Magico e crudele allo stesso tempo – ammette lei, le parole che scivolano tra la recinzione della gabbia e raggiungono Pellegrino; il rapace tende ancora di più il capo verso quel suono nuovo e fa sbattere le ali in una sequenza di rapido allarme.
Giotto si avvinghia di pelo ed ossa tra le gambe di Libero, ma il falco sembra di nuovo indifferente.
- Ho resistito solo perché non sapevo fare altro e avevo bisogno di cibo e tetto, per me e per loro. Ma abbiamo pagato un prezzo troppo alto -
- Anche il tuo spettacolo ha un prezzo alto – gli fa notare lei, in un’allusione di cattivi presentimenti.
- Alludi al fatto che potrei cadere? - Libero sorride, senza gioia - Se così fosse non voglio sepoltura tra gli uomini, ma tra gli animali. L’ho scritto nel mio testamento. Mi sento più vicino a loro, credimi. Se c’è un’anima, non è nelle nostre gabbie, ma nelle loro passioni –
La donna apre la bocca, mormora silenzi. La sua mano cerca ancora quella dell’uomo.
Lui la sfiora, delicato, poi la avvolge in una carezza.
- Pellegrino ormai è adulto e sa badare a se stesso. Questa notte sarà libero, come me e Giotto. Era l’ultima serata del circo a Fine Viaggio, sarà anche l’ultima che ci vedrà prigionieri -
Lei stringe la sua mano in un sussulto stupito.
- E dove andrete? -
Senza alcun preavviso o apparente motivo, Giotto diventa uno scatto che lacera l’immobilità rassegnata dalla presenza del falco e corre verso la porta di accesso alle gabbie. Qui, comincia ad abbaiare, forte, veloce.
- Cosa succede? – chiede la libraia.
Libero lascia la sua mano e si avvicina alla porta. Giotto continua ad abbaiare, poi, all’improvviso come ha cominciato, tace, lo sguardo che cerca la gratificazione del capo-branco.
L’uomo apre cauto l’uscio, si affaccia nella notte, poi torna alla donna.
- Deve avere sentito qualche rumore – spiega con tono distratto – Ma fuori è tutto a posto – aggiunge avvicinandosi.
Lei lo sfiora con un bacio. Libero la guarda, come se nella donna vedesse ogni ultimo desiderio. Poi, indifferenti al terreno battuto, all’odore di escrementi, alla presenza di un Giotto perplesso, si possiedono ancora una volta, di vita e di addii.
***
Piccoli passi, frenetici, ritmici, li sente ovunque battere sul soffitto della libreria. È la pioggia che avanza in una mattina di lunga malinconia.
Seduta nell’immobilità del suo mondo di libri, la libraia si accorge che oggi il suo poema preferito non è tra gli scaffali, ma in un uomo che sfida il volo e le catene ed è già verso strade ignote, in compagnia di un falco e di un cane.
Lo sguardo cerca un istinto di cielo e riesce a scorgerlo nonostante le mura incrostate di libri e polvere, nonostante le nuvole appesantite di nera pioggia, nonostante cupi pensieri che l’hanno accompagnata fino ad ora, anche dopo che Libero l’ha accompagnata a casa, anche dopo che ha aperto la libreria prima del solito, svegliata da un insolito vociare sotto la sua finestra e lungo i vicoli lambiti di pioggia. Solo in uno scorcio spezzato della mente, nel breve e silenzioso percorso dalla casa alla libreria, si è chiesta cosa abbiano mai da dirsi gli abitanti di Fine Viaggio così presto. Ed ora la domanda torna, con un vago senso di allarme, perché attraverso la vetrata scorge ombre muoversi con insolita vitalità.
Forse stanno solo elogiando il circo e la sua magia, si risponde per ricominciare a respirare.
Gli occhi cadono sul libro aperto e distratto sulle gambe.
“È il granello di sabbia che confonde l’occhio della mente”, dice Orazio nell’Amleto e forse anche alla libraia. Lei annuisce.
Quando con gli occhi torna verso la vetrata dell’ingresso, si sorprende di non essere stupita dalla figura nera che gocciala a pochi metri.
- Mi scusi, credo fosse distratta. Non mi ha sentito entrare -
Lei nemmeno si alza. Chiude il libro in uno sbuffo ovattato e appende i suoi occhi nella fronte dell’uomo.
- Cosa leggeva? – aggiunge lui, apparentemente non turbato da quell’accoglienza. E intanto si avvicina alla donna.
- Le serve qualche libro, Don Livio? – taglia l’aria lei.
Questa volta il prete sembra esitare, si ferma, accenna ad un altro passo, poi si ferma di nuovo.
- Non si è accorta dell’agitazione del paese? – chiede con un mormorio di compassione che allarma la libraia.
- Questa notte qualcuno ha liberato il falco del circo –
Le mani della donna stringono Amleto in una richiesta di aiuto. Nessun fantasma la soccorre e lei attende, ancora, in silenzio, sforzandosi di mostrare indifferenza.
- Un disastro. Quel mostro si è avventato su galline e pecore. Ci sono stati molti danni tra gli allevatori di Fine Viaggio -
- Mi dispiace – risponde la donna con la massima formalità che riesce a trovare nella tempesta del suo animo.
Don Livio si avvicina di un altro passo. Nonostante il tono sommesso, ora nei suoi occhi è leggibile avido compiacimento.
- Il Circo Pretino dovrà pagare molti danni. E per farsi perdonare, ha promesso un’altra serata, oggi, l’ultima. Gratis per tutti -
- Capisco – le unghie affondano tra le pagine, nelle parole di morte di Ofelia.
Don Livio scuote la testa, un accenno di movimento soltanto, quasi indifferente, che proprio per questo allarma ancora di più la donna.
- Andremo tutti, me compreso – una pausa che è già gonfia di nero – E lei mi accompagnerà -
Amleto cade sconfitto al suolo. Il prete ne osserva la copertina rossa aperta come una macchia di sangue.
- E perché mai dovrei? – sfida la donna.
Don Livio si china, raccoglie il libro e, come dimentico della sua interlocutrice, sfoglia assorto qualche pagina. All’improvviso il volto si illumina di ispirazione.
- “La natura nel suo sviluppo non cresce soltanto in nervi e volume, e, mentre il suo tempio si innalza, si intensificano nel suo interno anche i riti della mente e dell’anima” – con uno scatto serra il libro.
La libraia sussulta a quel suono secco come di mandibole.
- Ecco, vede, dobbiamo ritrovare la spiritualità persa nella materia -
- Non credo che Laerte volesse dire questo – tenta la donna, ormai confusa.
Don Livio sembra capirlo, perché i suoi passi verso lei diventano decisi, fino a fermarsi al suo fianco.
- Lei verrà per assistere alla sconfitta della corruzione. Questa sera si esibirà anche il suo amante -
Le mani della libraia saltano alle labbra per soffocare ogni emozione.
Il prete annuisce, ne osserva lo stupore e l’angoscia degli occhi spalancati, e ancora annuisce.
- Vi ho sentiti, ieri. So tutto, mia cara -
La libraia libera la bocca, le parole che sgusciano tra i denti serrati.
- Lei è … lei è un … -
Don Livio le infrange con una mano protesa in avanti.
- Io devo vigilare sulle anime contro il decadere dei costumi. Il suo amico, con quel suo lavoro in cui osa sfidare la proibizione divina al volo, con quel suo credere che gli unici ad avere un’anima sono gli animali e non gli uomini creati ad immagine e somiglianza di Dio, è un blasfemo -
- Scommetto che ha raccontato tutto –
Don Livio sorride, sembra davvero di partecipe comprensione.
- No, figliola, è qui il punto – si china appena sul volto della donna.
Lei si ritrae trattenendo il respiro per non incontrare quello del prete.
- Per ora si crede che il falco si sia liberato accidentalmente, non per deliberata intenzione di qualcuno. Altrimenti i danni non li pagherebbe il circo, ma il suo caro trapezista -
La donna chiude gli occhi e libera il respiro in una lunga fuga di sconfitta.
- Ma se io non sarò allo spettacolo, lei racconterà tutto -
Don Livio si alza, appoggia Amleto e i suoi drammi sulla scrivania, e si allontana.
La porta cigola appena mentre si apre e lascia entrare lo sbuffare stanco della pioggia.
Il prete si ferma sull’uscio e si volta ancora una volta verso la donna, fagotto svuotato in penombra.
- Dimenticavo – aggiunge in tono distratto – Una delle prime vittime del falco è stato il cane del circo –
Lei sussulta in uno sguardo attonito
– No, non è morto. Ma non credo sia messo tanto bene – aggiunge il prete, prima di un accenno di inchino – A stasera, figliola – e con un tonfo di porta svanisce oltre la libreria.
La donna rimane immobile, il capo chino, come appesantita da tutta la pioggia che scende su Fine Viaggio.
***
Il circo è quasi vuoto.
I pochi abitanti che hanno accettato lo spettacolo riparatore siedono sulle panche con aria severa, distratti alle battute iniziali dei clown, dai loro occhi neri, dalle labbra bianche, dipinti sul viso come colate di pianto.
Ma lo spettacolo tenta ancora di vendere illusioni, anche quando il leone, stanco dagli esercizi della sera prima e dal secondo pasto abbondante, ruggisce poco convinto, con suoni che sembrano più domande che fiere minacce.
La libraia osserva le scene già viste con le mani che si cercano sul grembo e si stringono, forti, tenaci, in una richiesta d’aiuto che non giunge da nessuno. Sicuramente non dal prete seduto al suo fianco. L’unico che, pur attraverso la recinzione di uno sguardo crucciato, sembra apprezzare l’evento. E che si illumina quando in pista entra il direttore del circo.
- Signore, signori- è l’annuncio solenne – Come purtroppo ben sapete, il nostro falco è fuggito dopo i danni procurati non solo a voi, ma anche a noi – una breve pausa in attesa delle reazioni del pubblico, che sono silenzio e occhi duri – Pertanto, il prossimo numero avrà una necessaria variazione. Il trapezista si esibirà senza il falco, ma –
Il direttore lascia la frase nell’aria e si sposta. Alle sue spalle sta entrando un cane con il dorso fasciato, zoppicante. La coda tra le zampe.
- Non lasciatevi impressionare dall’aspetto – si affretta ad annunciare l’uomo mentre il cane si porta al centro della pista e un inserviente sistema cerchi tutto intorno – Giotto rimane il nostro migliore acrobata anche dopo l’assalto del falco. E questa sera, qui per voi, si esibirà nel salto del cerchio mentre il trapezista percorrerà il suo viaggio nel cielo! -
- Non è possibile – geme la libraia.
Don Livio la sfiora con uno sguardo compiaciuto ed inizia ad applaudire. Dopo un istante di smarrimento, il resto del pubblico lo segue.
Il direttore dedica a tutti un largo sorriso e si ritira dietro le quinte.
Al centro della pista, Giotto esita, sposta lo sguardo tra quelle figure che lo sommergono di odori e suoni, zoppica verso il primo dei cerchi, annusa, sembra osservare stupito la scenografia.
E all’improvviso alza lo sguardo.
Il pubblico lo imita, come un unico branco.
Il trapezista è lì, oltre le intenzioni della gravità, i primi passi sulla corda che oscilla ancora provata dal numero della sera prima.
La libraia lo vede, nero e con le braccia aperte, come un falco in osservazione nel cielo.
Ti amo, gli dice con la mente, e non capisce se si riferisce a lui, a Pellegrino, a Giotto, a tutti e tre, o alla libertà infranta.
Intanto Giotto, forse stimolato dalla presenza del capo-branco, salta il primo cerchio e guaisce di dolore quando atterra al suolo.
Il pubblico si ferma, sospeso, incredulo, gli occhi confusi tra il cane e il trapezista che avanza, piano.
Giotto si avvicina faticosamente al secondo cerchio. Esita di nuovo, guarda in alto, vede Libero che si muove e allora decide. Torna indietro di poco, quindi si gira verso l’ostacolo, accenna ad una corsa e flette le zampe nel balzo.
Poi, tutto avviene con la violenza di un lampo.
Il dorso del cane urta il cerchio, che si spezza. Il bendaggio si scioglie in un getto di sangue e Giotto, senza suono, crolla al suolo.
- Giotto, no! – urla la libraia scattando in piedi. Non sa se anche gli altri spettatori si stanno rendendo conto di quanto accade, tutto il suo mondo è assorbito dal cane che muore in una pozza di sangue e polvere, fino a quando un altro urlo, potente, rabbioso, non la spinge a guardare in alto.
- Siamo liberi! –
La voce del trapezista diventa una picchiata assoluta che ghermisce ogni spettatore.
L’istante dopo, anche Libero cade, spezzandosi al suolo.
***
Le mani della libraia accarezzano la terra umida di nebbia e di notte.
Ha appena terminato la sepoltura, a fianco alla tomba di Giotto.
È stanca, non solo per la notte trascorsa tra le lapidi di Cimitero della Lontananza, ma anche perché ha pochi giorni di vita. È così avanzata ormai la sua malattia, che non le lascerà altre letture.
Si alza in un lungo dolore di ossa appassite e scruta ancora in alto, negli spazi del cielo.
Al risveglio degli abitanti di Fine Viaggio, andrà dal notaio Felina per redigere il nuovo testamento.
Disporrà di essere seppellita al cimitero degli animali, accanto a Giotto, accanto a Libero.
E, da questa notte, accanto a Pellegrino.
Prende con gli occhi un ultimo scorcio delle loro tombe, li posa negli angoli più caldi del petto, e si allontana.
Sa che la sua richiesta non è regolare.
Ma c’è già un precedente a cui appellarsi.
Aperto il testamento di Libero, si era scoperta la sua intenzione di giacere tra gli animali.
Che si faccia pure, aveva tuonato Don Livio, sosteneva che discendiamo da loro, si è suicidato per loro, se vuole essere uno di loro nella morte ne renderà conto a Dio!
E Libero era stato seppellito a Cimitero della Lontananza, nel segreto di una sera senza cerimonie.
Pertanto, la donna sa cosa scrivere nel suo testamento. E, se qualcuno dovesse davvero opporsi, sa come accelerare la morte.
Giunta all’uscita, alza un’ultima volta lo sguardo alla notte che svanisce in scie rosse d’alba e la scopre piena di libertà.
La sera dopo il funerale di Libero, era salita per la prima volta sulla collina. Seduta tra la sua lapide e quella di Giotto, aveva iniziato a leggere una fiaba dei Grimm. Le sue parole riempivano di silenziosa attenzione i resti degli animali, mentre narrava “La morte della gallinella”. Verso la fine, quando il galletto scavava una fossa per la gallinella e le dedicava un tumulo, era stata distratta da un rapido sfrecciare di ombra al suo fianco.
Aveva riconosciuto il fendere d’aria, prima ancora di distogliere lo sguardo dal libro.
Pellegrino era lì, sulla lapide di Libero, e la osservava, il capo reclinato, in immobile attesa.
Da allora e fino al giorno della morte, era diventato il suo silenzioso compagno.
Con uno sforzo sulla ruggine che graffia le giunture, la libraia chiude il cancello e si incammina sul sentiero che sale a Cimitero di Solitudine o scende a Fine Viaggio.
Sospeso tra questi due mondi, Cimitero della Lontananza rimane in attesa.

* racconto presente nell’antologia “Città di Solitudine”.